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san martino de' porres
di P. Gerardo Cioffari OP
Mentre tanti frati venivano alla ribalta della storia per la loro partecipazione a controversie o per il loro ruolo in eventi notevoli, altri vivevano la loro vocazione nel silenzio, nella preghiera e nel lavoro manuale al servizio dei poveri. Solitamente la storia va avanti senza vederli. Trattasi infatti di vite che non soltanto non hanno partecipato a grandi eventi ma hanno anche una documentazione decisamente insufficiente. Qualche volta però questi eroi silenziosi sfondano il velo che li ricopre e sia pure senza documentazione e senza rumore di eventi entrano nel cuore degli uomini e, quasi senza volerlo, entrano anch'essi nella storia.
Questo è stato il caso di due protagonisti della spiritualità sudamericana, che sono anche i primi santi d'America: Martino de Porres e Rosa da Lima. Un modo di essere grandi nel nascondimento, che va però ugualmente evidenziato se non si vuole ridurre la storia ai geni del pensiero e ai protagonisti degli eventi ecclesiali. Tanto più che il loro tipo di eroismo e santità, anche se non riconosciuto ufficialmente, ha caratterizzato certamente migliaia di frati conversi (oggi detti “cooperatori”) e di suore. Non va dimenticato, infatti, che il mondo domenicano del medioevo e dell'età moderna registrava una presenza massiccia di questi frati, infinitamente superiore all'attuale, che dava un'immagine del convento completamente diversa da quella degli ultimi due secoli. Lo stesso va detto delle suore che, operanti spesso a ridosso dei conventi, non hanno quasi mai attirato l'attenzione degli scrittori se non in casi eclatanti. Per cui Martino de Porres e Rosa da Lima sono importanti sia per sé stessi sia come personificazione di un mondo che non è emerso agli occhi degli uomini, ma che è altrettanto prezioso agli occhi di Dio. Quanto si dirà di loro, sia pure in diversificate circostanze e personalità, è come se lo si dicesse di tani altri frati anonimi per la storia.
Una storia dei domenicani che non parli di Martino de Porres, sarebbe una storia monca, in quanto ometterebbe un aspetto delle attività domenicane assolutamente prioritario, quello dell’aiuto ai poveri attraverso tante modalità, prima fra tutte l’istituzione delle farmacie (spezierie) conventuali.
E' difficile trovare in età moderna un convento senza un’infermeria o farmacia per la preparazione dei medicinali per i malati. Per cui, se volessimo avere un’immagine fedele della vita conventuale domenicana, bisognerebbe pensare ad un Martino de Porres quasi in ogni convento. Certo, la santità personale del grande frate peruviano lo distingue dagli altri. Ma la sua figura è davvero esemplare, nel senso che ciò che si dice di lui, fatte le depite proporzioni e distinzioni, va detto per la maggior parte dei conventi domenicani.
Quando si pensa a Martino de Porres[1] spesso s’immagina un giovane di colore che nell’Ordine fu destinato a servizi umili. In realtà, le sue origini erano umili solo da parte di madre, una serva panamense di origine africana, che era stata liberata ed aveva preso il nome di Anna Vasquez. Il padre, invece, era un nobile spagnolo, che si chiamava Giovanni de Porres, il quale per qualche tempo non volle riconoscere il figlio mulatto.
Martino nacque a Lima, nel Perù, il 9 dicembre 1579 e fu battezzato nella parrocchia di S. Sebastiano. Benché alcuni anni dopo il piccolo venisse accolto dal padre, dovette vivere fra gli stenti con la madre e la sorellina Giovanna. Finalmente, quando aveva circa otto anni, il padre se ne fece una ragione e si decise ad occuparsi dell’educazione dei figli. Li portò con sé a Guayaquil in Ecuador, dove i due fratellini poterono vivere con maggior serenità e agiatezza.
Dovendo partire per il Panama, di cui era stato nominato governatore, il padre riportò Martino a Lima, lasciando alla madre il necessario per il vitto e l’educazione. Frequentando due vicini di casa, Matteo Pastor e Francesca Velez Michel, che esercitavano come farmacisti, Martino cominciò ad appassionarsi alla medicina. E la cosa continuò anche quando, praticando nella bottega di barbiere di Marcello de Rivera, aggiunse quella di barbiere alle sue conoscenze chirurgiche.
Aveva quindici anni quando sentì la chiamata del Signore, che lo spinse verso l’Ordine domenicano già attivo a Lima sin dai tempi del primo vescovo del Perù, il domenicano fra Vincenzo Valverde, che era stato il consigliere di Francisco Pizarro, il conquistatore. Si presentò perciò ai domenicani della chiesa del Rosario, che era anche la prima chiesa americana dedicata alla Madonna del Rosario, costruita poco prima che nel 1539 venisse costituita la provincia domenicana del Perù.
Questo del Rosario era un grosso convento con quasi cento frati, anche perché oltre ai normali padri vi erano sia i novizi che gli studenti. Era cioè una casa di studio di filosofia e teologia.
I domenicani l’accolsero come “donato”, vale a dire come un converso dedito ai lavori più umili. E fu anche questo, oltre che la stessa scelta religiosa, a provocare la reazione negativa del padre. Ma Martino era felice di essere chiamato ai lavori più umili, che lo vedevano costantemente con una scopa in mano, dedito alle pulizie. Anzi, nei momenti di pausa cercava di essere utile alla comunità grazie alle suddette sue conoscenze in campo medico, non di rado aiutando proprio quelli che l’avevano deriso e offeso.
Si tramanda che, trovandosi il convento in gravi difficoltà finanziarie ed oppresso dai debiti, il priore uscì con alcuni oggetti preziosi allo scopo di venderli e col ricavato pagare i debiti. Memore forse di S. Domenico che si era offerto di riscattare il fratello di una povera donna consegnandosi lui come schiavo, Martino rincorse e raggiunse il priore che stava andando alla piazza del mercato. Ancora affannato per il cammino spedito, gli propose di non vendere i preziosi del convento, ma di vendere lui stesso come servo. Comprendendo la grande umiltà del frate e il suo grande attaccamento al convento, il priore lo rimandò indietro, dicendogli: “Torna indietro, fratello, tu non sei da vendere[2].
Se Martino era umile, non vuol dire che fosse ignorante. Vi sono, infatti, alcuni episodi che lo rivelano non del tutto ignaro della filosofia e teologia tomista. Essendo il suo un convento di formazione filosofica si imbatteva spesso in studenti che discutevano le tradizionali questioni scolastiche, come ad esempio quella dell’essenza e dell’esistenza in Dio. Una volta due studenti stavano parlando fuori della scuola di quest’ultima questione. Vedendo passare Martino, gli chiesero cosa ne pensasse. Probabilmente nella loro voce ci doveva essere una nota di presa in giro, pensando che l’argomento non fosse alla portata di un frate converso. Come se nulla fosse, Martino diede questa risposta: Non dice S. Tommaso che l’esistenza è più perfetta dell’essere, ma che in Dio l’essere è lo stesso che esistere ? Sorpresi dalla risposta, i due studenti andarono a riferire l’episodio al reggente degli studi, il quale commentò l’accaduto con queste parole: Martino ha la scienza dei Santi [3]
Del resto Martino non nascose sotto terra il talento ricevuto. Cogliendo l’occasione di tanti poveri e malati che venivano a trovarlo, non mancava occasione per radunarli nell’infermeria o in qualche altro luogo per parlare loro della fede in Dio e di come questa fede andava messa in pratica nella vita quotidiana. Qualcosa di analogo faceva allorché si recava alla fattoria di Limatambo. Al suo arrivo accorrevano molti servi, per lo più di colore come lui, ed egli li ammaestrava [4].
Dovette essere proprio questa sua dedizione all’Ordine, questa scienza dei Santi e tutta la sua preziosa opera in convento a spingere i superiori a non tenerlo più soltanto come “donato”, ma a fargli emettere la professione solenne come frate converso (2 giugno 1603).
Martino impresse allora alla sua vita una svolta più ascetica, con lunghe ore dinanzi a Santissimo Sacramento e flagellazioni notturne. Particolari meditazioni faceva intorno alla Passione di Gesù. Anzi, secondo alcune deposizioni al processo apostolico del 1683, ebbe il dono dell’estasi e fu visto sollevarsi diversi palmi da terra.
Egli cercò spesso la compagnia di altre anime elette, come il converso domenicano Giovanni Macìas[5], che apparteneva al convento di S. Maria Maddalena. Poco a poco, benché cooperatore, s’impose per la sua saggezza al punto che venivano a lui per consiglio uomini altolocati come il governatore ed il viceré. Ma più spesso era impegnato a sollevare le condizioni degli indigenti, in particolare degli indios. Grazie alle sue conoscenze mediche enorme fu il suo servizio nel momento in cui la peste colpì la città di Lima. Sembra che in quell’occasione curasse ben sessanta frati.
Soprattutto nei primi anni egli esercitò soprattutto come barbiere. E in un convento con un centinaio di frati si può ben immaginare quanto tempo questa attività lo impegnasse. I documenti parlano della “fila” che gli studenti erano costretti a fare o dei tentativi di qualcuno di ridurre l’effetto della rasura monastica, facendogli tagliare meno capelli. Sembra però che in questo Martino fosse poco propenso ad accontentare la vanità dei frati e si attenesse alla regola. In tal senso si espresse infatti padre Francisco Velasco Carabantes, uno dei padri che Martino non aveva accontentato (venendo per questo malmenato), al processo di beatificazione[6].
Come si è detto però la sua principale attività fu la cura dei malati, per la qual cosa comunque Martino fu facilitato dalla fama di santità che lo accompagnava già in vita. Infatti, essendo questa una attività eminentemente sociale e caritativa, molti ricchi vedevano in lui la possibilità di fare opere di bene alla ricerca della misericordia divina. Fu così che, pur avendo un altro frate al di sopra di lui come capo infermiere, Martino poté fornire la sua infermeria di tutto il necessario, con biancheria pulita, letti, e strumenti idonei. Come aiutante aveva tale Giovanni Vasquez, che aveva incontrato fra gli immigranti diseredati. E’ da sapere infatti che Martino spesso utilizzava l’infermeria come alloggio provvisorio degli immigranti sfortunati e senza lavoro. Cercava per loro una sistemazione, quindi li mandava via. Un giorno del 1635 nel Cimitero del convento trovò un quattordicenne seminudo che, in risposta alla sua domanda, disse di venire da Jeres de los Caballeros in Estremadura. Portatolo nella sua cella e datogli qualche vestito, gli disse che per mangiare e dormire poteva tornare là, ma che durante il giorno doveva darsi da fare per trovare un lavoro. Nel frattempo gli insegnò il mestiere di barbiere. Poi, Giovanni, affezionatosi a Martino, gli chiese di accettarlo come suo assistente. Martino lo accolse e lo incaricò di una missione particolare: portare l’elemosina a quelle famiglie già ricche ed ora ridotte in miseria.
Con la fama di guaritore, nobili e prelati che passavano da Lima raramente omettevano una visita al convento e a Martino, anche per una veloce “visita medica”. Di questi nobili sono noti alcuni casi, come quello di Feliciano de la Vega, eletto arcivescovo del Messico, e del governatore. A dire il vero l’arcivescovo era malato e non poté recarsi al convento, per cui mandò il nipote padre Cipriano di Medina a chiamare Martino, che lo guarì. Alla proposta di seguire l’arcivescovo in Messico, Martino preferì restare in convento e guarire i poveri.
Quanto al governatore, era questi Giovanni de Figueroa, assiduo frequentatore della cella del frate nonché grande benefattore. L’allegria stampata in volto scomparve improvvisamente alle parole di Martino: Via, non c’è altro da fare che prepararsi a soffrire le difficoltà ! Ormai per strada, per capire meglio la situazione si rivolse a Luigia de Soto Melgareio, che tutti ritenevano dotata di spirito profetico. Ma anch’essa lo accolse con le stesse parole. Nel giro di pochi giorni, ecco la disgrazia: la salute peggiorò, la calunnia danneggiò la sua fama e anche il patrimonio cominciò ad assottigliarsi. Quando tutto sembrava andare alla malora, Martino lo chiamò e gli disse di non temere. Avrebbe sì perso molto denaro, ma gli sarebbe rimasto abbastanza per una vita decorosa [7].
Dal racconto dei testimoni al processo di beatificazione si deve dedurre che, per il grande afflusso di poveri che venivano a medicarsi, Martino avesse a disposizione un’infermeria situata in posizione indipendente rispetto all’interno del convento, altrimenti non avrebbe potuto permettere a questi disgraziati di dormire e mangiare. Qualche volta, in casi di necessità, si permetteva di portare la persona nella sua cella, e solitamente finiva col prendersi un rimprovero da parte del priore. Già era molta l’autorità che gli veniva conosciuta nell’infermeria. Era impensabile allargare questa facoltà di accoglienza all’interno del convento, oltre che nell'infermeria.
Ci si potrebbe chiedere come Martino preparasse le medicine. Purtroppo su questo punto le fonti tacciono, inclini come sono i testimoni a narrare le guarigioni come risultato di miracoli, piuttosto che di cure mediche. Si sa però che Martino, che era di casa nella fattoria di Limatambo, faceva sì che nei dintorni crescessero alberi ed erbe della più svariata specie. La preparazione delle medicine allora era basata quasi del tutto sulle erbe, per cui quella fattoria servì da suo laboratorio.
Al di là comunque di queste opere straordinarie, Martino volle lasciare qualcosa di più duraturo. Pensò infatti ai bambini poveri, per i quali fece costruire il collegio di Santa Cruz; un tipo di istituzione fra i primi sorti in America. Questa realizzazione fu tutt’altro che facile, non riuscendo a sensibilizzare al problema né l’autorità civile né l’autorità ecclesiastica. Il convento, da parte sua, sempre oppresso dai debiti, si limitò a dargli la facoltà di raccogliere i fondi per la costruzione del collegio. Finalmente trovò alcuni benefattori, grazie ai quali cominciò i lavori, affidando la gestione a Matteo Pastor, suo amico e sostenitore. Scelse quindi gli insegnanti che stabilmente dovevano occuparsi di questi bambini orfani o abbandonati. Nonostante le innumerevoli difficoltà, il Collegio di Santa Croce avviò la sua attività, e molti bambini lasciarono la strada trovandovi generosa accoglienza[8].
Nella fantasia dei devoti Martino de Porres ha qualcosa che lo accomuna a S. Francesco: l’amore per gli animali. Come nel caso del poverello di Assisi è difficile individuare l’episodio storico che ha dato origine alla leggenda del lupo di Gubbio e della predica agli uccelli o ai pesci, così per Martino de Porres non è facile dire come siano sorte le leggende dei suoi dialoghi con gatti, cani e soprattutto topi. Certo è, e questo è storia, che la sua figura sia stata vissuta nel cuore dei devoti come di colui che amava profondamente tutte le creature di Dio, anche quelle che solitamente gli uomini avversano.
Una volta andò a trovarlo nell’infermeria fra Francesco Guerrero e notò come stranamente non ci fosse nessuno a farsi curare. Allora Martino disse: Presto qualcuno avrà bisogno delle mie fasce. Di lì a poco faceva il suo ingresso un cane grosso e malconcio. Da una larga apertura al ventre quasi uscivano gl’intestini. Si avvicinò speranzoso a Martino che, sotto gli occhi di fra Francesco, rispinse dentro gli intestini, fasciò la ferita e fece adagiare il cane in un angolo, ove aveva steso una stuoia ricoperta di una pelle di montone. Quindi, lo tenne con sé alcuni giorni, durante i quali gli cambiava la medicazione; infine, lo rispedì dal suo padrone[9].
Ben diverso è l’episodio dell’altro cane. L’infermeria era piena di malati questa volta. All’improvviso entrò un cagnaccio prepotente e molto sofferente, perché aveva avuto due colpi di spada o di un’arma simile. Fattosi largo tra i malati, ringhiando ed abbaiando si presentò a Martino. La cosa aveva sorpreso tutti. Qualcuno era intimorito, ma altri ridevano alla strana scena. La cosa attirò l’attenzione di padre Cipriano di Medina, maestro in sacra Teologia, che si trovava in una galleria superiore. Martino accompagnò il cane per un orecchio e parlandogli per tenerlo buono, lo portò nella sua cella. Lavò le ferite con vino cotto e rosmarino, e le cucì con ago e filo. La cosa fu tutt’altro che facile, un pò perché il cane era di natura sua aggressivo e un pò perché la medicazione era molto dolorosa. Preparò alcune pelli e gli disse: Fai la cuccia. Il cane ubbidì, ma subito si mise a strofinare le ferite che tiravano e gli procuravano prurito. Ringhiava e digrignava i denti. Ma Martino lo sgridò, dicendogli di stare fermo. Con gli occhi dubbiosi, ancora una volta il cane obbedì. Passarono alcuni giorni, durante i quali Martino gli portava da mangiare. Finalmente guarito, il cane esprimeva la sua riconoscenza non staccandosi mai da Martino. Non permetteva neppure agli altri frati di avvicinarsi. Martino gli parlò: Smettila di fare il cattivo, altrimenti ti cacceranno di casa. Il cane questa volta non obbedì. Ed effettivamente, approfittando dell’assenza di Martino, alcuni frati lo cacciarono a bastonate[10]. Il che fa comprendere come l’amore di Martino per gli animali non fosse condiviso da tutti e che indubbiamente creava qualche problema alla comunità.
Un’altra volta Martino stava rientrando al convento insieme a fra Ferdinando, quando vide sulla soglia di una cantina un gatto che miagolava pietosamente. Qualcuno lo aveva colpito alla testa con una pietra, ed era già un miracolo che non fosse morto. Senza fermarsi, Martino gli disse: Ehi, tu stai molto male, vieni con me e ti medicherò. Come se avesse capito, il gatto si mise a seguirli fino al convento. Nell’infermeria, dopo qualche impiastro medicamentoso, Martino gli fasciò intorno alla testa una specie di cuffietta, quindi, fra la sorpresa di fra Ferdinando, concluse: Ora vattene, e torna domani mattina per una nuova medicazione. Preso dalla curiosità fra Ferdinando al mattino si affrettò verso la cella di fra Martino, e con sua grande meraviglia trovò il gatto seduto e in attesa del suo medico[11].
Naturalmente, finché venivano singolarmente, gli animali non creavano grossi problemi al buon frate. Qualche volta però arrivavano contemporaneamente cani, gatti e persino topi. E allora ci voleva un bel darsi da fare per mantenere la pace. In ogni caso, nella tradizione domenicana, quando si parla di fra Martino de Porres il pensiero va subito ai topi, con i quali riuscì a tenere un proficuo dialogo.
L’episodio più noto al riguardo è quello che si connette alla grande opera di fra Martino di corredare l’infermeria di tutto il necessario. A parte le ampolle, le erbe e i medicinali, doveva esserci una buona quantità di materassi, lenzuola, camicie, fazzoletti e fasce varie. Un bel giorno si cominciò a notare che le lenzuola erano rosicchiate, le camicie sporche e alquanto puzzolenti. Ponendo attenzione al triste fenomeno si scoprì che la causa erano i topi, i quali poco a poco si erano creati ambienti tutt’intorno. Ormai la cosa era diventata intollerabile. Allora l’infermiere maggiore decise di risolvere la questione mettendo ovunque del veleno. Pur potendolo fare di autorità, preferì però condividere la cosa con fra Martino. Questi però non fu d’accordo, avendo compassione di quelle bestioline che non facevano altro che andare alla ricerca di cibo. Chiese quindi ancora qualche giorno prima che si prendessero drastici provvedimenti. Il giorno dopo, ormai attento alla cosa, fra Martino riuscì a bloccare uno di quei topi e lo teneva fra le dita. Il topo era tutto impaurito, pensando che era arrivata la sua ultima ora. Invece Martino, guardandolo nei suoi vivaci occhietti gli parlò con parole simili: Fratello, perché tu e i tuoi compagni vi date a rovinare la biancheria dell’infermeria che serve agli ammalati? Con l’aria che tira vi sono di quelli che vogliono uccidervi, perciò vi consiglio di ascoltare il mio suggerimento. Raduna tutti i tuoi amici e conducili nell’angolo in fondo all’orto. Facciamo un patto: io non vi farò mai mancare il cibo e voi non venite più nell’infermeria. Gli occhietti del topo passarono dalla paura al sollievo, e sembravano dire: Affare fatto! E Martino lo liberò. Dopo pochi minuti si sollevò un gran brusio e da ogni parte, da sotto gli armadi e dalle fessure dei travicelli, cominciarono ad uscire tanti topi. Si radunarono e poi, chi piano piano e chi saltando sugli altri, si avviarono verso l’orto. In fondo c’era una bella siepe e dei cespugli, e fu qui che si fermarono a creare il nuovo regno. E, come essi mantennero la promessa di non dare più fastidio e non arrecare danni, anche Martino mantenne la promessa: ogni giorno dopo aver provveduto a dare da mangiare ai malati e ai poveri, portava anche il “pranzo” ai topi[12].
Quale che sia il giudizio su questo atteggiamento di amore verso il mondo degli animali, è certo che vari testimoni oculari chiamati al processo di beatificazione parlarono di questo aspetto del carattere di fra Martino. Morì la sera del 3 novembre 1639, attorniato dai frati in preghiera. Il giorno dopo, con la partecipazione di Feliciano de Vega, arcivescovo di Città del Messico, e delle autorità cittadine, la salma veniva tumulata nella cripta sottostante alla sala capitolare.
Negli anni successivi la memoria di fra Martino non venne mai meno, e soprattutto poveri e malati rivolgevano preghiere affinché intercedesse presso Dio per loro. La devozione raggiunse la maggiore intensità quando, nel marzo del 1664, la salma fu rimossa per essere messa nella cappella del SS. Crocifisso, una volta guardaroba dell’infermeria. I fedeli venivano sempre più a pregare, considerandolo santo già prima di ogni riconoscimento ufficiale. Caso piuttosto raro, anche l’Ordine domenicano riconobbe ben presto la santità di fra Martino. Un encomio fu pronunciato già nel capitolo provinciale di Lima nel 1641. La fama della sua santità varcò ben presto i confini dell’America e già nel 1647 a Valencia appariva una prima biografia del frate peruviano. Nel 1658 ne usciva un’altra a Roma. Il 17 dicembre 1659 il re di Spagna Filippo IV scriveva al papa affinché accettasse di avviare la causa di beatificazione[13].
La causa di beatificazione[14] fu avviata nel 1668, ma giunse a conclusione con la solenne beatificazione soltanto al tempo di Gregorio XVI, il 29 ottobre del 1837.
Nell’America del Nord il culto del Beato Martino entrò poco dopo il 1866, grazie alla predicazione del padre Felice Barotti, il quale inviato a predicare ai negri volle come punto d’incontro a Washington una cappellina, dedicandola al beato Martino. Sul finire dell’Ottocento fu l’apostolo dei negri, mons. John E. Burke, a far conoscere agli americani il beato domenicano. Alle suore domenicane di Sparkill egli aveva nel 1886 affidato una scuola per i negri, che ben presto ebbe anche il suo periodico: St Benedict’s Home Journal. Su questo periodico apparvero alcuni articoli che illustravano la figura e l’opera del beato Martino. Nel 1889 usciva a New York la prima vita in inglese. Nel 1926 padre Ludovico Fanfani, postulatore dell’Ordine, otteneva da papa Pio XI che si istituisse una commissione per la causa di canonizzazione di fra Martino de Porres. Nove anni dopo (1935) il padre E.L. Hughes fondava a New York la Blessed Martin’s Guild, mentre in Perù nasceva, per iniziativa di padre D. Iriarte, la Sociedad y Hermandad del Beato Martin de Porres. Ormai i domenicani degli Stati Uniti cominciavano a rendersi protagonisti nella diffusione del culto del beato peruviano, e da una parte all’altra si moltiplicavano le iniziative. Quale sigillo di tanto impegno e quale augurio per l’iscrizione di Martino nell’albo dei Santi valgano le parole che l’11 giugno 1936 il Maestro Generale padre Gillet rivolse al provinciale della provincia di S. Giuseppe (New York), Terence Mc Dermott: Quel giorno aggiungerà nuovo splendore al nostro santo Ordine con l’esaltazione di uno tra i più grandi dei suoi figli. Ma sarà anche un giorno di speciale trionfo per tutta la chiesa cattolica, perché proverà una volta di più che la sua indiscriminata carità trascende qualunque barriera di razza o di classe [15].
Nel 1957 dalla penna di Giuliana Cavallini usciva un agile volume: I fioretti del beato Martino. Rilevando i grandi intervalli fra una proclamazione ufficiale e l’altra, l’autrice esce in una rassegnata profezia: Centenario della beatificazione, il 1937, e subito dopo il 1939, terzo centenario della morte del beato Martino! e ancora incerto e, forse, lontano il giorno della canonizzazione![16] Suor Giuliana era una brava scrittrice (specialista di S. Caterina) ma, fortunatamente, un cattiva profetessa. Infatti, certamente con sua grande gioia, soltanto cinque anni dopo la comparsa del suo libro, aveva luogo la tanto attesa canonizzazione. Proclamato patrono delle opere di giustizia sociale del Perù dal papa Pio XII (10.I.1945), Martino fu proclamato Santo da Giovanni XXIII il 6 maggio 1962, quindi designato patrono dei barbieri da Paolo VI (luglio 1966).
[1] Su S. Martino de Porres vedi Bernardo de Medina, Vida prodigiosa del venerable siervo de Dios Fr. Martin de Porres, Lima 1673 (Madrid 1675), in Acta Sanctorum 5 novembre; Marchese Domenico, Sagro Diario Domenicano, t. VI, Napoli 1681, pp. 6-24.Melendez Juan, Tesoros verdaderos de la Yndias en la Historia de la gran Provincia de San Juan Bautista del Peru de el Orden de Predicadores, t. III, pp. 201-346; Ponsi Domenico, Ristretto della vita, virtù e miracoli del ven. servo di Dio Fr. Martino Porres, Roma 1732; Valdez José Manuel, Vida admirable del Bienaventurado Martìn de Porres natural de Lima y Donado Profeso del Convento del Rosario del Orden de Predicadores de esta ciudad, Lima 1863 (26ª ed. Lima 1945); Fumet Stanislas, Le Bienheureux Martin de Porres, serviteur prodigieux des Frères Prêcheurs, Paris 1933 ; Kearns J. C., The Life of Blessed Martin de Porres, saintly American Negro and Patron of social Justice, New York 1937; Cavallini Giuliana, I fioretti del beato Martino, Roma 1957; Reginaldo Frascisco, San Martìn de Porres. Il primo santo dei negri d’America, Edizioni Studio Domenicano di Bologna. Per questa esposizione ho fatto uso particolarmente delle ultime due pubblicazioni.
[2] Cfr. Responsio ad novas animadversiones R. P. D. Fidei Promotoris super Dubio ..., Romae 1742, VIII, p. 103.
[3] Ivi, II, pp. 10-11.
[4] Ivi, VIII-XV, pp. 12-13.
[5] Vedi Reginaldo Frascisco, San Giovanni Macìas. Il patrono degli emigranti, Edizioni Studio Domenicano di Bologna. Si noti che ben noti sono i contatti del Macìas con Martin de Porres, ma inesistenti quelli con Rosa da Lima, essendo giunto a Lima nel 1622, cinque anni dopo la morte della Santa.
[6] Cfr. Responsio, cit., VII, pp. 26-27.
[7] Ivi, I, p. 110
[8] Cfr. Giuliana Cavallini, I fioretti del beato Martino, Ed. Cateriniane, Roma 1957, pp. 179-185. Ivi anche i rinvii documentari.
[9] Responsio, cit., VII e VIII, p. 70, XXIV, p. 72. Cavallini, Fioretti, p. 189-190.
[10] Ivi, II, p. 68. Cavallini, Fioretti, pp. 193-195.
[11] Ivi, XII, pp. 68-69. Cavallini, Fioretti, p. 196.
[12] Cfr. Positio super Dubio an constet de fama sanctitatis in genere, etc. Romae 1669, p. 45. Cavallini, Fioretti, pp. 126-127.
[13] G. Cavallini, Fioretti, p. 290.
[14] Sui miracoli e l’iter della beatificazione e canonizzazione vedi tutta una serie di documenti in ASOP a. 70, fasc. III (luglio settembre 1962), pp. 551-584. Secondo la Cavallini, Fioretti, p. 307, la beatificazione avvenne insieme a quella di Giovanni Macias, il 10 settembre 1837 nella Basilica Vaticana.
[15] Cfr. G. Cavallini, Fioretti, pp. 309-315.
[16] Ivi, p. 310.
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Tel +39 081.89.99.111 - Fax +39 081.89.99.314 - Mail: info@domenicani.net
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