Contemplative

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di Anna Rosa De Angelis
LA DONNA AL TEMPO DI DOMENICO
La donna del Medioevo – parliamo della donna comune – era considerata una creatura bisognosa di protezione: protezione fisica e morale, di luogo, di tempo, di scelte di vita.
Se appartenente alla plebe, era addetta ai lavori più faticosi nella sua casa e in quella dei padroni, sposa fedele e obbediente e – se dotata di talenti adeguati – madre ed educatrice di umana dignità e di fede. Se di nobile casato, la donna non partecipava direttamente alla vita so­ciale e politica, ma era la domina, la padrona della casa, la signora che esercitava sul marito e sui figli, sulla servitù e sul contado una grande in­fluenza, con silenziosa perseverante efficacia nel bene o nel male, secon­do la sua natura, la sua formazione, i suoi interessi.
Secondo un giudizio comune (cer­tamente legato al concetto che allora si aveva della donna) tanto più impe­rativo per i nobili, la donna non aveva la libertà nella scelta del suo stato di vita, era affare dei parenti, genitori e fratelli. E non c’erano che due stati, allora, tra cui fare la scelta: aut murus aut maritus: se la famiglia non era in grado di assicurarle un matrimonio conveniente con il giovane nobile o se non voleva disperdere il patrimonio fa­miliare riservandolo al primogenito e ai discendenti maschi, la destinava a consacrarsi a Dio, senza curarsi se la figlia fosse chiamata da Dio o no, oggi diremmo ‘se aveva o no la vocazione’.
Questa cultura e questa prassi por­tò molte giovani donne ad entrare in monastero forzatamente, da schiave, rese così incapaci di godere la pienez­za della libertà promessa da Dio a quelle e quelli che lo seguono volon­tariamente per amore; quella bella li­bertà di cui godettero in modo ampio e sovrabbondante le prime vergini cri­stiane come per esempio Agnese, Cecilia, Emerenziana, Eustochia… ad alcune delle quali fu riservato il dono e la gloria del martirio, messe a morte dallo Stato, perché fare voto di vergi­nità significava proclamare la libertà della persona e la sua autonomia di decisione, era quindi un sottrarsi alla patria potestas, cosa impensabile per una donna! Punibile di morte.
Al tem­po di Domenico una donna poteva pensare alla consacrazione solo in ter­mini di vita di clausura, vissuta e at­tuata in un monastero, che – come ai giorni nostri – per donne veramente chiamate a donarsi a Dio nella consa­crazione religiosa, ‘produsse’ donne di preghiera, di cultura, di efficace apo­stolato intellettuale (scritti), donne maestre e guide di vita spirituale di grande influenza nella vita civile del tempo, anche nella educazione di molte generazioni di donne con forme varie di collegi.
Domenico entrerà con il suo carisma personale nella schie­ra di quei santi religiosi che nella sto­ria della Chiesa e della vita consacra­ta si sono distinti come padri, maestri, guide e legislatori di donne consacrate a Dio e al popolo cristiano nei Mona­steri, alle quali vollero partecipare e con­segnare il loro specifico carisma da vivere ‘al fem­minile’. Lungo i secoli sarà ispiratore di nuove fami­glie religiose che alla consacrazione uniranno l’apostolato in mezzo al mondo, nella stessa for­ma e con gli stessi mez­zi che il beato padre Domenico aveva scelto per sé e per i suoi com­pagni.
Sarà una figlia di Do­menico, la sua grande fi­glia Caterina da Siena, a cambiare forma alla vita consacrata femmi­nile per vivere la consa­crazione in mezzo al mondo fatto Convento. Senza lasciare nulla della realtà evangelica di una radicale consa­crazione; nella pienezza della preghiera, della fraternità e della auste­rità di vita unisce un operoso apostolato in mezzo alla gente, e, come gli uomini suoi confratelli domenicani, si dedicherà allo studio della verità per trasmet­terla ai fratelli e alle so­relle con il servizio della parola e la te­stimonianza della vita.
Non sarà per noi inutile sottolineare e contemplare che Caterina era passata tutta nell’anima, nel pensiero, nelle scelte del suo pa­dre Domenico, con la creatività del suo genio femminile, che fu in grado ecce­zionale grande e femminile! A noi di saperla imitare.
Le donne occupavano un posto eminente e determinante nella sètta dei Catari: più generose, più perseve­ranti, più entusiaste ed estremiste de­gli uomini, più lontane dei loro mariti e dei loro fratelli guerrieri dalla violenza delle guerre e dal contatto con la ‘ma­teria’, molte donne della nobiltà ave­vano ricevuto il consolamentum e con­ducevano vita da perfette, come Bian­ca da Laurac. Tenevano le loro adu­nanze a Fanjeaux, presso Guglielma di Toneins.
Le donne del popolo più povere, rendevano servizi secondo la loro pos­sibilità, si prestavano commissioni va­rie, portavano messaggi segreti. Per es. Guglielma Marty, mendicante di pane e noci, era di grande utilità, per­ché nei suoi giri recava ai tessitori ere­tici le ordinazioni dei loro correligionari: si tesseva così una rete di forza, di ric­chezza e di resistenza della sètta e tra i suoi membri. Queste donne apriva­no conventi per accogliere adolescenti e impartire loro una formazione mora­le e religiosa catara; accoglievano an­che i bambini tra i 5 e i 7 anni di famiglie nobili cadute in povertà. Tra queste adolescenti venivano scelte le ‘perfette’, cioè le future infati­cabili propagatrici degli errori della sètta, specialmente nel mondo femmi­nile.
Queste le donne che incontrò Domenico, questi gli errori che si tro­vò a combattere e a correggere, que­sta la terra della sua missione e di quella dei suoi primi compagni.
Furono le donne la primizia del nuo­vo apostolato di S. Domenico. La se­duzione e la perversione che gli ereti­ci esercitavano sulle donne erano mali troppo gravi per non portarvi rimedio.
Il beato Giordano (successore di S. Domenico nella guida dell’Ordine) ci fa conoscere che “il Servo di Dio Domenico, mosso a pietà dalla obbrobriosa sventura in che venivano a cadere queste infelici” si prese cura di queste donne con sollecitudine e chiaroveggenza nel modo più adegua­to alle loro necessità e al disegno che lui leggeva nella divina volontà.
Infatti, il ritorno al cattolicesimo delle nobildonne catare esigeva non solo promuoverne la conversione, ma offrire loro una forma di vita veramen­te evangelica non meno esigente di quella che avevano praticato, ma so­prattutto – a confronto di quella – au­tenticamente liberante, di uno spesso­re interiore di verità e di amore che ri­velasse a quelle donne il vero volto di Dio, il posto che ciascuna di loro ave­va nel suo disegno salvifico, per la vera salvezza.PROUILLE E LA SANTA PREDICAZIONE DI GESÙ CRISTO
Molte di loro, una volta ritornate alla fede cattolica, non avrebbero potuto tornare in famiglia per l’ostilità dei pa­renti catari, occorreva dunque trovare un ambiente dove accoglierle e che potesse divenire la loro casa, il loro convento e con questo i mezzi di sus­sistenza. Domenico e i suoi fratelli di consacrazione e di missione non tra­scurano neppure questo elemento di così grande gravità e solo apparente­mente pratico: Domenico creò un ap­posito Monastero, nel sereno territo­rio tra Fanjeaux e Montreal, in una lo­calità detta Prouille, per ivi accoglierle e porle al sicuro da ogni tentativo av­verso.
Ma questo non bastava allo zelo di Domenico: la parola di carità che aprì i cuori di quelle nobildonne catare alla più sincera conversione fino al dono di sé a Dio, divenne il pane quotidiano che Fra Domenico distribuiva insieme all’Eucaristia alle nuove Consorelle, prime figlie dell’Ordine dei Predicato­ri: insegnò loro a vivere di preghiera fondata sulla Parola di Dio, le avviò alla contemplazione dei misteri di Dio e le aprì alla vera conoscenza del mistero dell’uomo amato cercato salvato da Dio e da amare cercare salvare con la grazia di Dio.
Fece loro comprendere che il Mo­nastero era terra di missione, luogo di studio e quindi luogo privilegiato di predicazione, ma ad un patto: che lì si vivesse la pienezza della carità frater­na, chiesta dal Signore Gesù ai suoi discepoli e discepole nella sacra not­te del cenacolo, che ogni casa religio­sa deve far rivivere.
Lo stile di vita e di formazione di Maestro Domenico era chiaro, sempli­ce, deciso: si doveva tenere vivo il fer­vore della preghiera e della predica­zione.
L’austerità di vita delle claustrali doveva contrapporsi – nell’ordine del­la grazia – al rigore dei monasteri catari; la chiarezza della loro fede do­veva rispondere alla esigenza di edifi­care e convincere le famiglie ancora esitanti tra ortodossia e eresia; la loro vita autenticamente evangelica ed esemplare era il loro modo di predica­re.
Nulla, perciò, sembrò troppo a Do­menico per formare questo piccolo manipolo di donne consacrate a Dio secondo la vocazione che lui aveva avuto: si dedicò a loro con cure di pa­dre e di fratello, dette loro una sapien­te e seria legislazione, veglierà su Prouille con trepida sollecitudine, fa­cendo “di questa comunità femminile, un punto di riferimento per il piccolo gruppo di predicatori che si erano uni­ti a Maestro Domenico, sostegno alla loro predicazione con la preghiera e la penitenza”.
Per questo non ebbe timore di sen­tirle associate alla “santa predicazione” dei Frati, di volerle e di considerarle un aiuto indispensabile. E voleva che tali si sentissero e si mostrassero in tutto il loro stile di vita di donne consa­crate.
Si racconta che Domenico, quan­do risalito a Fanjeaux, prodigava le sue fatiche per la conversione degli eretici accanitamente ostili, o quando conti­nuava la sua opera apostolica nelle lunghe veglie notturne immerso nel grande silenzio della chiesa, poteva sempre sentire il suono della campa­na che chiamava le figlie di Prouille alla preghiera e a lui diceva di non essere solo nel grande combattimento per la fede.
Ricordiamo fraternamente alcuni nomi di queste prime consorelle domenicane, che se tanto ebbero dal santo padre Domenico, molto a lui donarono di aiuto, di conforto, forse di femminile ispirazione alla “santa predicazione”. Ecco i nomi a noi più noti: Riccarda, Jordane, Raimonda, Claretta, Gen­ziana, Berengaria… quanti ne sono seguiti nel corso dei secoli… ci sono anche i nostri!
A Domenico il merito di aver asso­ciato alla predicazione queste donne, che nel silenzio della preghiera, nella vita fraterna e nell’austerità della vita collaborarono alle fatiche apostoliche dei primi Frati predicatori. Come del resto era avvenuto nella comunità di Gesù e degli Apostoli, predicatori itineranti senza sacca né bisaccia (Mc 6,7), assistiti da alcune donne.
Conosciamo la devozione di Dome­nico e dei Domenicani per le donne discepole di Gesù e in particolare per la Maddalena, patrona e modello della vocazione apostolica delle Sorel­le e dei Frati Predicatori.
Di questo particolare sostegno fem­minile, di questa collaborazione di vita e di predicazione, Domenico ne fece un elemento costitutivo del suo e del nostro Ordine: possiamo affermare con certezza storica e carismatica che il beato Patriarca Domenico pensò, volle, amò e si sentì padre di una fa­miglia di predicatori al maschile e al femminile. Lo testimoniano le fondazioni dei Monasteri femminili che seguono a quello primogenito di Prouille.LE ALTRE FONDAZIONI
Madrid: alla fondazione in Francia, terra dell’eresia, segue quella della Spagna, terra madre di Domenico, mai dimenticata e della cui bellezza, gio­vialità, entusiasmo e robustezza cri­stiana portava i segni nel volto e nel temperamento.
A testimonianza di questa fondazio­ne e della guida spirituale di S. Domenico a quelle Sorelle rimane solo una lettera in cui le conferma nella loro vocazione con espressioni che rivela­no il suo amore paterno e sacerdotale. Domenico affidò il Monastero di Madrid alla cura e alla guida spirituale del fratello Mamés.
Bologna: nel Convento dell’Ordi­ne, nel cuore della celebre città uni­versitaria, c’è fra Reginaldo, predica­tore di eccezionale valore, richiamo irresistibile per i giovani a cui propo­neva “l’ardua e magnifica” avventura della sequela Christi. Alle prediche di Reginaldo assiste Diana della nobile famiglia degli Andalò.
La giovane, colpita e conquistata dalla parola di verità del giovane Domenicano decide subito di rinuncia­re alla vanità del mondo e di imitare la vita austera e bella di quei nuovi Frati, ai quali si sente spiritualmente unita. E quando i Domenicani trovarono difficoltà nell’acquisto dell’area circo­stante la chiesa di S. Nicolò e locali circostanti (appartenenti al nonno pa­terno di Diana) terreni indispensabili per la costruzione di un Convento nel quale riunire l’ormai numerosa co­munità, Diana “prese lei stessa in ma­no la faccenda e impegnò tutta la sua abilità femminile per ottenere dal non­no il terreno alle vigne”. Era la Quare­sima del 1219. Il giorno di Pasqua i Frati presero possesso del nuovo Con­vento.
Alla fine di agosto del 1219 Domenico ar­riva a Bologna, nella bella comunità di S. Nicolò ricca di “religiosi temprati e studenti generosi”: e lì, dinanzi a quel manipolo di discepoli, egli sente che deve dedicarsi principalmente a pla­smare “l’infanzia ancora tenera della nuova piantagione: sia con le istruzio­ni spirituali sia con il suo esempio”.
A Bologna Domenico incontra Dia­na d’Andalò, ma spetterà al successore di Dome­nico, il beato Giordano di Sassonia, la fondazione del Monastero di S. Agne­se, dove Diana e le sue prime compa­gne realizzano a Bologna l’idea di Domenico per la vita religiosa femmi­nile.
Diana d’Andalò rimane nella storia domenicana una delle figure emble­matiche di donna consacrata a misu­ra delle eroine bibliche. Dice di lei il B. Giacinto Maria Cormier: “Fu dotata di intelligenza, grandezza d’animo, fortezza sincerità e vivacità, sensibilità e dolcezza di cuo­re, attraente facilità di parola, fermez­za di volontà; si aggiungeva una rara bellezza del volto della persona che ispirava rispettosa simpatia e riflette­va la bellezza dell’anima”.
Roma: se la fondazione di Prouille ci svela il carisma e il ministero di Domenico per la donna, e Bologna le caratteristiche dell’uomo spirituale nel­la direzione spirituale di donne intelli­genti e forti tutte innamorate del Signo­re Gesù Cristo a servizio dell’opera di salvezza, Roma nella vicenda che chiameremo di S. Sisto, rivela l’uma­nità di Domenico, il senso ‘democrati­co’ del suo agire e in questo caso ‘con le donne’, basato sulla bella legge cri­stiana della libertà e dell’amore, che Domenico aveva messo a fondamen­to della sua vita personale e di quella dei suoi discepoli fratelli, anima della legislazione su cui si fonda il carisma dell’Ordine.
San Sisto fu una fondazione al­quanto laboriosa per il santo Patriar­ca, ma come dicevo, quella che più e meglio ci svela la novità, la grandezza e diciamo pure, la ‘modernità’ o ‘attua­lità’ dell’uomo di Dio che fu Domenico di Guzman.
Onorio III era intenzionato a racco­gliere in un unico monastero una ot­tantina di monache, sparse in sette conventi senza clausura, ma soprat­tutto senza più anima religiosa.
Affidò il compito a Domenico. Gli dette in dono la chiesa e il mo­nastero di San Sisto, all’ingresso del­la via regale romana, l’Appia antica, perché vi trasferisse d’autorità le ot­tanta monache e volle che ci si insediasse una comunità di confratelli dediti alla riformazione e alla forma­zione – oggi diremmo “permanente” – delle monache. Domenico visita i set­te monasteri romani, fa conoscenza personale con ogni monaca, le istrui­sce, le esorta, le invita ad una vita rin­novata secondo il Vangelo e la profes­sione religiosa fatta, richiamandole alla preghiera, alla fraternità e alla peniten­za. Chiede però una scelta personale, co­me volontariamente libera deve esse­re l’obbedienza che le chiama a radu­narsi dai sette conventi al comune, unico convento di San Sisto.
Le monache di Santa Maria in Tem­pulo (oggi Trastevere) accettano, me­no una. Tra esse c’è la sedicenne Cecilia, nobile romana della famiglia dei Cesa­rini: fu lei a rimettersi nelle mani di S. Domenico, che la predilesse fra tutte per la generosità del suo amore a Cri­sto e all’ideale religioso che Domenico proponeva. Cecilia rimane nelle memorie domenicane la donna gentile, l’artista della vita e della penna che tesse la storia e fa la tradizione della carità, dell’unità, dei tesori della famiglia con cuore e mente di donna, limpida sere­na forte come Dome­nico voleva le figlie. Antonino la chiama “prima ma­dre di tutte le sorelle domenicane”.
Il mercoledì delle Ceneri del 1221 Domenico convoca le monache nella chiesa di S. Sisto e riceve per la terza volta la professione di quelle Sorelle.
Possiamo dire che questo atto pone fine alle molte vicissitudini che hanno concluso questa originale trasmi­grazione di suore… Alle monache di Trastevere si uniscono quasi tutte le monache di Santa Bibiana e altre spar­se per la città: si forma così una bella e numerosa comunità, eterogenea nelle origini, ora riunita nel nome del Signore dal carisma e dalla sollecitu­dine operosa del Fondatore dei Predi­catori.
L’unione si contempla con l’arrivo a S. Sisto della contestata icone (del sec. VII) della Vergine, che in modo miracoloso aveva seguito le monache nelle loro diverse trasmigrazioni. Quella sera le Monache, guardandosi, potevano dire: ora siamo tut­te! Cominciava la vita comunitaria nella legge della carità e dell’unità. Sr. Bianca, venuta da Prouille con altre sette consorelle, comunicherà con fervore quanto Domenico con zelo aveva in­segnato e chiesto loro.
Domenico e i suoi fratelli si erano intanto stabiliti nel Convento di S. Sabina all’Aventino, che rimane fino ai nostri giorni “la casa romana” dei Domenicani. Ma tutti i giorni Domenico scende il colle dell’Aventino per visitare le monache di S. Sisto.
Domenico non si era cercato que­sto particolare ministero a favore del­la donna. Dopo queste fondazioni, Il solitario di Palencia e del chio­stro di Osma non rimane più solo: aveva trovato una famiglia, un focolare in cui, senza aver abbando­nato nulla nell’austerità di vita né ab­dicato al suo riserbo, poteva ravviva­re le sue energie, poteva appoggiare la sua preghiera ed effondere il suo cuore, con effusiva gioia, nella amici­zia più pura con i fratelli e le sorelle, che noi chiamiamo fraternità.