Vita Contemplativa Claustrale

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di Sr. M. Giuseppina Pisano O.P.
Perché la vita contemplativa claustrale?
Dopo più di sette secoli, nella Chiesa e nella Famiglia domenicana, è ancora viva quella particolare presenza silenziosa, quel «servizio di preghiera incessante», che sono le monache.
Ma perché e in che consiste la vita contemplativa clau­strale? Perché, oggi come all’origine, in quel lontano 1206, le monache ancora vivono, propongono, offrono quello stesso ideale che animò il fondatore Domenico?
Non è certo facile rispondere esaurientemente a queste domande, né esiste un’unica risposta a questi interrogativi. Le motivazioni della chiamata alla vita contemplativa clau­strale sono, e possono essere, tante, come diversi sono i modi di attuarla. Tuttavia chi ne fa esperienza dall’interno, perché la vive, potrebbe sicuramente dire con la sposa del Cantico: «… senza riflettere, il mio desiderio mi aveva posto sui cocchi, al seguito del Principe» (Cf 6,12); oppure con Monchanin: «Ci basta sapere che siamo nel luogo dove Dio desidera». All’origine della vita contemplativa claustrale c’è quindi un duplice desiderio: quello di Dio, la «voce» di Lui «che ha posto le sue compiacenze nello sta­re coi figli dell’uomo »; e come rimando, il desiderio inten­so della creatura di possedere ed essere posseduta, imme­diatamente, esclusivamente e totalmente da Dio, un modo particolare di vivere l’aspetto sponsale che è fondamento della consacrazione religiosa.
« Quando Cristo “dopo avervi fissati vi amò” chiaman­do ognuna di voi, quel suo amore redentivo venne rivolto ad una determinata persona, acquistando al tempo stesso caratteristiche sponsali: divenne amore d’elezione» (Re demptionis donum, 3). « Voi avete risposto a questo sguardo scegliendo Colui che per primo vi ha scelto » (ib.).
Scriveva Bernanos: «Non è una contraddizione molto strana, che gli uomini possano, nello stesso tempo, credere in Dio e pregarlo così poco e così male? ». Parafrasando lo scrittore francese, possiamo anche dire: ma non è una con­traddizione sapere che Dio è con noi, si è fatto uno di noi, sempre vivo ed operante accanto ad ogni uomo e, allo stes­so tempo, curarci così poco e così distrattamente di Lui?
La necessità che qualcuno si occupi sempre di Dio, che la sua presenza sia conosciuta e accolta, la sua Parola ascoltata e vissuta, in altri termini, che a Lui sia fatto spa­zio vasto e profondo tra gli uomini: ecco una delle ragioni fondamentali della vita contemplativa claustrale, nella qua­le la monaca si fa essa stessa spazio vivo, accoglimento continuo di Dio, e ciò in comunione col resto dell’umanità. Infatti il nostro particolare genere di vita esige separazione e comporta una rinuncia alla presenza fisica tra gli uomini,– perché alla nostra presenza umana, limitata e fallibile, si sostituisce quella di Dio, non un astratto concettuale, ma il Dio vivo: il Padre che ci ha adottati come figli, il Cristo che ci ha redenti, lo Spirito che ci vivifica e trasforma.
La vita contemplativa claustrale è perciò una più forte immissione di Dio tra gli uomini, per restituirli a Lui, seguendo «la via più stretta» in conformità a Cristo e, allo stesso tempo, restituire l’uomo a se stesso; infatti questo genere di vita apparentemente così lontano dalla comune esperienza, è quello che, radicandosi più profondamente nel mistero e nella vita di Dio, ci radica nella stessa misura nella realtà umana « permeando questa umanità, in diversi modi appesantita dal peccato, col fermento umano-divino della Redenzione» (Redemptionis donum, 4).
Forse non è facile capire come tutto ciò possa essere operato da creature deboli, cariche come tutte le altre di peccabilità, sollecitate da mille comuni desideri, sempre sul
punto di fermarsi sul piano delle «cose» o del « fare»; eppure ciò si realizza nella misura in cui esse, donne fra donne, accettano e generosamente rispondono col dono di se stesse, della propria vita, a Dio che in Cristo, e Cristo crocifisso, si è donato interamente all’uomo.
La vita contemplativa claustrale è quella che, nella cre­scente passione per Cristo, ci fa ripetere con San Paolo: «Ora non più io vivo, ma in me vive Cristo » (Gal 11,20) e fa sì che diventiamo lettera di Cristo « scritta con lo spirito del Dio vivente» (2 Cor 3,22); una lettera che parla nel silenzio e dal silenzio, un dialogo ininterrotto con Dio e cogli uomini. Poiché nessun uomo ci è estraneo o indiffe­rente, che abbia un volto e un nome, che sia sconosciuto e lontano, che sia giusto o perverso, che creda o cammini a tentoni nel vuoto. Sappiamo che di ognuno Dio è Padre, e per ognuno ha un suo disegno di salvezza; in questo piano redentivo di Dio desideriamo entri ogni uomo, e in ciò cre­diamo sia valido il nostro incontro continuo con Lui nella contemplazione.
Nella Famiglia domenicana
Quanto detto, molto brevemente, su alcuni aspetti della vita contemplativa claustrale in genere, vale, determinan­dosi in modi diversi secondo uno specifico indirizzo, all’in­terno della Famiglia domenicana.
La chiamata alla contemplazione è la vocazione stessa della Chiesa (cf Sacrosanctum Concilium, 2), e ad essa è ordinata e subordinata ogni altra attività (ib.), ma acquista un senso ed un accento particolare, in corrispondenza al carisma proprio di ogni famiglia religiosa. Così anche nel nostro Ordine la vita contemplativa, nella sua forma clau­strale, ha una sua precisa fisionomia e una sua ragione di essere. Essa è principalmente un servizio reso agli altri membri della Famiglia, e in particolare ai predicatori della Parola, servizio che, ad imitazione della B. Vergine Maria, vuole attingere più profondamente le ricchezze della Parola di Dio (cf Dei Verbum, 8), Parola che è Cristo e che i nostri frati fin dai lontani tempi di Domenico portano, come luce, a tutti gli uomini.
«Monache domenicane… noi vi abbiamo chiamate Apostole degli Apostoli»’. È la definizione più breve e significativa, quella che più chiaramente mette in luce il progetto del Fondatore, sottolineando il legame vitale che corre tra noi, separate dalla clausura, in preghiera, in con­templazione, e coloro che, come i primi apostoli di Cristo, ancora lavorano per diffondere il Vangelo. «Una presenza amante » la nostra, uno sguardo «posato incessantemente su Cristo e su Lui solo » (ib.), perché da questo incontro personale ed interiore scaturisca la forza animatrice del ministero della Parola. Siamo così un unico corpo che, articolandosi in membra diverse, ci fa essere secondo l’espressione di San Paolo «il cuore che crede… e la bocca che professa la fede » (Rom 10,10) distinti e complemen­tari; tali siamo noi, gli uni per gli altri, completandoci a vicenda, in quel vasto e complesso organismo che è il nostro Ordine, e che fin dal suo nascere ebbe uno spirito, un calore, un carattere inconfondibile di Famiglia.
La nostra presenza femminile, fatta essenzialmente e prevalentemente di amore, di dedizione silenziosa e nasco­sta, di sollecitudine attenta, di raccoglimento, che ancora oggi ci distingue, è quella stessa che ritroviamo alle origini, nella prima comunità a Prouille. La ricostruzione storica del suo nascere, delle vicende attraverso le quali passò, non possono non confermarci quanto questo piccolo centro, dal quale si irradiò la Santa Predicazione, fosse radicato nel cuore di Domenico, fosse, possiamo dire, come lo spec­chio della sua interiorità, il punto di convergenza delle sue esigenze più profonde, e di orientamento della successiva chiarificazione e articolazione di quell’apostolato nuovo,
che viveva e traeva sempre nuove energie da un’assidua contemplazione.
A Prouille, Domenico portava il suo bisogno di peni­tenza, l’ansia felice di conoscere, di far sua la verità rive­lata, quello studio della Parola per la quale, meditando e pregando, vegliava la notte. Vi portava l’esigenza della solitudine, nella quale, incontrandosi con Dio e manifesta­to a Lui il tormento per lo sviamento pericoloso degli uomini, irretiti nelle eresie, vittime della distruzione morale ed economica dovuta alle guerre, «era scosso dalla miseria dei poveri, divorato dalla compassione». Possiamo ben dire che Domenico era come consumato da due fuochi: il bisogno profondo di Dio e l’angoscia per la salvezza degli uomini Si rivelò così in lui quella grazia singolare, e tutta sua, che lo portò a «prendere l’ufficio del Verbo » e si rive­lò, anche, quell’altro carisma, che fu altrettanto « suo », «la grazia del ministero femminile», quando intuì quanto profonda fosse la risonanza della «Parola di Dio messa nel cuore di ogni donna»2 e associò quelle poche donne con­vertite alla Predicazione di Gesù Cristo: due elementi com­plementari in tutta l’opera di Domenico e che, nella sua vita, non furono mai disgiunti. Se alla prima comunità di Prouille, come in seguito alle altre di Madrid, San Sisto, Bologna ecc., egli dedicò gran parte delle sue energie, delle sue cure, della sua tenerezza paterna e fraterna, della sua sollecitudine e del suo amore, da queste stesse comunità egli, e i suoi frati, ricevettero sempre la gioia della comu­nione spirituale, la cordialità, l’amicizia fraterna, il servi­zio devoto, l’ammirazione sincera, il sostegno morale della preghiera che intercede, tutto quanto cioè poteva rinfran­care lo spirito e offrire la possibilità di prender nuovo slan­cio ed energie nuove per il lavoro apostolico.
Le comunità claustrali fondate da Domenico, ebbero fin dall’origine quel carattere che ancora oggi le distingue: non di una contemplazione avulsa da un contesto umano e chiusa in se stessa, ma di una contemplazione che vive for­temente la dimensione apostolica, per esprimerci in termini oggi correnti; una contemplazione « aperta ad esperienze di aiuto e di partecipazione, per la preghiera e la vita spiritua­le, nei riguardi di chi vive fuori », una contemplazione che, come scrive il Llamera, fa sì che « la voce di coloro che predicano, sia eco delle aspirazioni di quelle che amano » (Valore apostolico della vita contemplativa). È la stessa complementarietà che troviamo espressa nella Costituzione fondamentale là dove leggiamo: «la missione dei frati è quella di predicare per tutto il mondo il nome di Nostro Signore Gesù Cristo, quella delle monache è di cercare, di meditare, invocare nel segreto del cuore, questo stesso Signore, in modo tale che la Parola che esce dalla bocca di Dio, non torni a Lui senza frutto, ma adempia la missione per cui è stata mandata».
Perseverando con Maria
È una figura di donna: Maria, la Madre, a dare un significato più preciso al nostro essere Famiglia e, in essa, alla nostra presenza di monache. «Perseverando con Maria Madre di Gesù, desiderino ardentemente la pienezza dello Spirito Santo »3, « sull’esempio di quella chiesa riunita a Gerusalemme… con un sol cuore nel tempio » (ib., III). Quella Parola di Dio infatti che noi contempliamo, acco­gliamo, celebriamo, diffondiamo, difendiamo, non è una verità astratta, una dottrina, una ideologia, ma è il Cristo che si incarnò nel grembo di Maria, ed è attorno a Lei, come i discepoli del Cenacolo, come la prima Chiesa, che noi, figli e figlie di Domenico, ci facciamo Famiglia. La presenza mariana nel nostro Ordine non è una pia tradizio­ne che conserviamo come eredità del passato, ma è una presenza viva e sentita, una presenza che ci guida e che, per noi monache, è autentico motivo di ispirazione che ci con­sente di essere e di proporci, così come la Chiesa avverte e propone agli uomini la presenza della Madre di Dio. Infatti «nella riflessione sul mistero di Cristo e sulla propria natu­ra (la Chiesa) ha trovato a radice del primo e a corona­mento della seconda la figura di una donna: la Vergine Maria… Dio ha collocato nella sua famiglia, la Chiesa, come in ogni focolare domestico, la figura di una donna che, nascostamente e in spirito di servizio, veglia su essa e benignamente ne protegge il cammino » (Marialis cultus).
Maria: la donna vissuta e realizzatasi all’ombra dello Spirito, all’ombra del Figlio, dal quale si lasciò coinvolgere totalmente e docilmente nel piano della redenzione; Maria: la donna che giunse a vivere una maternità che non ha con­fini. Con Lei, col suo silenzio, il suo nascondimento, la sua offerta, noi monache, nella Chiesa e nella nostra Famiglia, siamo una presenza materna, la presenza di una femmini­lità non spenta, ma pienamente realizzata, illuminata e vivificata dallo Spirito, resa feconda dall’incorporazione a Cristo, offerta nel dono, sollecita e partecipe della missio­ne di tutti coloro che sono in cammino per portare agli uomini Cristo. È quanto ritroviamo anche agli inizi del­l’Ordine; quando Domenico, fondando la comunità di Prouille, volle far rivivere in essa la spiritualità del Cenaco­lo, quella interiorità, quell’assiduità di preghiera, di con­templazione, di attesa che mai doveva cessare, ma al con­trario doveva farsi tanto più intensa quanto più urgente e difficile era la predicazione e l’opera di conversione.
Quale sia il posto di Maria nella spiritualità di Dome­nico possiamo desumerlo dall’esortazione rivolta da lui ai suoi frati: I Magi entrando nella casa trovarono il bambino con Maria sua Madre… ora anche noi abbiamo trovato l’uomo-Dio con Maria sua ancella. Nelle Vitae Fratrum leggiamo quest’altra interpretazione mariana: «Dice Ruth (cioè la Vergine Maria): mi ordinò (sottintendi: mio Figlio) di rimanere tra i mietitori (cioè i Predicatori) finché tutte le messi fossero raccolte (cioè radunati i fedeli)». Finché durerà il compito dei predicatori, finché gli uomini avran­no bisogno di verità, luce, salvezza, durerà questa presenza di Madre; così finché tra gli uomini vi saranno cuori dispo­sti ad accogliere la Parola di Dio che è Cristo, avrà una ragion d’essere la presenza delle monache domenicane. Donne in ascolto, in preghiera, aperte nel dono di sé, par­tecipi di ogni ansia, di ogni fatica, di ogni croce. «Mirate la Croce di Cristo… in essa sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza. È la Croce che ci introduce nel mistero di Dio, in quel mistero che non si finisce mai di scrutare. È dalla contemplazione della Croce di Cristo che San Domenico ha tratto il suo zelo apostolico. È la con­templazione della Croce di Cristo che vi farà autentiche monache domenicane… Presso la Croce stava la Madre di Gesù. Là è il vostro posto» 4.
Come Maria di Betania
Ai piedi di Cristo, come la simbolica Ruth, come la creatura unica ed irreprensibile Maria Vergine, come Maria di Betania la donna in ascolto: «Siedano ai piedi di Gesù e ascoltino le sue parole, protese a quanto sta loro davan­ti… »5. Un ascolto fatto di stupore e di attesa, di incanto, di dedizione, di amore; quell’atteggiamento dolce di donna che ha fatto dire ad uno scrittore contemporaneo, L. San­tucci: «… una goccia di gioia, questa donna seduta ai Suoi piedi che ascolta, che ha accettato la minuscola viltà di rifarsi bambina: nell’offerta di sé… come un vangelo sot­tovoce… Maria ai piedi di Cristo: quel lembo di stuoia sul pavimento, dove tutto il mondo è riassunto… quando ri­batte dall’alto la voce di Lui che parla».
È il mondo riassunto nel chiostro di un monastero, un mondo interiore, un modo particolare di essere, accoglien­do Dio e i fratelli, soprattutto ascoltando, pregando,
vivendo il dono continuo di sé; è quanto oggi risponde alle esigenze e alle attese della Chiesa, che esorta con la parola del Papa: «Siate sorelle, siate madri ». Donne che hanno raggiunto una maturità umana, un equilibrio affettivo e morale che le rende consapevoli di che cosa comporti la loro presenza, il loro servizio di consacrate: offerte in unione sponsale con Cristo, e con Lui operanti misteriosa­mente ma fattivamente in seno alla Chiesa e all’umanità, in seno alla propria Famiglia. La nostra vita di contemplative domenicane ha un suo più spiccato accento apostolico, ha quella sollecitudine che muove ogni donna che ama, che sia madre oppure sorella, e la porta, diremmo oggi, «verso le frontiere » nelle quali lavorano i fratelli. È questa del resto la primitiva spiritualità delle monache del nostro Ordine, anche se per cause diverse essa è andata un po’ spegnen­dosi, e ci si è facilmente rifugiate in un atteggiamento pre­valentemente passivo e recettivo.
Agli inizi le monache dovettero sentire e vivere pienamente quel ruolo, oggi chia­ramente riaffermato 6, che le faceva essere «uguali e com­plementari» ai loro fratelli, se la storia ce ne lascia un chia­ro documento nell’epistolario tra Giordano di Sassonia e Diana d’Andalò. Dalle lettere si può faeihnente cogliere quale fosse la comunione fraterna, lo scambio spirituale, l’aiuto reciproco tra fratelli e sorelle che vivevano in modi diversi il comune ideale. Un passo tratto dalla lettera IV ci illumina chiaramente sul senso di questa spiritualità, di questa profonda comunione di vita su di un piano umano e spirituale: «Ciò che tu compi nella quiete ed io camminan­do di luogo in luogo, tutto lo facciamo per amor Suo. Egli (Cristo) è l’unico nostro fine. Egli che ci conserva uniti nel­l’esilio presente e che sarà il nostro premio in patria». E altrove: «Ovunque vada resto con te, e quantunque tu rimanga, porto sempre con me il tuo spirito ».
La divisione dei compiti non incideva, così come non può e non deve incidere nella vita dei diversi membri della Famiglia. In essa nessuno è solo e nessuno è a sé, ma sempre si vive in comunità, sia nel chiuso del monastero come nelle strade del mondo, là dove con mezzi diversi e in forme diverse si realizza la Predicazione di sempre. Ciò che conta è percor­rere insieme un cammino, portare avanti, congiungendo gli sforzi, l’opera che ci fu data da Domenico. «La famiglia domenicana è un’unità globale in analogia con tutta la Chiesa e il fine totale dell’Ordine… non può essere realiz­zato nella sua pienezza, se tutti i membri della famiglia non danno il loro apporto »’.
È questo il significato che si può cogliere in quelle parole di Giordano che parlano di un « andare» e contemporaneamente di un «rimanere», è il segno di quello che significhi vivere, esistere gli uni per gli altri, gli uni con gli altri: in preghiera e con l’ansia di rag­giungere gli uomini che hanno bisogno di Dio; nel multi­forme apostolato e con la certezza di restare contempora­neamente in preghiera presso lo stesso Dio. È quella comu­nione in Cristo che nella spiritualità domenicana sempre pone l’accento su ciò che è positivo, luminoso, e nella qua­le tutto ciò che fa parte della natura umana, i sentimenti del cuore che generano cordialità, amicizia, tenerezza, sol­lecitudine, e quanto comunemente chiamiamo «bontà», tutto è utilizzato e trasfigurato, mai distrutto, spento o livellato. Sappiamo infatti che ogni dono di natura e di grazia viene da Dio, e che la spinta dell’amore che nasce nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, trasformata e potenziata da quell’altro Amore, che viene dall’Alto, ed è dono dello Spirito, è, in definitiva, quella che sola può portare avanti il cammino di ogni esistenza, che si spenda per il regno di Dio.
È lo stesso cammino percorso da Diana e dalla sua comunità in stretta comunione con Giordano e i suoi frati, questi nel ministero sacerdotale e della Parola, le prime in quello che Pietro da Verona chiama il «mini­stero della preghiera ». Così leggiamo nella lettera da lui inviata alla priora del monastero di San Pietro in Campo a
Milano: «Tu sei salita sul monte del sacrificio mentre io mi indugio nella valle delle preoccupazioni… spendendo quasi tutta la mia vita per gli altri. Aiutami con le tue preghiere, sorella carissima, perché fosti scelta da Cristo quale colla­boratrice, per assolvere presso di Lui un ministero di pre­ghiera». Ed è quanto ancora oggi la nostra Costituzione fondamentale dice: «Le monache dell’Ordine dei Predica­tori ebbero inizio allorché il S. P. Domenico riunì nel Monastero di S. Maria di Prouille alcune donne convertite alla fede cattolica, le quali, consacrate a Dio solo, furono da lui associate mediante la preghiera e la penitenza alla sua “Santa Predicazione” ». È su questi motivi fondamen­tali: essere parte integrante della vita e della missione del­l’Ordine, assolvere un ministero di preghiera, vivere lo spi­rito di penitenza, pronte e generose nel sacrificio, che si articola la nostra vita di contemplative claustrali.
Elette all’ufficio della lode divina
«Elette all’ufficio della lode divina, le monache, insie­me a Cristo, rendono gloria a Dio… supplicano il Padre delle misericordie… Felice quel giubilo che assimila la Chiesa peregrinante a quella gloriosa »8.
Questa preghiera è per noi asse portante, cardine di ogni giornata e dell’inte­ra esistenza. Attorno ad essa ruotano il tempo e le occupa­zioni. Si potrebbe anche dire che questa preghiera di lode, di adorazione, di rendimento di grazie, d’intercessione, è la dimensione della vita monastica ed è, per noi domenicane, sempre ed essenzialmente contemplativa.
Forse si dirà che la preghiera è preghiera, ed è super­fluo parlare di uno specifico a suo riguardo, tuttavia essa ha, all’interno della nostra Famiglia, un carattere ben pre­ciso ed una sua precisa dinamica, in quanto nasce dalla Verità, la Parola di Dio accolta e contemplata, da essa e in essa cresce e si alimenta, e da essa riceve l’impulso che la
apre agli sconfinati orizzonti dell’apostolato. È quella pre­ghiera nella quale visse Domenico. Di lui, apostolo con­templativo e orante, resta quell’opuscolo che ce lo rappre­senta nelle nove maniere di pregare. Al di là degli atteggia­menti esterni, che non furono certo una sua «invenzione », ciò che conta e può ancora educarci è la sostanza che quei gesti rivelano. La preghiera infatti non è la recitazione di formule, né esecuzione di canti, ma è un reale movimento interiore di crescita e di trasformazione, nella misura in cui ci si lascia invadere da Dio e condurre dallo Spirito nell’in­finità del suo Mistero: il Mistero d’un Dio fatto uomo in Cristo. La preghiera di Domenico nasce appunto dalla Parola di Dio accolta, cioè letta assiduamente, conservata nel cuore e nella mente, meditata, vissuta, offerta agli altri. È la Parola di Dio con la quale confrontarsi e di fronte alla quale non si può non riconoscersi peccatori, bisognosi di perdono e di salvezza.
Sono parole della Scrittura quelle che i documenti, riguardanti Domenico in preghiera, ricordano e che i testi­moni, i primi frati, udivano uscire dalle sue labbra, mentre il corpo assumeva atteggiamenti di penitenza, di adorazio­ne, di giubilo, parole che manifestavano la sua intensa e crescente comunione con Dio. «Qualche volta il S. P. Domenico si poneva dinanzi all’altare in posizione ben eretta, senza appoggiarsi né sostenersi ad alcunché. E restava in piedi così, con grande riverenza e devozione, come se stesse leggendo alla presenza di Dio. Sembrava allora, mentre pregava, che egli stesse meditando la parola di Dio e come se la stesse ripetendo dolcemente a se stes­so » 9 . C’erano poi i momenti di preghiera ancora più assor­ta e profonda dopo i quali, dice sempre il testo: «… nel riprendere, nel governare, nel predicare, si comportava come un profeta» ‘°. Pochi esempi, ma che dicono chiara­mente in che rapporto vitale Domenico fosse con quella Parola di Dio che è anima della Predicazione da lui istitui‑ta, e quale debba essere il nostro rapporto vitale con essa, di noi monache in ascolto, in contemplazione che accoglie, medita, prega e contemporaneamente annuncia, con una vita che si fa sempre più conforme a quella medesima Parola che i fratelli continuamente proclamano nel loro ministero.
È questa la nostra comunione di preghiera, che possia­mo anche esprimere con due versetti del salmo 122, tanto cari allo stesso San Domenico: «Sì, come gli occhi dell’an­cella sono rivolti alle mani della sua padrona, e come gli occhi dei servi alle mani dei loro padroni, così i nostri occhi sono continuamente rivolti verso il Signore nostro Dio». Questa continuità di vita che trascorre, sostenuta, alimentata, guidata dalla Parola rivelata, è il distintivo del­la nostra preghiera, è il fondamento, la nostra ragion d’es­sere, è la forza che immettiamo nella nostra Famiglia di Apostoli. «Altri confidino pure nei loro carri e nei loro_ cavalli, noi poniamo la nostra fiducia nel nome del Signore–nostro Dio » (Sal 147, 10).
Portando nel corpo e nell’anima la mortificazione di Gesù
È questo il senso più profondo di quell’altro elemento che, insieme con la preghiera, è costitutivo della nostra vita di monache: la penitenza. Spesso questo termine, riferito alla vita claustrale, evoca immagini che, per usare ancora una volta un’espressione di Bernanos, fanno assomigliare i monasteri a «un’impresa di mortificazione ».
Essa però ha all’interno della nostra Famiglia e nella tradizione domenicana un senso, un valore ed un indirizzo che, pur esprimendosi in atti e gesti penitenziali esterni, è, in sostanza, un cammino interiore sulle orme di Cristo, cammino che già percorse e ci indicò Domenico. Di lui in una lunga preghiera il B. Giordano scrisse: «Ma con ancor
più forza rinunciasti a te stesso… ti sforzasti di seguire le orme della nostra sola vera guida: il Redentore». È Cristo, il Dio-uomo che per salvarci ha pagato di persona il prezzo della redenzione, l’anima di quella «penitenza» alla quale sottoponiamo il corpo, e che teniamo sempre viva nell’ani­ma, per essere con Lui e in Lui altrettanti strumenti di redenzione. È soprattutto il Cristo obbediente, quello stes­so che Domenico assiduamente contemplava, Colui che ispira e dà un senso ad ogni nostra donazione. Ciò è quan­to le nostre Costituzioni (testo non puramente giuridico, ma di formazione spirituale) contengono riguardo all’ob­bedienza, della quale è detto: «Ogni mortificazione che facciamo per metterla in pratica, è come un prolungamen­to dell’oblazione di Cristo e acquista valore di sacrificio per noi e per la Chiesa» “.
Tutto il resto, che comprende le singole pratiche, che mutano col mutare dei tempi, delle situazioni ambientali e delle reali possibilità fisiche delle persone, tutto il resto ha un senso e serve nella misura in cui educa al dominio di sé, alla disponibilità verso gli altri e, soprattutto, all’abbando­no semplice e fiducioso al piano di redenzione che Dio ha su di noi, e che vuol realizzare servendosi di noi, nella misura in cui noi desideriamo essere con Cristo.
Perciò mettere l’accento su quanto l’elemento penitenza comporta di negativo e di limitativo, non ha senso per noi domenicane. Sappiamo che esso ha un valore educativo, che non mutila, né sacrifica con esagerazioni, stravaganze, imprudenze la persona umana, ma è volto a liberare in essa le energie più pure, quelle interiori, quelle che la fanno essere totalmente aperta a Dio e al prossimo, così che pos‑
siamo realmente vivere lo spirito di Domenico, che portava nell’intimo «santuario della sua compassione» il dolore di
ogni uomo. La contemplazione che si traduce in preghiera incessante, un’esistenza che trascorre nel nascondimento d’un monastero, possiamo ripeterlo ancora una volta sot‑tolineando lo specifico domenicano, non si chiude nel disinteresse per la realtà che ci circonda; così anche lo spi­rito di penitenza che informa la nostra vita è una parteci­pazione attenta, amorosa, ma soprattutto ricca di fede, a quello che è uno dei problemi più assillanti dell’uomo di sempre: il problema del dolore e, molto più ampiamente, il problema del male. Alla sofferenza fisica, morale, spiritua­le di ogni uomo noi offriamo la soluzione che solo può venire dalla Croce, non una croce indicata e proposta, ma una crocifissione assunta su di noi, come una particolare chiamata, per testimoniare che il dolore ha un valore redentivo, e che solo nella conformità a Cristo ci si libera dalla colpa e dall’errore. Anche questo aspetto della nostra vita, che ai più può apparire sgradevole o superato, ha così una sua dimensione apostolica, ed è pienamente inserito nella predicazione, che è annuncio di salvezza.
Unanimi nella clausura, nel silenzio
Nella vita contemplativa claustrale ogni elemento trova il suo giusto inserimento e la sua validità, in quanto con­corre «a far presente con abbondanza la parola di Dio nel monastero », così che in esso le monache «preparano nel ritiro le vie al Signore »’2. Questi elementi, che sono la clausura, il silenzio, la cella, il lavoro manuale ecc., non sono certo elementi nuovi, né particolari del nostro Ordi­ne.
Sappiamo che sono gli stessi che San Domenico praticò ed ereditò dalla tradizione monastica, anche se essi acqui­stano quel significato che viene loro dal fine totale che la Famiglia persegue, fine che mai deve perdersi di vista, se non si vuole che il mezzo, sovrapponendosi al fine, riduca l’esistenza sul piano delle prescrizioni giuridiche, e spenga così lo slancio vitale e la ricchezza spirituale che essa con­tiene.
Perciò parlare di «clausura» significa sì parlare di separazione dal mondo, ma perché le monache « si dedichi­no interamente alla ricerca del regno di Dio e… si aprano alla comprensione della larghezza, dell’altezza, della pro­fondità della carità di Dio, che inviò il proprio Figlio affin­ché tutto il mondo fosse da Lui salvato »”.
Il «silenzio» è un parlare assiduamente con Dio, medi­tando la sua Parola nel profondo del cuore, nella cella interiore, della quale è segno concreto, ambiente favorevo­le la «cella monastica»: «chiostro nel chiostro, stanza chiusa dell’orazione segreta, luogo della lettura divina e dello studio »14.
Questi i motivi che sempre mettono il Cristo, la con­templazione del suo mistero e la conformità a Lui, al cen­tro della nostra vita. Tali motivi ritroviamo in tutti i momenti nei quali si articola la nostra vita di monache, sia che preghiamo, sia che lavoriamo condividendo la condi­zione dei poveri, condividendo l’esperienza stessa del Figlio di Dio, che lavorò uomo tra gli uomini. Ed in ciò ci sfor­ziamo di realizzare quella unanimità che non è passivo ade­guamento, ma apertura alla comunione fraterna. Essa in­fatti «è radicata nell’amore di Dio, e deve costituire il modello di quella universale riconciliazione in Cristo, che i nostri confratelli predicano anche con la parola» “. Quale sia, ancora una volta, la portata apostolica di questa nostra vita che trascorre nel nascondimento, quanto forte possa essere l’annunzio che nasce dal silenzio, solo la fede e l’amore possono spiegarlo, quella stessa fede e quello stesso amore per i quali ci riconosciamo e siamo simili alla Chiesa degli Apostoli. Infatti « anche la nostra comunione ha le sue fondamenta, trova il suo sviluppo e la sua stabili­tà nello stesso Spirito; in Lui riceviamo il Verbo di Dio con la stessa fede, lo contempliamo con lo stesso amore, can­tandone le lodi con una voce sola; in Lui formiamo un solo corpo, nutrendoci dello stesso pane; in Lui infine abbiamo tutto in comune» 16. È il progetto di San Domenico che noi
portiamo avanti, è lo spirito che animò le prime monache di Prouille, quello stesso che rese possibile la riforma di San Sisto, ed è la nostra corrispondenza al Santo del quale abbiamo accolto il carisma.

NOTE
‘ Costituzioni delle monache dell’Ordine dei Predicatori, Roma 1971
(in seguito: Costit.), Lettera di p. A. Fernandez, p. 7.
Documento di Bologna sulla Famiglia Domenicana, 2, in «I.D.I. »,
maggio 1983, p. 84ss.
3 Costit., Costituzione fondamentale delle Monache, II.
Costit., Lettera di p. A. Fernandez, p. 8.
Costit., Costituzione fondamentale cit., III.
Documento di Bologna cit., passim.
Costit., Lettera di p. A. Fernandez alle monache, del 22 luglio
1971, all’inizio del volume, senza numerazione di pagine.
Costit., 80.
9 Le nove maniere di pregare di S. Domenico, maniera quinta, in
P. LIPPINI, S. Domenico visto dai suoi contemporanei, Bologna 1982,
p. 150.
I° La settima maniera, ib., p. 155.
” Costit., 24, II.
12 Ib. 108.
” Ib. 41.
14 Ib. 55.
15 Ib. 2.
16 Ib. 3