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santa caterina da siena
di P. Gerardo Cioffari OP
Caterina nacque a Siena il 25 marzo 1347, penultima dei 25 figli di Jacopo benincasa e Lapa[1]. Secondo la Legenda Maior, costituita dalla Vita della Santa scritta dal suo direttore spirituale il beato Raimondo da Capua, Caterina ebbe una prima visione già a sei anni, con Cristo che la guardava sorridente dall’alto della basilica di S. Domenico.
La sua scelta religiosa non piaceva ai genitori, e specialmente alla madre. Avrebbe voluto darsi alla meditazione interiore, ma i genitori la obbligavano a fare i soliti lavori di casa.
Intorno ai 15 anni aveva scelto come confessore il frate domenicano Tommaso della Fonte. A questi il padre Giacomo e la mamma Lapa si rivolsero quando la figlia cominciò a dire che non voleva altro sposo in terra che Gesù Cristo. Inizialmente il confessore accontentò i genitori, ma poco a poco cominciò a capire di trovarsi di fronte ad una grande vocazione religiosa. Le consigliò perciò di tagliarsi i capelli, cosa che lei fece attirandosi le ire dei genitori. Poco dopo (1363) entrava fra le Mantellate, suore del Terz’Ordine della Penitenza, le quali conducevano in casa una vita quasi claustrale e portavano un mantello nero su una veste bianca. Ricoperte di un velo bianco, si incontravano per la preghiera comune nella Cappella delle Volte, nella chiesa di S. Domenico di Siena.
L’entrata nell’Ordine non significò una scelta in senso esclusivamente mistico. Infatti, non mancava dal rendere visita ai suoi e soprattutto di visitare i malati sia all’ospedale della Scala che al lebbrosario di S. Lazzaro. L’elemento mistico restava però prevalente. Cominciò infatti una vita di ritiro, nella veglia e nelle penitenze, accompagnando con la preghiera personale la preghiera corale dei frati. Ovviamente, non sapendo leggere, alla preghiera comune si limitava ad ascoltare le consorelle. Un periodo di ritiro che si concluse con la famosa visione dello sposalizio. Era il carnevale del 1367 e mentre tutti fuori facevano allegra baldoria, le apparve la Vergine a fianco del suo divin Figlio che teneva un anello luminoso. Facevano loro corona S. Giovanni Evangelista, S. Paolo, S. Domenico e il re Davide che suonava l’arpa. Fu la Vergine a prendere la mano di Caterina e quella del Figlio, ponendo l’anello nuziale al di lei dito, mentre Gesù esortava la novella sposa ad operare per la gloria di Dio[2].
Il carisma che da lei emanava era così forte che, nonostante la sua giovane età, poco a poco diversi senesi, anche di famiglie altolocate, cominciarono a frequentarla ed a chiederle consigli. Dopo questa attività svolta nella sua città, Caterina allargò l’orizzonte della sua attività. L’occasione venne dal ritorno ad Avignone del papa Urbano V nel 1370, dopo tre anni di permanenza a Roma. In una visione le fu imposto di abbandonare la vita contemplativa per scendere sul terreno della lotta con la croce in collo e l’ulivo in mano. Quando, oltre al tema del ritorno del papa a Roma, cominciò ad occuparsi della riforma della Chiesa e della crociata contro i Turchi, molti ne furono entusiasti, ma altri gridarono allo scandalo perché a tali appelli si dedicava una donna e per di più una suora. Ecco perché ad occuparsi della faccenda si sentì investito lo stesso capitolo generale dei Domenicani a Firenze.
A dire il vero dovette già essersene occupato il capitolo provinciale di Siena del 1372, anche se la vicenda è nota solo indirettamente. Si sa infatti che il vescovo francescano affidò la cosa all’inquisitore francescano Gabriele da Volterra, il quale però lo si ritrova l’anno dopo fra i discepoli della Santa. Ora al capitolo generale di Firenze (maggio 1374) Caterina fu nuovamente esaminata, come conferma l’Anonimo Fiorentino con queste parole: Venne a Firenze del mese di maggio anni MCCCLXXIV, quando fu il capitolo de’ Frati Predicatori, per comandamento del maestro dell’Ordine, una vestita delle pinzochere di Santo Domenico che à nome Caterina di Jacopo da Siena, la quale è d’etade di venzette anni, quale si reputa che sia santa serva di Dio; e collei tre altre donne pinzochere del suo abito, le quali stanno a sua guardia. E della quale, udendo la sua fama, procacciai di vederla e prendere sua amistà; intanto che parecchioe volte venne qui in casa. E comprendendo io della vita sua, ingegnaimi di sapere d’essa quanto più potei sapere. E qui appresso ne farò memoria a sua laude e mia consolazione di quelle poche cose che io ne potei sapere [3].
A giudicare dalla conclusione del capitolo, l’interrogatorio dovette concludersi favorevolmente alla santa. Infatti, non solo non fu messa a tacere, ma le fu dato incarico di predicare la crociata contro i turchi, mentre per la sua parte spirituale doveva fare riferimento a fra Raimondo da Capua. D’altra parte, questa seconda decisione poteva essere una cosa buona in sé, a garanzia di eventuali sviluppi teologici o spirituali, ma anche per tacitare una società non adusa ad un ruolo così appariscente da parte di una donna e per di più di una suora.
Consolatrice dei condannati
Prima di vedere Caterina all’opera nella predicazione della crociata contro i Turchi, è opportuno soffermarsi su un aspetto della sua personalità che emerse durante il processo veneziano di canonizzazione. La testimonianza è di fra Simone Neri di Cortona che durante la peste del 1374 si trovava a Siena:
Era un tempo quello in cui parecchi, per i loro delitti, senza confessione e disperati, andavano incontro alla morte. Appena lo veniva a sapere, la pia madre trascorreva la notte in preghiera per loro con devote invocazioni al Cristo e al mattino di buon’ora si recava al carcere, confortando i disgraziati ed esortandoli a sperare, parlando loro di Dio, e come essi facessero del male a sé stessi, e che se fosse stato possibile volentieri sarebbe morta al loro posto e così partecipare al celeste convivio. E così con parole dolci inteneriva il loro cuore spingendoli a chiedere il confessore e quelli non senza grande pentimento confessavano i loro peccati. E così la pia madre riportava quelle anime perdute a Cristo, che è la via, la verità e la vita. E questo si verificò più volte. Anzi, spesso li accompagnava fino al luogo del supplizio. E una volta inginocchiati al momento del martirio, riceveva i loro resti nelle sue mani e godeva vedendo la sua veste bianca macchiata del loro sangue[4].
A questo momento della vita di Caterina è legato il celebre episodio di Niccolò Toldo, il nobile perugino condannato a morte agli inizi del giugno 1375 a Siena per aver cospirato contro la sicurezza dello stato. Negli ultimi momenti Caterina sarebbe riuscita a fargli superare la disperazione e a fargli affrontare la morte in grazia di Dio.
Senza farne il nome, ma designandolo solo come uno giovano perugino al quale fu tagliata la testa in Siena, nella sua lettera XXXI, Caterina riferiva l’episodio a Raimondo da Capua. E diceva fra l’altro di aver preso fra le mani la testa del decapitato: Io sentivo uno giubilo, uno odore del sangue suo, e non era senza l’odore del mio..., e più oltre Riposto che fu, l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue che io non potei sostenere di levarmi el sangue, che m’era venuto addosso, di lui[5].
Quasi certamente il realismo di certe espressioni, che fra l’altro combaciano perfettamente con la testimonianza di fra Simone Neri (godeva vedendo la sua veste bianca macchiata del loro sangue), dovette dare fastidio a Raimondo da Capua, che omise l’episodio di Niccolò Toldo nella sua Legenda maior (1395 circa). Lo inserì invece Tommaso Caffarini (Tommaso di Antonio Nacci da Siena) nella sua Legenda Minor (sia nell’edizione del 1313 che in quella del 1314), che pur essendo un riassunto della Legenda Maior, aggiunge pochi elementi nuovi, fra i quali proprio quest’episodio[6].
Lo strano silenzio di Raimondo da Capua può avere varie motivazioni. Che pur essendo convintissimo della santità di Caterina, non condividesse quella esaltazione del sangue. Che effettivamente Caterina non abbia avuto nulla a che fare con Niccolò di Toldo e che l’identificazione successiva del Caffarini sia poco fondata. Che Caterina spesso riferisse come accaduti fatti che in realtà seguiva solo in visione. Raimondo, infatti, ha questa frase curiosa al riguardo: Le era stata concessa la grazia di andare con essi in spirito, e li accompagnava di continuo fino alla porta della città, piangendo sempre per loro e pregando affinché i loro cuori si intenerissero e si convertissero[7].
Se si accetta la critica del Dondaine alla critica delle fonti del Fawtier, e quindi si accetta la storicità dell’episodio come vissuto direttamente dalla Santa e con la sua partecipazione in loco, non rimane che la reticenza del beato Raimondo di fronte all’esaltazione del sangue. Egli preferì dunque passare sotto silenzio l’episodio di Niccolò Toldo e di riportare queste azioni di Caterina nell’ambito dello spirito e della preghiera per loro: andava con essi in spirito e li accompagnava.
Crociata e ritorno del papa a Roma
Nel febbraio del 1375 era dunque a Pisa, ove era giunta su invito del nobile Piero Gambacorta. In varie conversazioni con lui ed altri signori della città riuscì a coinvolgerli nella grande impresa che lei patrocinava della crociata, tenendo conto dell’importanza di avere i Pisani nell’impresa. La foga che ella metteva nel predicare la crociata si evince anche dal linguaggio aspro per definire i nemici della croce: cani infedeli.
Oltre alle città di mare Caterina si rivolse ai capitani di ventura come il conte Aguto (John Hawkwood), quando questi si trovava accampato presso Siena. Il beato Raimondo consegnò al capitano questa lettera della senese: Se, per stare al servizio del demonio, voi avete durato pene ed affanni, ora desidera l’anima mia che mutiate modo e che pigliate il soldo e la croce di Cristo Crocifisso, e che siate una Compagnia di Cristo ad andare contra a’ cani infedeli, che possiedono il nostro Luogo Santo, dove si riposò e sostenne la prima dolce Verità morte e pena per noi. (…) Voi che tanto vi dilettate di far guerra e di combattere, non guerreggiate più i Cristiani, perocché è offesa di Dio, ma andate contro di loro! Grande crudeltà è che noi siamo cristiani, membri legati nel corpo della Santa Chiesa, perseguitiamo l’un l’altro! Così dimostrerete d’esser virile e vero cavaliere[8]. Nonostante l’Aguto promettesse di aderire alla spedizione appena questa fosse pronta, come si sa le discordie dei principi ne impedirono l’organizzazione.
Come poi farà anche con Lucca a settembre 1375, riuscì a convincere la città a non lasciarsi attrarre dai fiorentini nell’entrare in alleanza coi milanesi contro il papato. Per quell’alleanza Gregorio XI aveva fulminato l’interdetto. Caterina, in una lettera s’era rivolto a lui con queste parole: Pace, pace, babbo mio dolce, e non più guerra. Pace per amor di Dio! Ora nel 1376 partiva per Avignone, non solo per favorire la pace, ma anche per spingere il papa a tornare a Roma: Compite con vera e santa sollecitudine il proponimento della vostra venuta… Venite a consolare i poveri, i servi di Dio e i vostri figlioli; noi vi aspettiamo con amoroso desiderio… Venite e non fate più resistenza alla volontà di Dio che vi chiama! [9].
Il viaggio dunque, se fallì riguardo alla pace tra Firenze ed il papato, non fu però vano per la santa stessa. Infatti, sempre più in lei si fece strada l’idea di impegnarsi a che il Pontefice facesse ritorno a Roma. In una lettera dell’agosto 1376 Caterina scrisse al papa: Dissemi el padre mio frate Raimondo, per vostra parte, che io pregasse Dio se doveste avere impedimento; e io già n’avevo pregato inanzi e doppo la santa comunione: non vedevo né morte né pericolo alcuno, e’ quali pericoli pongono coloro che vi consigliano[10]. Ed infatti Gregorio XI nel 1376 prese la via della città eterna. Durante la sosta a Genova incontrò Caterina che lo incoraggiò a proseguire. Ormai, circondata da successi spirituali, Caterina viaggiava accompagnata da tre confessori che intervenivano a coronare con la penitenza le conversioni che ella continuamente operava.
Lei era convinta che molti mali della società del tempo derivavano dal fatto che il papa era lontano e non a Roma. Il dolce Cristo in terra, doveva dunque tornare assolutamente a Roma. Quando perciò Gregorio XI tornò e si stabilì a Roma, essa si sentì in dovere di continuare a fare da sua ambasciatrice. A mezzo del beato Raimondo il papa le comunicò il suo intento di restaurare la pace con Firenze ed ella vi si recò, riuscendo, grazie all’aiuto di Niccolò Soderini, ad incontrare i rappresentanti di parte guelfa[11]. Avendoli convinti, questi privarono del potere quelli che erano per la guerra con la Chiesa. Questi partigiani della guerra al papato però sobillarono il popolo e ripresero il potere, vendicandosi dei guelfi che avevano ascoltato il consiglio di Caterina. Anzi, la plebe cominciò a gridare di voler uccidere anche la santa: Prendiamola! Bruciamola quella donna infame! Trucidiamola![12]. Una schiera armata il 29 giugno 1378 si recò nel luogo ove lei si trovava decisi a ucciderla. Ma appena la trovarono nell’orto, il capo non se la sentì di uccidere una donna e si limitò ad intimarle di andar via. Ma lei, desiderando il martirio, gli si parò avanti dichiarandosi pronta a morire: Ci sto così bene qui! Dove devo andarmene ora? Io son pronta a patire per Cristo e per la sua Chiesa: è questo che desideravo e chiedevo da tanto tempo! Devo ora fuggire, quando ho trovato quello che desideravo? Mi offro ostia viva all’eterno mio Sposo. Se tu sei destinato ad essere il mio immolatore, fai con sicurezza ciò che vuoi, perché io non muoverò un passo di qui. Non toccare però qualcuno dei miei!.
Morto intanto Gregorio XI, dopo qualche altro giorno nascosta, riprese le trattative questa volta a nome del nuovo papa. Quando la pace fu ristabilita, disse ai suoi discepoli: Ora possiamo andarcene da questa città. Per grazia di Cristo ho già fatto la sua obbedienza e quella del suo Vicario, perché lascio pacificati e riconciliati con una Madre tanto pia, coloro che si erano ribellati alla Chiesa. Torniamo dunque a Siena donde venimmo[13].
Questi ultimi due anni Caterina li trascorse ancora nella vana speranza della crociata e soprattutto a difesa dell’unità della Chiesa che ella vedeva nel riconoscimento dell’unico papa legittimo, Urbano VI. A tale scopo invia un gran numero di lettere a principi e sovrani, supplicando di addivenire a tale riconoscimento. Una in tal senso (perduta) la inviò a Riccardo II d’Inghilterra, un’altra a Ludovico il Grande d’Ungheria. In questa seconda la regina Giovanna è definita sprezzantemente femmina, che potrebbe mettere a ruina e in tenebre e confusione tutta la fede nostra. E aggiunge: Abbiate compassione del Padre nostro, Papa Urbano VI. E’ vero che solo si conforta col suo Creatore, come uomo che ha posta la speranza e la fede sua in lui. Ma egli anco spera che Dio disponga voi a pigliar questo peso, per onore di Dio e bene della Santa Chiesa[14]. Un’altra ancora scrisse a Carlo di Durazzo, qui detto Carlo della Pace. E ancora al confaloniere di giustizia di Firenze, ai rettori del comune di Perugia. E come per la crociata si era rivolta al capitano di ventura Giovanni Aguto, per sostenere militarmente Urbano VI si rivolse ora al capitano Alberigo da Barbiano. Questi, infatti, accorso a Roma, batté le forze dell’antipapa liberando anche Castel S. Angelo. Ed il papa vi si recò, invece che trionfalmente, umilmente a piedi in processione, il che gli procurò aperte lodi di S. Caterina.
Per meglio comprendere la passione per Urbano VI è indicativa la lettera ai rettori di Siena affinché offrissero un aiuto militare. Ad eventuali obiezioni sui difetti del pontefice ella così rispondeva: Anzitutto è uomo giusto e virtuoso e teme Dio con così santa e diritta intenzione quanta neuno che ne avesse gran tempo la Chiesa di Dio; ma in ogni modo, o buono o cattivo che fosse, la riverenza non si fa a lui in quanto lui, ma al sangue di Cristo e all’autorità e dignità che Dio gli ha dato per noi. Questa autorità e dignità non diminuisce per neuno difetto che in lui fosse, né ci ministra la sua autorità di meno potenza né di meno virtù; e però non si deve a lei diminuire la riverenza né l’obbedienza[15].
Nemmeno la diserzione in massa dei cardinali fece cambiare idea a Caterina e, ciò che è peggio, visse sino alla morte nel convincimento che Urbano VI fosse un papa giusto e virtuoso. Eppure Urbano VI aveva già dato abbondante prova della sua durezza di cuore, e di lì a poco avrebbe fatto giustiziare cinque cardinali[16] che intendevano metterlo sotto tutela, ed avrebbe scatenato una guerra in Italia meridionale a motivo del fatto che Carlo III non l’aveva accontentato nel dare feudi e castelli al nipote. Se la Santa si fosse accorta del suo grande errore di giudizio probabilmente non avrebbe tanto sottovalutato un papato al contempo spietato e corrotto. Invece di scrivere tante lettere (spesso offensive) alle più svariate persone per convincerle all’adesione ad Urbano VI, certamente avrebbe usato col pontefice un tono ben più severo per indurlo ad una maggiore umanità e comprensione. Perché se quel papa si era fatto tanti nemici era stato proprio per il suo carattere violento, sospettoso, umiliante, e del peggior nepotismo.
Fino all’ultimo si impegnò affinché nell’Ordine tornasse lo spirito delle osservanze, ideale che condivideva col suo confessore il beato Raimondo da Capua. Per questo motivo, quando apprese che si stava per tenere il capitolo generale a Bologna per eleggere un altro maestro generale (essendosi il maestro generale Elia schierato per l’antipapa), Caterina disse ai suoi figli spirituali: voglio che eleggiate fra Raimondo. Di lì a poco Caterina moriva (29 aprile 1380), ma la sua esortazione non cadeva nel vuoto. Il 12 maggio effettivamente il beato Raimondo da Capua veniva eletto maestro generale.
Nonostante che la vita di Caterina da Siena fosse tutt’altro che vissuta in convento, il suo maggior retaggio all’Ordine fu l’idea della riforma osservanziale. Infatti a lei si richiamavano molti dei protagonisti della riforma domenicana, che vide in prima linea i conventi di S. Domenico di Fiesole e S. Marco di Firenze, nonché il monastero di S. Domenico di Pisa.
Il Dialogo della divina Provvidenza
Quanto alle fonti della sua dottrina, il P. A. Grion o.p.[17] tende a diminuire il ruolo di Fra Raimondo da Capua, fra Bartolomeo Dominici e don Stefano Maconi, per fare emergere (seguendo in ciò il Fawtier) il ruolo dell’agostiniano fra Guglielmo d’Inghilterra, nonché fra Ubertino da Casale. Invece, secondo Innocenzo Taurisano[18], un contatto diretto avrebbe avuto con don Giovanni dalle Celle, ammiratore di Ubertino. Ma questi entrò nel cenacolo ben più tardi. Più unanime è la critica nell’individuare in fra Domenico Cavalca la principale fonte d’ispirazione.
Mentre l’Epistolario si incentra sul sangue redentore del Cristo, Il Dialogo è un trattato dell’amore di Dio. Come riferì essa stessa a Raimondo da Capua (lettera 272, ed. Tommaseo), il libro fu scritto materialmente da Stefano Maconi, Neri di Landoccio dei Pagliaresi e Barduccio Canigiani, i quali trascrivevano ciò che lei diceva in stato di estasi. Come dirà Bartolomeo Dominici, in componendum librum semper abstracta erat a sensibus.
Il contenuto riflette il dialogo fra lei e l’Eterno Padre, che poi i suddetti segretari divisero in sezioni e capitoli. Alla prima domanda sulla misericordia di Dio nei suoi confronti, Caterina fu invitata alla virtù della discrezione. Ed il trattato sulla discrezione forma appunto la prima parte (capitoli 2-16). Quanto alla misericordia verso il mondo, la risposta (alquanto più varia) parte dal dono del Verbo incarnato da parte del Padre (capitoli 17-30), che è alla base dello sforzo di conformità al Cristo da parte dell’uomo (capitoli 31-86). In questa ascesi un posto particolare è riservato al dono delle lacrime (capitoli 87-97). Questa seconda sezione si conclude con tre schiarimenti relativi alla discrezione (cap. 98-109), che aveva formato il tema della prima. La terza risposta concerne la misericordia verso la Chiesa, che si manifesterà con la riforma dei Pastori (cap. 110-134), tema che fa da sfondo a tutta l’attività di Caterina. La quarta ed ultima parte concerne la Provvidenza della Misericordia, sia nei suoi aspetti particolari che nella sua natura generale (capitoli 135-153), che nel modo di conseguirla, mediante cioè la virtù dell’obbedienza (cap. 154-165).
La verità che domina tutte le altre è la Santissima Trinità, fonte dell’universo intero e quindi anche dell’uomo. Questi è creato ad immagine della Trinità, come si vede dalle sue facoltà, quella cioè della memoria, dell’intelletto e della volontà. A rendere drammatico il rapporto fra uomo e Dio è quella libertà che Dio ha donato all’uomo e che è all’origine del peccato originale, per il quale l’uomo è gettato come in un mare in tempesta. I vizi e le passioni suscitano le onde impetuose di questo mare. Ma la Provvidenza non abbandona l’uomo a sé stesso, e nel suo eterno consiglio stabilisce l’incarnazione salvifica e redentrice del Figlio. Nel momento in cui il Verbo è generato dalla Vergine, questa diventa il tempio di tutta la Trinità, ed in qualche modo attraverso la sua umanità è colei che attrae gli uomini a Dio, la corredentrice.
Cristo è il vero centro della dottrina cateriniana. Espressione vivente dell’amore di Dio per gli uomini, egli è il maestro che insegna dalla cattedra della croce, ma anche e soprattutto il redentore mediante il suo sangue. Egli è il vero mediatore fra Dio e l’uomo, il ponte per ricreare la comunione spezzata dall’abisso del peccato, la scala per risalire a Dio. E l’uomo sale per questa scala passando dai gradini inferiori (l’amore del servo) a quelli intermedi (amore amicale o filiale) per raggiungere la cima (amore di assimilazione e comunione con la Trinità).
Il sangue di Cristo è fonte di santificazione, specialmente attraverso i sacramenti, ed è per il suo tramite che si compatta il suo corpo mistico, formato dal clero e dall’insieme dei fedeli. Il papa è il “cellario”, depositario delle chiavi del sangue di Cristo, mentre i sacerdoti ne sono i “ministratori”. Né la riverenza verso di essi può venir meno in considerazione della loro eventuale indegnità. Infatti l’efficacia dei sacramenti viene dalla vite, che è il Cristo, ed anche se la Sposa di Cristo può essere macchiata da colpe varie, la sua santità non può mai venir meno grazie alle preghiere e all’ascesi dei veri figli di Dio.
La società dev’essere il luogo in cui si realizza la redenzione, a partire cioè dal bisogno di ogni uomo di non vivere per sé, ma in comunione con gli altri. La persona ritrova tutta la sua dignità nel fatto che è creatura di Dio e su di essa Dio ha un progetto. Di conseguenza, fine della società non può essere solo il benessere materiale, ma principalmente il bene morale e spirituale. Per cui è fondamentale che l’ordine sociale si fondi sulla giustizia, come premessa necessaria al progresso verso l’amore del prossimo come espressione dell’amore di Dio.
Che Caterina non intendesse il tutto in modo astratto si deduce dalla concretezza dell’esercizio del potere politico. A suo avviso, per indicare il vero bene comune è necessaria l’autorità. E’ questa che deve giudicare se le persone preposte rispondono alle esigenze morali della società. Nel momento in cui si scopre che i detentori dei poteri non agiscono per il bene comune, è necessario sollevarli dall’incarico senza cedere ad incertezze e debolezze. Attraverso la giustizia si ottiene concretamente la pace. Ma quando i potenti abusano dell’autorità avuta direttamente da Dio, allora si giustifica anche la guerra. Come di fatti Caterina non solo giustifica ma predica la guerra contro coloro che mettono in pericolo l’unità della Chiesa e del papato, per non parlare della guerra contro gli infedeli, tendente non solo a liberare i luoghi santi, ma anche a compattare lo spirito di unità dei popoli cristiani.
[1] La letteratura su di lei è immensa. Lo Studio Domenicano di Bologna ha edito sia le Lettere che il Dialogo della Divina Provvidenza. Segnaliamo tuttavia, E. Dupré Theseider, Il problema critico delle Lettere di Santa Caterina da Siena, Roma 1933; ID., S. Caterina da Siena. Epistolario, Roma 1940; R. Fawtier, Sainte Catherine de Sienne. Essai de critique des sources. I. Sources hagiographiques, Paris 1921. II. Les oeuvres de Sainte Catherine de Siene, Paris 1930; M. H. Laurent (a cura di), Fontes vitae S. Catharinae Senensis Historici. Documenti, Firenze 1936 ; Fr. Valli (a cura di), I miracoli di Caterina di Jacopo da Siena di un anonimo Fiorentino, Firenze 1936.; F. Grottanelli (a cura di), Legenda minore di S. Caterina da Siena e lettere dei suoi discepoli, Bologna 1868; Raimondo di Capua, Legenda maior vitae Catharinae Senensis, in AA SS Aprilis III, pp. 862-967. Per una buona sintesi, vedi Adriana Cartotti Oddasso, Caterina Benincasa, voce in Bibliotheca Sanctorum.
[2] Lodovico Ferretti, Vita di Santa Caterina da Siena, III ed., Siena 1961, p. 24.
[3] Innocenzo Taurisano, Santa Caterina da Siena, patrona primaria d’Italia, Roma 1956 (1ª ed. Roma 1948), p. 24.
[4] Fontes Vitae (ed. Laurent), IX (Il processo), p. 458.
[5] Epistola XXXI, in E. Dupré Theseider, Epistolario, I, pp. 129, 131-132.
[6] Antoine Dondaine, Sainte Catherine de Sienne et Niccolò Toldo, AFP XIX (1949), pp. 169-207, in particolare p. 175. L’attendibilità di questa storia fu messa in dubbio per la prima volta dal Fawtier (I, pp. 169-171, e II, pp. 201-202) in considerazione del fatto che mancano testimonianze archivistiche esterne al dossier cateriniano, che Caterina si trovava a Pisa nel giugno del 1375 e nei mesi successivi, e che tacciono su questo episodio sia Raimondo da Capua, principale storico di Caterina, sia il cronista coevo Donato Neri (L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XV, (Bologna 1937), che pure riferisce la storia di Siena in quel periodo abbastanza dettagliatamente. Difende la storicità dell’episodio A. Dondaine nello studio citato, smontando soprattutto l’argomentazione della mancanza di documentazione archivistica, non tanto sulla esecuzione del Toldo, effettivamente non supportata da tali documenti, quanto sul fatto e la condanna.
[7] Raimondo da Capua, Legenda Maior, II, cap. 7 (Acta SS., § 229, pp. 918-919).
[8] Ferretti, Vita, p. 82. La lettera in questione è giunta sino a noi. Cfr. Archivio di Stato di Siena, Concistoro, Lettere 1786, n. 83.
[9] Ferretti, Vita, p. 89.
[10] Dupré, Epistolario, I, n. 76, p. 312. Citato anche da A. W. Van Ree, Raymond de Capote, cit., p. 175.
[11] Raimondo da Capua, Legenda maior, n. 422; cfr. anche Van Ree, Raymond de Capote, cit., p. 180.
[12] Taurisano, Santa Caterina, p. 97.
[13] Taurisano, Santa Caterina, p. 100.
[14] Ferretti, Vita, p. 164.
[15] Ferretti, Vita, p. 168.
[16] Cfr. Angelo di Costanzo, Istoria del Regno di Napoli, ed. Gravier, Napoli 1769, pp. 272-273. Fonte del Di Costanzo è Teodorico di Nien, segretario del papa e testimone oculare delle torture cui il papa sottoponeva il cardinale Gentile di Sangro (“appiccato alla corda”) mentre egli leggeva l’ufficio ed ogni tanto interrompeva per strillare contro il complotto dei suddetti cardinali che gli suggerivano di fare la pace col re di Napoli.
[17] S. Caterina da Siena, dottrina e fonti, Brescia 1954.
[18] Taurisano, Santa Caterina, p. 45.
Ordine dei Predicatori
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