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bartolomé de las casas
di P. Gerardo Cioffari OP
Fra i presenti a alla famosa predica del Montesinos c'era il giovane Las Casas, figlio di uno di quei ricchi proprietari che avevano accompagnato Cristoforo Colombo nel secondo viaggio in America (1493) [1]. A nove anni si trovava in compagnia del padre quando Cristoforo Colombo, rientrato dal primo viaggio nell’aprile del 1493, aveva portato con sé sette indios da mostrare al re. Era il suo primo contatto con gli esseri umani cui avrebbe dedicato tutta la sua vita e che io vidi allora a Siviglia, e stavano in S. Nicola presso l’arco detto delle Immagini [2]. Nel 1502 ventottenne, accompagnando Nicolás de Ovando, il nuovo governatore di quelle terre e costruttore della prima chiesa in pietra del continente (dedicata anche questa a S.Nicola), quel giovane era andato a prendere possesso della ricca fazenda del padre. Pur essendo un buon encomendero che non maltrattava gli indios, la sua trascuratezza nella loro evangelizzazione gli causò il rifiuto dell’assoluzione da parte di un domenicano, forse proprio Pedro de Cordoba. Quando a Cuba ricevette un’altra encomienda per la sua pacificazione dell’isola nella campagna del capitano Narvàez, subì un trauma nell’assistere alla strage di Caonao (1513). L’orrore per tanta crudeltà e il contatto con i domenicani gli insinuò forti dubbi sulla moralità della conquista.
In particolare, la predica del Montesinos e le conversazioni con Pedro de Cordoba suscitarono in lui una tale impressione che decise di cambiare radicalmente vita, passando dall'immorale sfruttamento degli indigeni ad una dedizione totale alla difesa dei loro diritti umani. Si fece allora sacerdote ottenendo anche la nomina di «protettore generale» degli indios. Lottò contro l’istituto stesso dell'encomienda, vale a dire lo sfruttamento degli indigeni mascherato da intenti evangelizzatori. A suo avviso, gli indios erano dotati di una naturale semplicità e bontà, cui mancava solo il sigillo del Vangelo, mentre gli spagnoli, pur avendo il Vangelo, si erano dati ad ogni tipo di rapina ed oppressione. Quando vide che tutte le sue denunce e i suoi appelli al vangelo cadevano nel vuoto, decise nel 1515 di tornare in Spagna (imbarcandosi proprio col Montesinos). Qui, col suo Memorial de Remedios (1516),sostenuto da altri confratelli domenicani, come Reginaldo Montesinos, si batté per la dignità degli indios, ricordando che essi sono uomini liberi e come tali vanno trattati. La cosa ovviamente aprì tutta una serie di dibattiti nelle istituzioni teologiche spagnole. Quando tornò nel 1520 in America, dopo essere riuscito a strappare al re leggi più umane, dovette rendersi conto che non era facile farle applicare. A nulla o a poco valse la sua foga oratoria e le sue violente denunce delle ingiustizie. Ad evitare l'estinzione degli indios, propose persino che per i lavori più duri si impiegassero i negri, che erano stati lì trasportati sin dal primo momento e che erano avvezzi a lavori più duri.
Il commercio degli schiavi negri era cominciato in Spagna e Portogallo ben prima della scoperta dell'America, per cui l'idea non gli era sembrata malvagia. Più tardi, però, si pentì amaramente dell'immoralità della sua proposta:
Quando ebbe capito in qual modo iniquo questi Neri erano stati asserviti dai Portoghesi, egli non avrebbe rifatto una simile richiesta per alcuna ragione al mondo ... anzi egli non fu mai certo che l'ignoranza in cui era vissuto al riguardo gli sarebbe servita da scusa dinanzi al tribunale di Dio [3].
Finalmente nel 1522, sulla scia dell’ammirazione per Pedro de Cordoba e Antonio Montesinos, nonché seguendo l’invito di fra Domenico Betanzos, entrava nell'Ordine domenicano. Dopo alcuni anni di formazione teologica nel silenzio, nel 1527 fondò un convento a Puerto del Plata, dall'altra parte dell'isola, ove divenne priore. In quegli anni moriva Diego Colombo, e la vedova (dimenticando la dura polemica del figlio di Colombo contro i domenicani) mise a disposizione del Las Casas i suoi preziosi archivi che saranno alla base della sua opera principale, la Historia de las Indias.
Qui cominciò a scrivere anche Dell'unico modo di attirare il genere umano alla vera religione, che era ovviamente il modo del convincimento interiore. Quando gli giunse notizia del come il conquistatore Fernando Cortés (1519) aveva imposto il cristianesimo agli Aztechi del Messico, commentò:
Fare adorare la croce a dei pagani senza dare loro una spiegazione del suo significato è lo stesso che far loro adorare un idolo.
In occasione della conquista del Perù (1532) da parte di Francisco Pizarro, Las Casas abbandonò il suo ritiro e riprese le iniziative a favore degli Indios. E mentre egli si stabiliva con i confratelli, Pedro Angulo e Rodrigo Ladrada a Santiago di Guatemala, i domenicani giunti in Perù deploravano i saccheggi e le crudeltà di Francisco Pizarro a Cuzco. Fra Bernardino de Minaya, che accompagnò Pizarro proprio al momento dell’entrata in Perù, mentre si recava all’incontro col re Atahualpa esortò il conquistatore a precisare che erano lì solo per annunciargli il vero Dio, senza alcuna intenzione di espropriarne le terre. Al che Pizarro mi rispose di essere venuto in Messico per prendere il loro oro, e che non avrebbe fatto assolutamente ciò che gli avevo chiesto [4]. Nel 1537 il Minaya partiva per Roma, ottenendo dal papa la bolla Sublimis Deus, in cui si affermava che gli indiani erano dotati di ragione e dignità, e che pertanto non dovevano essere fatti schiavi, ma portati al cristianesimo con la predicazione e con l'esempio. Era la vittoria morale di Las Casas che subito fece diffondere la bolla papale.
Lo stesso anno della bolla Las Casas stringeva un patto col governatore del Guatemala. Per almeno cinque anni il governatore non avrebbe dovuto permettere agli spagnoli di entrare in uno dei territori più temuti, detto appunto «Tierra de Guerra». Il territorio veniva affidato ai domenicani che l'avrebbero evangelizzato con la sola predicazione della parola di Dio. Las Casas, Pedro Angulo e Rodrigo Ladrada cominciarono ad inviare sui mercati degli indiani dei doni e prodotti a mezzo di alcuni indiani convertiti.
Un’analoga iniziativa prese a proposito di un territorio del Venezuela. Qui, per impedire una colonizzazione violenta offrì una somma di denaro al re. Quando qualcuno gli espresse le sue perplessità per quell’iniziativa, spiegò:
Signore, se vedeste maltrattare Nostro Signore Gesù Cristo, mettendogli le mani addosso, tormentandolo e ricoprendolo di ingiurie, non chiedereste con suppliche pressanti e con tutte le vostre forze che ve lo dessero, per adorarlo e servirlo e offrirgli doni, e fare per lui tutto ciò che come vero cristiano dovreste fare ?[Quello rispose: Sì certo] E se non volessero darvelo gratuitamente, bensì vendervelo, non lo comprereste ? [Senza alcun dubbio, disse lui, lo comprerei di certo. Quindi il chierico aggiunse:] Ebbene , Signore, così ho fatto io, perché lascio nelle Indie Gesù Cristo, il nostro Dio che viene frustato, tormentato, schiaffeggiato e crocifisso non una ma migliaia di volte, da parte degli spagnoli che distruggono e rovinano totalmente quelle popolazioni, e sottraggono loro lo spazio della conversione e della penitenza, togliendogli la vita prima del tempo, cosicché muoiono senza fede e senza sacramenti [5].
Quando il Las Casas nel 1539 partì per la Spagna, per sollecitare l’abolizione della schiavitù, già quattro cacichi si erano convertiti. In Spagna esortò altri confratelli a seguirlo, il più esperto dei quali era fra Luis Cancer de Barbastro. Quando questi raggiunse i confratelli nella Tierra de Guerra impresse alla predicazione un'intonazione tutta speciale. Mise in musica il rosario con i principali misteri della fede, e con i canti che tanto piacquero agli indiani moltiplicò le conversioni. Persino Zumarraga, l'arcivescovo francescano di Messico e grande amico di Las Casas, ebbe a dire: Gli Indiani si convertono più con la musica che con la predicazione. Quella terra «domenicana» prese il nome di Vera Paz.
Con la stessa energia che gli aveva comunicato il Montesinos nella sua famosa predica, il Las Casas esortava i sacerdoti a non dare l'assoluzione agli spagnoli che avevano «encomiendas» e che non trattavano gli indios secondo i nuovi editti regi. Secondo un metodo ben collaudato, fu accusato allora di eresia, e nel 1547 dovette tornare nuovamente in Spagna per difendersi dall’accusa di tradimento a favore degli inglesi (che sfruttavano i suoi scritti per evidenziare la crudeltà degli spagnoli), e di schierarsi con gli eretici. Inoltre, egli aveva contestato gli editti regi che danneggiavano gli indios, affermando la loro illegittimità, in quanto la potestà regia deve corrispondere a quella pontificia, la quale si ispira al Vangelo [6].
In questi anni il Las Casas cominciò a pensare a dare una base teorica al suo modo di affrontare i problemi. Anche perché i confratelli domenicani avevano già preso posizione con argomenti teologici su questi temi. Se egli partiva dal punto di vista degli indios, i confratelli si muovevano pur sempre in modo da non ledere i diritti della corona di Spagna alla conquista. Così si era comportato Matias de Paz (+ 1519), domenicano attivo negli incontri che portarono alle leggi di Burgos della fine del 1512 e fautore del Requerimiento, cioè la legittimità della guerra contro gli Indios nel caso che, dopo l’avvertimento che si intendeva evangelizzarli, rifiutavano di accogliere i predicatori [7]. Persino Francisco de Vitoria, pur convinto difensore della dignità degli indios, secondo Las Casas si mostrava eccessivamente prudente. E’ vero che rigettava diversi titoli per fare la guerra, ma è anche vero, che per rispetto alla corona di Spagna, ne ammetteva altri. L’errore del Vitoria, a suo avviso, era nel considerare gli abusi e i massacri come qualcosa del passato, mentre in realtà erano sempre in corso [8].
In altri termini, i domenicani lo sostenevano, ma con qualche prudenza nel linguaggio. Un appoggio incondizionato lo ebbe però nel momento critico in cui dovette sostenere le dispute contro l'umanista e cronista reale Ginés de Sepùlveda, che affermava la schiavitù naturale dei conquistati. Nel 1550 l'imperatore fece convocare a Valladolid i maggiori contendenti sulla spinosa questione, intorno alla quale s'era pronunciato un decennio prima anche il defunto Francisco de Vitoria. In difesa delle Nuove leggi e della posizione umanitaria del Vitoria e del Las Casas intervennero i due maggiori teologi domenicani del tempo, Melchior Cano e Domingo de Soto, e le «Nuove leggi» restarono in vigore[9].
Il Sepulveda, da buon intellettuale umanista, faceva ricorso ad argomentazioni sia filosofiche che emotive. Fra queste ultime, per mettere a tacere il Las Casas, durante il dibattito aveva ricordato che proprio per colpa del suo pacifismo assoluto sostenuto dal Las Casas (che prevedeva un’evangelizzazione senza il concorso dei soldati), era morto in Florida il suo confratello domenicano fra Luis Cancer. L’obiezione tendeva ad incutere nel contendente un senso di colpa. Ma, pur colto su qualcosa che ancora gli bruciava dentro (essendo il Cancer non soltanto un confratello, ma un amico personale), il Las Casas rispose:
Se anche essi uccidessero tutti i frati di S. Domenico, e S. Paolo con loro, contro gli indios non si acquisterebbe un punto di diritto in più di quello che si aveva prima, e già non se ne aveva alcuno [10].
Nel pieno delle controversie il Las Casas aveva trovato il tempo di scrivere la Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie, pubblicata a Siviglia nel 1552. L'imperatore per dargli maggiore autorevolezza lo fece nominare vescovo di Chiapas in Guatemala. Al ritorno in America prese un provvedimento che gli moltiplicò il già grande numero di nemici e di accuse.
Intanto però l'idea pacifista del Las Casas aveva incontrato l'appoggio incondizionato dell'Ordine domenicano, nonostante che, come aveva denunciato il Sepùlveda, molti suoi figli dovettero pagare col sangue i metodi pacifici, come capita di solito a chi si pone in mezzo per dividere i contendenti. Già in precedenza, nel 1516 e nel 1520 dei frati erano stati uccisi in Venezuela e nell'Isola Trinidad: nel 1547 in Florida veniva ucciso il già menzionato fra Luis Cancer con altri frati, tradito dall'avidità del traduttore.
Il Las Casas continuò a combattere con la penna e la parola fino al 1566, anno in cui morì. Il suo nome resta per sempre legato all'appassionata difesa degli Indios, ma non va dimenticato l'altro grande suo merito, l'aver scritto l'opera fondamentale sulla scoperta dell'America. Egli è infatti la fonte principale e più dettagliata dell'impresa di Colombo (del quale riconosce la grandezza, ma che biasima per il comportamento verso gli indios).
Per quest’opera, la Historia de las Indias, aveva cominciato a raccogliere la documentazione sin dal 1547. La stesura vera e propria cominciò nel 1553, e la portò a termine soltanto nel 1561. Cronologicamente si limita all’arco di tempo 1492-1520, ed ha come filo conduttore la bontà naturale degli indiani e la malvagità dei conquistatori. Il grande pregio del suo lavoro proviene dal fatto che egli conobbe personalmente Colombo e il figlio di lui (autore anch'egli di una storia della scoperta dell'America, ma più breve), nonché altri navigatori che ne stimolarono gli interessi per le osservazioni geografiche. La preziosità di questo scritto deriva anche dal fatto che contiene molti documenti di cui si è perduta traccia. Ma, pur essendo comunemente ritenuta la fonte più autorevole per la storia colombiana, la Historia de las Indias manca spesso di acume critico, gli excursus sono talvolta prolissi, e soprattutto non è scevra da esagerazioni, anche numeriche (dovute per lo più al suo grande amore per gli Indios).
L'opera del grande domenicano merita di stare in qualsiasi biblioteca storica che si rispetti. Tutta la vicenda la segnalerei comunque come una delle più belle pagine della storia dell'Ordine domenicano. Al momento della scoperta dell'America l'Ordine raggiunse un'eccezionale armonia di intenti. Per un momento furono sopite le spinte ereticali e quelle inquisitoriali (a parte il contrasto fra Melchior Cano e Bartolomeo Carranza), come pure le istanze individualistiche (caratteristiche dell'Ordine), e frati impegnati in attività diverse si ritrovarono in una superiore collaborazione scientifica ed evangelica.
[1] Sul Las Casas la bibliografia è sconfinata perché tocca campi diversi che vanno dai diritti umani alle origini storiche dell’America. Anche in italiano sono usciti numerosi studi e varie sue opere sono state pubblicate, come ad esempio La leggenda nera. Storia proibita degli spagnoli nel Nuovo Mondo, a cura di Alberto Pincherle, Feltrinelli Milano 1959. Molte opere sono uscite in occasione del 5° centenario della scoperta dell’America (1992), come ad esempio Reginaldo Iannarone, La scoperta dell’America e la prima difesa degli Indios, Edizioni Studio Domenicano. Paulino Castañeda Delgado ha realizzato un'edizione critica di tutte le opere di Bartolomeo Las Casas, pubblicata dalla Alianza Editorial Ecco il contenuto: l. Biografia y Presentación editorial; 2. De unico vocationis modo; 3-4-5. Historia de las Indias (rispettivamente, libri I-II-III); 6-7-8. Apologética Historia (rispettivamente, libri I-II-III); 9. Apología; 10. Tratados de 1552 ; 1l. (1) De Thesauris, (2) Doce dudas ; 12. De regia potestate; Quaestio theologalis; 13.Memoriales. Cartas. Varios; 14. Diario del primer y tercer viaje de Cristobal Colón. A mio avviso, però, lo studio che supera tutti è quello di Gustavo Gutierrez : Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, BTC, 80, Brescia 1995. Trattasi infatti di un volume che, come nessun altro, unisce l’approfondimento accademico, l’apparato tecnico ad una profonda empatia col domenicano soggetto del libro. L’autore, padre della teologia della Liberazione, coglie come nessun altro i moventi dell’indignazione evangelica del Las Casas nell’identificazione, quasi ontologica, del Cristo flagellato col povero e il reietto della società.
[2] Historia de las Indias, I, c. 58; I, 233 a (cito da Gutierrez, Alla ricerca, p. 115).
[3] Historia de las Indias, lib. III, cap. 102. Anche il Gutierrez, convinto difensore del Las Casas, afferma che questo è « il limite dell’opera » del grande domenicano (Alla ricerca, cit., p. 133)..
[4] Memorial de Minaya, in V. Beltràn de Heredia, Nuevos datos acerca del P. Bernardino Minaya y del licenciado Calvo de Padilla, compañeros de Las Casas, in Miscelànea Beltràn de Heredia, I, Salamanca 1971, I, p. 491. Da notare che il testo dice “Messico”. Non saprei se è una svista per Perù, oppure Pizarro abbia detto proprio “Messico”.
[5] Cfr. Historia de las Indias, III, c. 138. Cito da Gutierrez, Alla ricerca, p. 87. Il brano è di una grande forza per l’indio e il povero come incarnazione del Gesù Cristo flagellato. E sarà fondamentale per il ripensamento in termini moderni della teologia del Gutierrez, autore dell’opera più poderosa sul pensiero del Las Casas. A differenza di altri studiosi, infatti, il Gutierrez non solo espone magistralmente (secondo i canoni dell’opera scientifica) il pensiero di Las Casas, ma lo fa proprio nel vero senso della parola, applicando ai diseredati e alle non-persone dell’America latina il discorso del Las Casas sugli Indios.
[6] Il Las Casas si spinse allora a mettere in questione lo stesso re di Spagna. Scrisse infatti al Sacro Regio Consiglio per le Indie: La execuçion de la justicia, que dizen que estoruo, es pedir justicia en aquel pueblo y en esta real Audiencia de una violencia e sacrilegio, que nos fué fecha en nuestro monesterio en gran desonor de Dios y afrenta de su Yglesia y perjuicio de la rectitud del mamparo ymperial, con que a las religiones Su Magestad es obligado, sacando a fuerza de armas un hombre retraydo, que se venía de los montes, quebrantándonos nuestras inmunidades e preuilegios eclesiásticos, que no hazen más quenta de yglesias y casas de Dios, que si fuesem mezquitas ó sinogas de Judíos. Y nunca desto alcançé justicia. Las opiniones, que siembro, aunque soy christiano viejo y confesso la fé cathólica, y esta es la por que çufro estas tribulaciones y no tengo de cansar, hasta por ella derramar la sangre, no son otras, sinó afirmar que despues de las grandes offensas, que contra Dios en estas no cognoscidas tierras se hazen y en destruycion de las animas y de los cuerpos destas desdichadas gentes, no es nadie más offendido que el Emperador nuestro Señor, matándole sus vassallos y robándoles sus thesoros, y poniéndole su consciencia en yncomparable peligro de ta muy estrecha quenta, que a de dar a su Dios. Cfr. B.M. BIERMANN, Zwei Briefe von Fray Bartolomé de Las Casas, in AFP, IV, 1934, p. 201-202.
[7] Gutierrez, Alla ricerca, cit., pp. 146-148.
[8] Ivi, pp. 448-449. C’è da notare qui la diversa tesi di due dei maggiori storici domenicani, V. Beltran de Heredia (Un precursor del Maestro Vitoria, El P. Matias de Paz O.P. y su tratado De dominio Regum Hispaniae super Indos) e L. Alonso Getino (El Maestro Francisco de Vitoria, Madrid 1930). Mentre il primo vede una forte analogia nel pensiero dei due. Il secondo ritiene che il pensiero del primo è troppo “imperialistico” per poter essere accostato a quello umano del Vitoria. Ivi, p. 147, n. 26. Per uno studio specifico sulle differenze fra Vitoria e Las Casas, vedi Vidal Abril Castello, Vitoria-Las Casas, confrontaciòn y proyecciòn: impacto en Las Casas de su enfrentamiento con Vitoria en 1550-1552, in AA.VV., I diritti dell’uomo e la pace nel pensiero di Francisco de Vitoria e Bartolomé de Las Casas, Studia Universitatis S. Thomae in Urbe, 29, Massimo, Milano 1988, pp. 155-172.
[9] Nel 1993, in occasione di uno sceneggiato televisivo sulla Controversia di Valladolid in vari giornali francesi diversi studiosi espressero dubbi sulla storicità o meno dell’incontro. Partendo da questo fatto, si occupò del caso anche la stampa domenicana. Vedi ad esempio Charles Gillen, Une Controverse controversée. La dispute de Valladolid, Mémoire Dominicaine, n. 5 (1994), pp. 275-282. L’autore fa notare che, pur in assenza di fonti cronachistiche, non mancano i riferimenti negli scritti sia del Sepùlveda che del Las Casas alla disputa, e che soprattutto che Domingo de Soto ci ha lasciato un admirable résumé.. Dato che non furono presi provvedimenti (a parte la proibizione della stampa del Democrates di Sepulveda in Spagna) ognuno dei due contendenti riportò diversamente l’esito della disputa. Nelle citazioni riportate dall’autore colpisce l’asprezza del linguaggio dell’uno come dell’altro.
La controversia si svolse in due tappe. La prima all’incirca dalla metà d’agosto a metà settembre del 1550, la seconda dalla metà d’aprile alla metà di maggio del 1551. Tema principale era il tipo di evangelizzazione e lo status di sudditi degli Indios sottomessi (i due contendenti però spostano il problema sulla liceità delle guerre di conquista). Cominciò il Sepulveda, che in circa tre ore espose la sua tesi. Nella seconda sessione il Las Casas cominciò la lettura della sua Apologia. Dopo alcuni giorni la giuria era stanca, per cui chiese a Domingo de Soto di riassumere le due tesi. Egli lo fece, sottolineando anche la piega che il dibattito aveva preso. Nel ripartire il Sepulveda riuscì a passare ai presenti una copia della sua tesi in 12 punti (corrispondenti a 12 obbiezioni al Las Casas). Col nuovo anno e per il nuovo incontro il domenicano aveva già pronte le risposte alle dodici obiezioni. Nel mese di ottobre del 1551, raccontando la disputa al suo amico l’inquisitore Martin de Oliva, il Sepulveda faceva notare come i domenicani si dilungavano in sofistiche argomentazioni, mentre in realtà i giureconsulti erano d’accordo con lui sull’obbligatorietà di intervenire contro l’idolatria e in difesa della legge naturale. Secondo Las Casas invece, le cose andarono diversamente, e i giudici si sarebbero espressi per l’iniquità e l’illiceità delle conquiste. Cfr. Gillen, p. 281.
La controversia si svolse in due tappe. La prima all’incirca dalla metà d’agosto a metà settembre del 1550, la seconda dalla metà d’aprile alla metà di maggio del 1551. Tema principale era il tipo di evangelizzazione e lo status di sudditi degli Indios sottomessi (i due contendenti però spostano il problema sulla liceità delle guerre di conquista). Cominciò il Sepulveda, che in circa tre ore espose la sua tesi. Nella seconda sessione il Las Casas cominciò la lettura della sua Apologia. Dopo alcuni giorni la giuria era stanca, per cui chiese a Domingo de Soto di riassumere le due tesi. Egli lo fece, sottolineando anche la piega che il dibattito aveva preso. Nel ripartire il Sepulveda riuscì a passare ai presenti una copia della sua tesi in 12 punti (corrispondenti a 12 obbiezioni al Las Casas). Col nuovo anno e per il nuovo incontro il domenicano aveva già pronte le risposte alle dodici obiezioni. Nel mese di ottobre del 1551, raccontando la disputa al suo amico l’inquisitore Martin de Oliva, il Sepulveda faceva notare come i domenicani si dilungavano in sofistiche argomentazioni, mentre in realtà i giureconsulti erano d’accordo con lui sull’obbligatorietà di intervenire contro l’idolatria e in difesa della legge naturale. Secondo Las Casas invece, le cose andarono diversamente, e i giudici si sarebbero espressi per l’iniquità e l’illiceità delle conquiste. Cfr. Gillen, p. 281.
[10] Historia de las Indias, V, 346b (Gutierrez, Alla ricerca, cit., p. 119).

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