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henri dominique lacordaire
di P. Gerardo Cioffari OP
Il domenicano più rappresentativo della prima metà del XIX secolo fu certamente Henri-Dominique Lacordaire[1]. Egli trova qui posto sia come protagonista della rinascita e restaurazione dell’Ordine domenicano dopo le soppressioni seguite alla rivoluzione francese che come pensatore liberale. Era cioè proprio il tipo dell'ecclesiastico di cui avrebbe avuto bisogno la Chiesa nel XVIII secolo per evitare di essere considerata alla stregua delle monarchie. Egli è, infatti, uno di quei pochi grandi domenicani che hanno saputo coniugare un grande amore per l’Ordine e per la rinascita delle sue istituzioni col tormento di uno spirito libero. Il che fu anche il principale motivo della poca simpatia che intercorse fra lui e l’altro grande restauratore, il P. Jandel, di carattere completamente diverso. Mentre in Lacordaire la fedeltà alla Chiesa romana non soffocava l’amore per la verità, in Jandel veniva prima il prestigio della Santa Sede e poi la verità storica. Con Lacordaire e Jandel si rinnova dunque l’antico dissidio che oltre un secolo prima aveva messo a fronte lo storico Alexandre Noël e il maestro generale Antonino Cloche, con quest’ultimo che consigliava al primo di inserire nella sua Storia ecclesiastica solo ciò che andava ad onore della Santa Sede.
Nato a Racey-sur-Ourse, in Côte d’Or nel 1802, Jean Baptiste Henri Lacordaire ancora bambino si trasferì con la madre vedova a Digione, dove a dieci anni entrò nel locale liceo. Aveva perduto già la fede quando nel 1819 entrò alla scuola di diritto di Digione. Si laureò in nel 1822, riavvicinandosi al cristianesimo sotto l’influsso del Génie du Christianisme di Chateaubriand. Introverso, ma molto attivo nelle associazioni studentesche, Lacordaire crebbe tra un certo pessimismo verso la società ed uno scetticismo intellettuale. A Parigi avvenne la svolta e il 12 maggio 1824 entrava nel seminario Issy e quindi nel gennaio del 1826 di S. Sulpizio. Il 22 settembre 1827 a Parigi veniva ordinato sacerdote.
Fu l’abate Gerbet a presentarlo al Lamennais (Hugues-Félicité Robert de, 1782-1854), di indirizzo fideistico e tradizionalista, autore nel 1808 delle Réflections sur l’état de l’Eglise en France pendant le dix-huitième siècle et sur sa situation actuelle. Un’apologia della Chiesa era stata invece un’altra sua opera, l’Essai sur l’indifférence en matière de religion (1817). Anche se fra i due non c’era molta simpatia si formò un cenacolo di cui faceva parte il giovane conte Charles de Montalembert. Così, Lacordaire divenne collaboratore del giornale L’Avenir (1830-1831), che aveva un programma di modernizzazione e liberalizzazione della Chiesa. Lacordaire mantenne però il suo spirito di indipendenza sia nei confronti delle leggi dello stato che nei confronti di Lamennais e di Gerbet. A Parigi aprì una scuola libera che gli procurò non pochi fastidi. Nel dicembre del 1831 con i suoi due amici, Lamennais e Montalembert, dovette recarsi a Roma per giustificarsi di certe accuse a propositò delle idee sostenute su l’Avenir. Resosi poi conto che le idee di Lamennais andavano verso la rottura con la Chiesa, nel dicembre 1832 se ne distaccò, ponendo anche fine alla collaborazione.
Lacordaire aveva un pensiero simile al Lamennais, ma differiva nella minore intransigenza ed in una maggiore pazienza nei tempi di realizzazione di una riforma ecclesiale in senso evangelico. “La flessibilità”, egli diceva, “è altrettanto necessaria dell’energia al governo di un partito. Mi sono convinto che ciò vale anche per il convento” (lettera a Paul Brac de la Perrière). Equilibrio dimostrò anche nell’opinione sui gesuiti: non inimicarseli, perché potenti, ma neppure farseli amici, perché corpo distinto dalla Chiesa per l'eccessiva compattezza disciplinare.
Intanto dal 1830 il Lacordaire aveva conosciuto madame Swetchine, convertitasi al cattolicesimo sotto l’influsso di Joseph de Maistre. Fu lei a dissuaderlo nel 1834 dal seguire le orme del Lamennais nella sua ribellione. Importante fu anche l’incontro con Ozanam. Restava però questo un periodo di incertezze. Scriveva infatti il 15 agosto 1834 all’amico Foisset: Dopo dieci anni che tutta la mia vita è improvvisamente cambiata per la mia consacrazione allo stato ecclesiastico, non ho avuto un solo momento di stabilità e riposo interiore, se non nella coscienza incrollabile della mia vocazione. A parte questa, il mio spirito è pieno di turbamenti, di cambiamenti, d’errori, di dubbi. Sono diventato da solo alunno del cristianesimo, senza un consigliere, senza una guida, non avendo neppure un confessore che avesse una qualche influenza sulla mia anima.
Tuttavia il distacco dal Lamennais fu netto, e mentre questi pubblicava le Paroles d’un croyant, egli teneva una serie di conferenze al collegio di S. Stanislao a Parigi. Quindi scrisse anche Considérations sur le système philosophique de M. de Lamennais (1834). Ivi Lacordaire faceva notare l’inconsistenza di un sistema che, partendo dall’incapacità della filosofia di pervenire a verità universalmente accolte, collegava la verità religiosa al senso comune del popolo, che avrebbe così sostituito non solo una filosofia debole ma anche il magistero ecclesiastico.Vedendo che il giovane Montalembert simpatizzava per il Lamennais, non mancò dal rimproverarlo, ricordandogli che era meglio seguire lo Spirito e non un uomo, sia pure dotato moralmente ed intellettualmente. L’amico però da parte sua gli faceva notare che sarebbe stato meglio seguire modalità più comprensive invece della condanna (più tardi Lacordaire darà ragione all’amico). E quando Lamennais morì, nonostante la condanna da parte della Chiesa, egli non dimenticò i suoi grandi meriti e la sua opera per il bene dei poveri.
Quindi fra il 1835 e il 1836 saliva il pulpito di Notre Dame, svolgendo nelle sue conferenze il tema: De la doctrine de l’Eglise et des sources de cette doctrine. Curiosamente, si trovava in una casa dei gesuiti a Roma nel 1837 quando gli venne l’idea di scrivere sul ristabilimento dell’Ordine dei frati predicatori in Francia. Un ritiro a Solesmes, dov’era abate dom Gueranger, lo convinse a farsi domenicano. Tornato a Roma con questa idea, il 3 marzo del 1839 vedeva la luce la sua Mémoire pour l’établissement en France de l’Ordre des Frères Prêcheurs (Paris 1839). Qui egli sottolineava il fatto che ristabilire l’Ordine domenicano non significava un ritorno all’Inquisizione. Sosteneva quindi il diritto dell’Ordine all’esistenza, nonché a diffondere la dottrina, cosa che non è riservata ai vescovi soltanto (come vorrebbe il Gallicanesimo). Egli era convinto infatti della grande attualità dell’Ordine (niente di più nuovo, niente di più adatto ai nostri tempi).
Il 3 aprile di quell’anno nella chiesa della Minerva vestiva l’abito domenicano prendendo il nome di Henri-Dominique. Fece il noviziato alla Quercia, presso Viterbo, al termine del quale fece la professione religiosa e nel dicembre 1840 pubblicava la Vie de Saint Dominique par le R. P. Henri Dominique Lacordaire, des frères prêcheurs, realizzata con l’intento tra l’altro di difendere il fondatore dall’accusa di essere stato inquisitore, ma riservando un giudizio severo su questa istituzione. Il che fu anche il motivo principale a che Dom Guéranger lo criticò aspramente. E, come si è detto, anche con Jandel i rapporti non furono dei migliori. Cosa abbastanza strana, considerando l’importanza che Lacordaire attribuiva allo spirito di penitenza e di osservanza, coincidenti quindi con l’ideale monastico di Jandel, solo che per quest'ultimo erano valori assoluti, per cui era contrario all'antico istituto domenicano della “dispensa”. Se invece il maestro generale giunse ad accusarlo di mancanza di generosità, è chiaro che quell’ideale nascondeva una ben diversa concezione della vita (difesa acritica della Santa Sede da parte dello Jandel, difesa liberale da parte di Lacordaire, e quindi non aliena da giuste critiche).
L’origine del dissidio era nella diversa concezione della vita. Non vi sono due amori, amico mio, scriveva Lacordaire, l’amore del cielo e della terra sono lo stesso amore, a parte il fatto che quello della terra è finito. Nel Lacordaire c’era una visione positiva della vita ed un apprezzamento delle conquiste della civiltà, oltre alla fiducia nelle potenzialità del cristianesimo nel redimere questo mondo terreno. Jandel era tutto concentrato nella fedeltà alla Santa Sede e nell’osservanza alle regole. L’impegno sociale e politico del frate era del tutto fuori del suo orizzonte.
Nonostante l’impegno di studiare S. Tommaso, le cose andarono diversamente, e la predicazione lo coinvolse completamente. Aussi j’aimerais mieux être brulé vif que de faire partie d’une faculté de théologie. Ed in realtà le sue conferenze sanno andare dritto al cuore dell’ascoltatore, gli sanno ricordare il valore della sofferenza e la dignità della persona. Non è la teologia scolastica tradizionale ad essere messa in discussione, ma un diverso modo di attingere alle fonti, a quei valori religiosi che il senso comune e i grandi pensatori cristiani hanno proposto. Tra queste fonti è opportuno ricordare Rousseau (per il suo impegno sociale e l’affermazione dell’utilità della religione), Chateaubriand (il suo Genie du Christianisme era particolarmente adatto a rintuzzare le conseguenze della rivoluzione), Agostino e lo stesso Tommaso. L’ispirazione di fondo è la fede nell’essenza soprannaturale del cattolicesimo, la quale più che dimostrata può essere mostrata attraverso la credenza comune dell’umanità. Quanto alla vita dell’uomo, spesso improntata a sacrifici, essa può trovare luce nel ricordare le sofferenze del Cristo. In tal modo la penitenza acquista nuove connotazioni. E a tal proposito non è superfluo ricordare la sua propensione alla penitenza e alla mortificazione prima di intraprendere una qualche attività impegnativa
E’ stato fatto notare che in Lacordaire manca la devozione alla Madonna e altre devozioni tradizionali[2]. La cosa è forse ben spiegabile considerando gli ambienti dei liberi pensatori nonché il pubblico a cui egli si rivolgeva. In un momento in cui il cristianesimo stesso veniva messo in discussione dalla società, gli dovette apparire del tutto fuori luogo puntare su un aspetto che difficilmente sarebbe stato compreso e che avrebbe avuto solo il gusto del bigottismo.
Nel 1841 pubblicava i Discours sur la vocation de la nation française, poi con interruzioni riprese (1841-1851) le Conférences de Notre Dame. Sull’onda del successo si riaprivano i conventi[3] di Nancy (1843), Flavigny (1848), Parigi (1849), senza contare il noviziato di Chalais (Grenoble) nel 1844, e finalmente Tolosa nel 1853. Nel 1850 veniva ufficialmente ricostituita la provincia di Francia, della quale fu eletto provinciale lo stesso Lacordaire. Poco dopo si ricostituivano anche la provincia di Occitania (Lione, 1862) e di Tolosa (1865). Altro merito del Lacordaire è di aver impostato il nuovo Terz’ordine domenicano col compito dell’insegnamento, come ad esempio il collegio di Oullins presso Lione (1851) e quello di Sorèze nel 1854. Tutta questa attività strettamente domenicana non lo allontanò del tutto dalla vita sociale. Nel 1848, ad esempio, si era presentato nella battaglia politica, fondando anche un nuovo giornale, L’Ere nouvelle (che mantenne solo per qualche mese). Poi la sua attività politico-sociale si ridusse, e dal 1854, anno in cui ebbe termine il suo provincialato, si dedicò particolarmente alla rinascita della scuola religiosa di Sorèze.
Nel 1857 pubblicava le lettres à un jeune homme sur la vie chrétienne, in cui tutta la sua grande ricerca della libertà trovava il suo compimento nel Cristo. Nel 1860 era eletto tra i membri dell’Accademia Francese e ricevuto da M. Guizot. E fu in quella occasione che pronunciò la celebre frase: Io spero di morire come un religioso penitente e come un liberale impenitente. Da questo momento però la malattia non lo lasciò più. Si dimise da provinciale e si limitò a dettare le sue memorie relative alla restaurazione dell’Ordine in Francia, pagine che apparvero poi col titolo Testamento del P. Lacordaire. Morì a Sorèze il 21 novembre 1861.
4. Il Memoriale di Lacordaire e l’identità domenicana
L’opera più caratteristica del Lacordaire è il Memoriale, perché da questo scritto si evince chiaramente quello che secondo il grande predicatore francese era l’identità del frate domenicano. Si tratta di uno scritto davvero incisivo, che prende una posizione netta a proposito della lotta secolare condotta dagli osservanti contro i conventuali. Ovviamente, il Lacordaire non parla di questo, perché il suo pubblico non è il mondo dei domenicani, ma la società che era appena uscita dalla rivoluzione francese. Che però fosse uno scritto spartiacque lo si evince chiaramente dal giudizio nettamente contrastante di due domenicani celebri, il P. Cormier ed il P. Fanfani.
In una lettera del 1872 al P. Ligiez, il P. Cormier aveva definito il Memoriale peggiore dell’Exposé de l’Etat, scritto col quale il Laberthonie nel 1767 aveva prospettato un rapporto di sudditanza dei frati nei confronti dello stato. La Mémoire del P. Lacordaire farà, credo, più male di quella del P. Laberthonie. Ma tutto questo passerà. Quando una buona rivoluzione ci avrà scossi e umiliati, si sentirà ancor più il bisogno di raccoglimento, di preghiera, di unione dei cuori. Si tornerà allora all’amore delle Costituzioni… (Toulouse 18 mai 1872). Per il P. Fanfani, invece, il Memoriale era uno splendido lavoro apologetico sugli Ordini religiosi in genere e su quello domenicano in specie[4].
Il Lacordaire apre constatando le contraddizioni della nuova società uscita dalla Rivoluzione. Si concedono tutte le libertà, ma non quella di vivere con altri amici un ideale di povertà in comunità. E visto che molti dicono che riunirsi a vita religiosa è proibito dalle leggi, il Lacordaire preferisce rivolgersi direttamente alla “pubblica opinione”. E’ incomprensibile, egli dice, che un paese, nel quale da cinquant’anni si proclama la libertà, vale a dire il diritto di fare tutto ciò che non può nuocere agli altri, persèguiti invece ad oltranza un genere di vita che piace a molti e che non nuoce ad alcuno![5]
Il motivo è forse nel ricordo del passato, quando tanti frati e suore non desideravano altro che una molle esistenza. Oggi le cose sono cambiate e non dovrebbero esserci ostacoli legislativi alla ricostituzione delle comunità. Infatti ogni comunità è costituita da tre elementi, quello materiale, quello spirituale e quello d’azione. Con il primo le singole persone si aggregano scandendo i ritmi della vita comunitaria. Con il secondo si ha l’atto di libertà della fede che si concretizza nel voto perpetuo. Anche l’elemento d’azione tiene conto dell’aspetto comunitario: Dal momento che il monaco varca le soglie del monastero per agire nel mondo, trova alla porta la legge, i diritti, i doveri di tutti. Questo tipo di vita può essere oppresso, ed eliminato, ma non a lungo, perché rinascerà: Non è stato né l’oro né l’argento che ci ha richiamati a vita, ma una germinazione spirituale posta dal Creatore nel mondo, indistruttibile al pari che la germinazione della natura. Se viviamo, non viviamo perché protetti dal favore del governo o della pubblica opinione, ma perché una forza segreta conserva tutto ciò ch’è verità[6].
In particolare, l’Ordine domenicano sorse nel momento in cui le eresie minacciavano la Chiesa e la società. La crociata promossa dal papa si trasformò in una guerra con tante crudeltà ed ingiustizie da non potersi giustificare giammai. In questo quadro Domenico usò durante e dopo la guerra solo le armi della preghiera, della pazienza e dell’istruzione. L’Ordine creato da S. Domenico non è adunque un ordine monastico, ma un’associazione di fratelli, i quali uniscono la forza della vita comune alla libertà dell’azione esteriore, l’apostolato alla personale santificazione[7].
Nell’Ordine di S. Domenico, come nella Repubblica Romana, la salute del prossimo è la legge suprema. Ed è appunto per questo che, salvo i tre voti di povertà, castità ed obbedienza, legami indispensabili in ogni associazione religiosa, tutte le altre regole non obbligano sotto pena di peccato, ed è sempre in facoltà del superiore poterle dispensare, affinché il giogo della vita comune non sia mai d’impedimento alla libertà del bene. Per quanto riguarda poi la struttura generale c’è una simbiosi fra l’elemento dell’unità e quello della molteplicità (Lacordaire non usa la parola democrazia, ma è questo che sembra intendere), onde c’è un maestro generale che governa, ma anche un capitolo che si raduna ogni tre anni, fa da controllo al Maestro generale, come il Capitolo Provinciale che si raccoglie ogni [8]due anni, fa da controllo al Priore Provinciale[9].
Introducendo il senso del voto di povertà, il Lacordaire fa un’affermazione che dovette fare sobbalzare il Cormier: Domenico creava apostoli e non contemplativi. Ed infatti nel tratteggiare i primi secoli dell’Ordine il Lacordaire sottolinea la predicazione e lo slancio missionario, quindi delinea rapidamente alcune delle figure più celebri in campo apostolico e missionario (S. Giacinto, S. Pietro da Verona, Enrico Susone, Giovanni Taulero, S. Vincenzo, Savonarola, Bartolomeo Las Casas), altre nel campo della dottrina (Alberto, Tommaso), dell’arte (Beato Angelico, Bartolomeo della Porta), della gerarchia (papi e vescovi).
Finalmente si giunge al capitolo chiave, il sesto, sull’Inquisizione. Il Lacordaire entra direttamente nella questione più scottante e non teme di affermare che al riguardo la storia in questi ultimi tre secoli è stata una menzogna continua, manifesta, e per provarlo si rifà a due testi. Il primo è Relazione sul Tribunale dell’Inquisizione, col Progetto di un decreto riguardante i tribunali protettori della religione, presentata alle Cortes generali e straordinarie dalla Commissione (Cadice 1812). Il secondo è la Storia dell’Inquisizione edita ad Amsterdam nel 1692 dal calvinista Filippo di Limborch. Essendo la prima tesa ad abolire il tribunale dell’inquisizione e la seconda di un calvinista si può stare tranquilli che nessun pregiudizio contengono a favore dei Domenicani, eppure la prima scrive: I primi inquisitori e S. Domenico in modo speciale, non usarono mai contro l’eresia altre armi all’infuori della preghiera, della pazienza e dell’istruzione, come lo assicurano i Bollandisti, il P. Echard, ed il P. Touron[10]. In ogni caso nella Chiesa avevano sempre coesistito la dolcezza ed il rigore nei confronti degli eretici. La Chiesa scelse una via di mezzo e progressiva, nella quale S. Domenico non ebbe ruolo alcuno. E qui il Lacordaire non ha difficoltà a smontare le affermazioni degli avversari, da Luigi di Param, secondo il quale Domenico avrebbe manifestato ad un legato il pensiero di introdurre l’inquisizione, al Lymborch, che dubbioso della precedente affermazione, partendo dalla penitenza inflitta da Domenico a Ponzio Roger, aggiungeva: comunque sia , egli è certo che S. Domenico fu uomo crudele e sanguinario[11]. Al contrario il Lacordaire fa notare che quel tipo di penitenza era per quei tempi la più leggera fra le penitenze canoniche della Chiesa primitiva[12]. E rifacendosi ad un’opera di Joseph de Mestre, ricorda come i Templari avevano chiesto di essere giudicati dai tribunali dell’Inquisizione. Ed i papi stessi, col tempo rendendosi conto degli abusi di re e imperatori, cercarono più volte di intervenire per portare una nota di misericordia.
La conclusione del Memoriale mette in evidenza la grande determinazione del restauratore dell’Ordine in Francia. Egli scrive che avrebbe operato per la restaurazione dell’Ordine, e che se gli fosse stata impedita, si sarebbe piazzato a ridosso dei confini della Francia, in attesa di poter intervenire.
5. Il Testamento
Se il Memoriale era diretto agli uomini del suo tempo per liberare la storia dei domenicani dalle incrostazioni e alterazioni della cultura laicista uscita dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, il Testamento è indirizzato ai frati.
Trattasi di una biografia della sua vocazione. Ivi egli ricorda il suo temperamento, incline ad una certa solitudine: Tale isolamento rispondeva alla mia natura, ma anche allo stato della mia intelligenza in confronto degli avvenimenti e dei dibattiti contemporanei, giacché entrando in S. Sulpizio, io non avevo disertata nessuna delle opinioni che restano libere per ogni cristiano. Divenendo cattolico, ero rimasto liberale, né avevo saputo dissimulare tutto ciò che mi separava sotto questo rapporto dal clero e dai cristiani del tempo. (…) La fine della Restaurazione era imminente, la causa del cristianesimo, vincolata a quella dei Borboni, correva gli stessi pericoli, e un prete, il quale non militasse sotto la loro bandiera, rappresentava un enigma pei più moderati, una specie di traditore pei più ardenti[13].
Naturalmente su questo sfondo avvenne l’incontro con il Lamennais e, dopo il viaggio a Roma, la sofferta separazione. Come sofferti furono i corsi di lezioni prima nel collegio di S. Stanislao e poi presso Notre Dame. Mi ritirai, commentava, inseguito dall’accusa d’aver predicato dottrine improntate allo spirito di rivoluzione e d’anarchia: e questa doveva essere per lungo tempo l’arma dei miei avversari e neppure oggi si è spezzata nelle loro mani.[14] E, invece, ecco, del tutto imprevisto, l’invito dell’arcivescovo a salire il pulpito di Notre Dame.
Dopo due anni, sentendo di essere chiamato ad altro, lasciò Parigi per Roma Qui visse un certo travaglio spirituale, indeciso se entrare nella Compagnia di Gesù o nell’Ordine domenicano. Era più attratto dalla libertà spirituale dei domenicani, ma lo trattenevano le austerità materiali di quell’Ordine, quali l’astinenza perpetua dalla carne, il lungo digiuno dal 14 settembre a Pasqua, la salmodia dell’Ufficio divino, il levarsi di notte…(…) Studiando nondimeno gli statuti dell’Ordine, vidi che essi presentavano delle risorse contro se stessi o meglio che l’austerità generale v’era saggiamente temperata dalla facoltà lasciata ai superiori d’accordare dispense non solamente in casi di malattia ma per ragioni di debolezza e anche pel solo motivo della salute delle anime. Notai che unico limite imposto dai superiori nell’uso di tali dispense era che non s’allargassero sino ad abbracciare la comunità intera. Questa larghezza mi fece intendere che anche stavolta la lettera uccide e lo spirito vivifica[15].
Preso l’abito domenicano alla Minerva il 9 aprile 1839, dopo un anno di noviziato alla Quercia (Viterbo), il Lacordaire rientrò in Francia risalendo il pulpito di Notre Dame questa volta con l’abito domenicano. Tornato a Roma con diverse vocazioni francesi, qualcuno fece in modo che venissero disperse fra la Quercia e Bosco in Piemonte, mentre egli riprendeva la via della Francia. Era l’inizio della predicazione in vista della restaurazione dell’Ordine in Francia, cominciando da Bordeaux per passare a Nancy, ove fondò il primo convento. Riprese le conferenze a Notre Dame, senza dimenticare la sua missione. Ben presto aprì il secondo convento a Chalai, presso Grenoble. Durante la rivoluzione del 1848 fu addirittura eletto all’assemblea costituente, ma dopo pochi mesi preferì ritirarsi. La terza fondazione fu a Flavigny, la quarta a Parigi, la quinta a Tolosa.
Dopo aver parlato con entusiasmo della legge sulla libertà d’insegnamento, e dopo aver annunciato altri argomenti (divisioni interne della provincia, capitoli provinciali del 1854 e 1858, sua elezione all’Accademia di Francia e ritiro), bruscamente il Testamento si interrompe.
Pur chiamandolo Le Testament inachevé, l’autore dell’introduzione André Duval evita di porsi qualsiasi domanda su quell’incompiutezza. Per lui, come per altri, era incompiuto perché interrotto dalla morte. E’ possibile. Tuttavia, non è da escludere che il Lacordaire abbia voluto evitare di ribadire la distanza che lo separava idealmente dallo Jandel, che allora reggeva le sorti dell’Ordine. Le sue profonde convinzioni sulla dispensa e sul ruolo dei capitoli erano molto lontane dal tipo di riforma che stava propugnando il suo antico discepolo.
[1] H. D. Noble, DTC, VIII, 2394-2424.
[2] Bernard Bonvin e André Duval, Lacordaire Henri-Dominique, in Dictionnaire de Spiritualité, IX, 42-48.
[3] Cfr. André Duval, Le rapport du P. Lacordaire au chapitre de la Province de France (Septembre 1854), in AFP XXXI (1961), pp. 326-364.
[4] Cfr. San Domenico. Vita scritta dal P. Lacordaire, tradotta dal P. Fanfani, Marietti, Torino Roma 1935, p. 249.
[5] Ivi, p. 253.
[6] Ivi, p. 264.
[7] Ivi, p. 280.
[8] Ivi, p. 329.
[9] Ivi, p. 281. Il Fanfani intervenendo sull’affermazione che il maestro generale dura sei anni, ricorda che il maestro generale fino al 1804 era a vita. Dal 1804 con la bolla Inter graviores durava sei anni. Nel 1862 Pio IX concesse che durasse 12 anni.
[10] Ivi, p. 330.
[11] Ivi, p. 343.
[12] Ivi, p. 344.
[13] Cfr. Il Testamento di Lacordaire, a cura di Igino Giordani, 2da ed. Roma 1944, p. 51. L’edizione originale fu curata dal Montalembert: Le Testament du P. Lacordaire publié par le Comte De Mantalembert, Paris 1870. Questa è stata ripubblicata in Mémoire Dominicaine, Cerf, n. 4, Printemps 1994.
[14] Ivi, p. 82.
[15] Ivi, pp. 100-101.
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