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edward schillebeeckx
di P. Gerardo Cioffari OP
La triade dei grandi teologi domenicani europei, dopo Chenu e Congar, si completa col teologo olandese Edward Schillebeeckx. E quando si dice triade non ci si riferisce solo alla statura del teologo, ma anche al campo dei suoi interessi. Dopo la riflessione di Chenu sull’evoluzione storica della teologia cattolica e sul modo di intervenire nel sociale, e dopo l’allargamento della visuale al rapporto con la Chiesa ortodossa, ecco la riflessione spingersi verso il mondo culturale protestante. L’ispirazione è però identica. Approfondire la teologia non nel suo modo di essere in sé, ma nella modalità con la quale renderla accessibile e comprensibile agli uomini di oggi.
Edward Schillebeeckx[1] nacque ad Anversa (Olanda) il 12 novembre 1914. Dopo i primi studi a Cortenberg, passò al collegio dei Gesuiti di Turnhout per gli studi umanistici. Pur avendo un fratello maggiore gesuita, avvertendo la vocazione religiosa Edward preferì l’Ordine domenicano, quasi reagendo all’impostazione troppo classica, volontaristica e con uno spiccato senso dei princìpi che aveva trovato nel collegio dei Gesuiti. Nel settembre del 1934 entrava nel convento di Gand, sede del noviziato fiammingo della provincia domenicana del Belgio. Qui compì anche i tre anni di filosofia sotto la direzione di P. Domenico De Petter. Quindi passò a Lovanio per la teologia (1939-1943). Sacerdote nel 1941, si laureò con la tesi La préhistoire pécheresse du christianisme d’après Saint Paul.
Gli studi domenicani lo misero in più diretto contatto con la scolastica e soprattutto con S. Tommaso, anche se egli era già molto sensibile alla filosofia recente, come la fenomenologia di Husserl. Tale incontro fra medioevo ed attualità filosofica si rafforzò nel periodo di studi a Le Saulchoir ove prese la licenza in teologia. E notevole fu l’influsso di Chenu: A Le Saulchoir io ho imparato ad abbordare i problemi dal loro lato storico. Cosa che emerge anche da un suo articolo dell’epoca: Culture et religion. Al suo rientro in Olanda nel 1946, a Lovanio riprese l’insegnamento di dogmatica con particolare riferimento alla sacramentaria. Nel 1951 a Le Saulchoir difendeva la tesi di dottorato sul tema: L’économie sacramentelle du salut. Structure objective et participation subjective, pubblicata l’anno dopo in Olanda col titolo : De sacramentele Heilseconomie. Il sottotitolo è molto indicativo dell’impostazione della sua teologia: Riflessione teologica sul contenuto dei sacramenti in S. Tommaso, alla luce della tradizione e dell’attuale problematica sacramentaria. Nel 1957 ottenne la cattedra di Dogmatica e Storia della teologia a Nimega (Olanda). Ormai era il teologo più in vista della chiesa olandese, ed il cardinale Alfrink lo volle presso di sé come consigliere teologico, in particolare nel periodo del Concilio Vaticano II, mentre l’Istituto di Catechesi di Nimega gli affidava, col teologo gesuita Piet Schoonenberg, la redazione del famoso Catechismo Olandese.
Malgrado le richieste in tal senso dei vescovi olandesi, Schillebeeckx non fu nominato perito al concilio, ma la sua partecipazione fu decisamente di primo piano con conferenze e progetti. L’episodio della sua critica all’impostazione dei lavori conciliari proposta dal card. Ottaviani che suggeriva di partire dalla Rivelazione fece un certo scalpore. Schillebeeckx proponeva invece di partire dall’esperienza ecclesiale e non dai principi, partire cioè dalla liturgia, dalla comunicazione sociale e così via.
Il rapporto col Sant’Uffizio non era stato mai buono, ma nel 1968 scoppiò il caso. Due anni prima il card. Alfrink aveva presentato il Catechismo olandese, che suscitò vivaci proteste da parte dei tradizionalisti, tanto che nel 1968 i vescovi olandesi furono costretti a ritirare il loro assenso. La rivista francese Le Monde scrisse allora che il teologo domenicano era sotto processo presso la Congregazione della dottrina della fede. Il che ovviamente sollevò tutta una serie di reazioni da parte del cattolicesimo olandese, tanto che un gruppo di teologi sulla rivista Concilium (fondata con Rahner nel 1965) invocò la revisione di questa Congregazione. Nel 1985 ottenne la cattedra di teologia dogmatica presso l’università di Nimega. Nel 2009 moriva lasciando al mondo la famosa frase: sono un teologo felice.
La teologia di Schillebeeckx è forse il punto più avanzato di una organica reinterpretazione della dogmatica alla luce dell’ermeneutica e dell’esistenzialismo. Anche se il teologo domenicano rinvia spesso a S. Tommaso, è chiaro che si riferisce alle istanze di fondo del tomismo e non alle successive formulazioni della cosiddetta “philosophia perennis”, che comunemente viene identificata col tomismo. La perennità del linguaggio è proprio ciò che Schillebeeckx, seguendo il suo maestro (Domenico De Petter), nega risolutamente. L’espressione concettuale non è che l’imperfetta, inadeguata ed astratta esplicitazione dell’atto conoscitivo costituito da una intuizione implicita. Essa dipende sempre da una determinata esperienza terrena, da un dato momento storico e da una particolare cultura.
Non si tratta però di un’affermazione di agnosticismo, in quanto l’inadeguatezza del concetto non significa che non corrisponde ad alcunché di reale, bensì che non coglie adeguatamente il reale, ma lo indica, ne offre la direzione ed il senso. Il che vale specialmente per il discorso su Dio, del quale conosciamo, al dire di S. Tommaso, ciò che non è, e non ciò che è. Di conseguenza la rivelazione resta un mistero insondabile, e le definizioni dogmatiche hanno la funzione di orientarci verso il mistero della salvezza.
Il suo pensiero si è mosso prevalentemente in tre sfere della teologia, l’ermeneutica, la sacramentaria e la cristologia. Il tema dell’ermeneutica, anche se ripreso più volte lungo il corso della sua vita, dev’essere considerato fondante del suo pensiero. Infatti, pur rifacendosi e confrontandosi con il pensiero filosofico e teologico attuale, Schillebeeckx si mantiene costantemente fedele ad alcuni principi dell’ermeneutica.
Per lui la teologia come, i simboli di fede, non possono ridursi a semplici enunciazioni della verità, ma sono una glorificazione di Dio per tutto ciò che Egli compie nella storia in nostro favore. E’ questo il carattere dossologico di ogni esperienza veramente cristiana. I concetti della teologia non sono perciò il risultato di deduzioni teoriche ma l’espressione di un’esperienza vissuta. E’ la storia di una tradizione, che implica quindi un passato, che a sua volta tanto tempo fa è stato un presente vissuto, che si collega (tradizione) ad un presente attualmente vissuto, il quale non è perciò staccato dall’antico presente vissuto. E se per il passato c’è questa profonda continuità, dato che Dio, il Vivente, è fedele, questa storia-tradizione permette di vivere il futuro già in questo presente.
La teologia non può prescindere dal fatto che il suo è sempre e comunque un linguaggio umano: La teologia interpreta la parola di Dio, ma questa si presenta soltanto in linguaggio umano. Di qui deriva che la teologia, in quanto ermeneutica della Parola di Dio, ha a che fare anche con la semantica delle parole[2]. Di conseguenza il teologo non può ridursi a ripetere il vecchio linguaggio, ma deve tener conto delle recenti acquisizioni sul valore ed il senso del linguaggio dell’uomo. Scopo del suo lavoro è quello di rendere vivo ed attuale per gli uomini d’oggi quel messaggio che in altre parole era vivo ed attuale venti secoli fa, e che ovviamente oggi non ha più senso essendo trascorsi secoli di storia e quindi di esperienze.
L’addio alla teologia come sistema di concetti teorici è ancora più evidente quando si parla del Cristo: Ciò che nell’interpretazione ecclesiastica della fede viene detto e attestato a proposito di Gesù di Nazaret, deve avere un chiaro riferimento alle nostre esperienze quotidiane con i nostri simili nel mondo, se almeno si vuole fare un discorso che abbia un senso intelligibile per noi. Se viene a mancare la connessione tra la fede cristiana e il contesto della nostra esperienza mondana, la fede si renderà inintelligibile, e la decisione pro o contro il Cristianesimo non sarà più un problema che si pone; sarà lasciato da parte, come tutti i problemi inintelligibili[3]. Ed è proprio il ruolo di Cristo nell’esperienza umana come presenza escatologica di Dio e significato ultimo dell’esistenza che spinge Schillebeeckx a sentirsi più vicino a Pannenberg piuttosto che a Bultmann e Barth. Per il domenicano, mentre Dio sfugge ad ogni esperienza diretta per il suo mistero ineffabile, la sua Parola si cala continuamente nella storia, e il Gesù storico fa da anello di congiunzione fra l’intervento salvifico di Jahwé nella storia d’Israele e la storia dell’umanità redenta dal Cristo.
Probabilmente il teologo domenicano, in questo continuo dialogo con l’ermeneutica protestante, sentiva di camminare su un terreno nuovo e sotto certi aspetti sdrucciolevole. Infatti, un lavoro del 1971 non definisce questa semplicemente come l’ermeneutica cattolica, ma come un cammino. Il titolo suona: Verso un’applicazione cattolica dell’ermeneutica. Identità della fede nella reinterpretazione della fede[4].
Tuttavia, Schillebeeckx non ha dubbi. A suo avviso, le cose stavano così sin dai primi tempi dell’era cristiana, come dimostra il pluralismo neotestamentario. L’approccio al mistero di Cristo è abbastanza diverso nei Sinottici, in Giovanni come pure in Paolo. Tale pluralismo è non solo insuperabile, ma è un valore positivo. Infatti, affinché il messaggio possa giungere a tutti gli uomini con tutte le loro diversità è necessario che si insista sull’importanza della totalità biblica. Legittimare invece un solo sistema di espressioni significa convertire l’ortodossia in eresia.
A questo punto nasce però il problema del ruolo del magistero ecclesiastico di fronte ad un linguaggio sempre cangiante: Teologicamente mi sembra insostenibile e anche impossibile voler fissare una volta per sempre i concetti teologici ricorrendo ad una regolazione ecclesiastica del linguaggio. Perché ogni asserzione, anche dogmatica, significa qualcosa soltanto entro un contesto concreto. Se viene portata dentro un altro contesto, il significato di quanto era stato asserito viene inevitabilmente spostato. Ed è proprio qui che si innesta il ruolo del magistero ecclesiastico: garantire un libero confronto al riguardo, in modo che i fedeli sappiano riconoscere il linguaggio che abbia un senso per loro. Quindi il magistero stabilisce ogni volta nelle mutevoli circostanze temporali quale linguaggio è valido nella chiesa; in altre parole esso regola l’uso del linguaggio ecclesiastico e stabilisce: Chi parla così e così della fede, espone, almeno in questa situazione culturale con i suoi presupposti specifici, se non sé stesso, certamente gli altri fedeli, al pericolo di alterare il senso inteso del messaggio evangelico riguardo alla realtà salvifica[5].
Ermeneutica e cristologia sono dunque intimamente connesse, in quanto è la persona del Cristo che permette di portare la fede a livello di esperienza vitale e non soltanto di rivelazione esteriore. La locutio interior viene così ad acquisire la priorità nella fede. Come del resto già S. Tommaso sottolineava, quando diceva fides non terminatur ad enuntiabilia, sed ad rem (I-II, q. 1, a. 2). Senza il Cristo non si può avere esperienza vitale con Dio. Egli è lo strumento di questa comunione, come ben indica un noto saggio di Schillebeeckx, Cristo, sacramento dell’incontro con Dio (Roma 1962). Un saggio questo che sintetizzava e coronava tutto il cammino teologico e che si ripresentava come il motivo ricorrente anche di altre opere[6].
Nonostante la bellezza delle intuizioni di Schillebeeckx, molti non colsero la centralità del Cristo nel mistero della salvezza, quanto piuttosto il suo ruolo di intermediario fra Dio e l’uomo, quasi che Schillebeeckx intendesse mettere in ombra la divinità del Cristo. Per cui il teologo dovette anche su questo argomento soffrire delle critiche e dei sospetti. Una sintesi della sua cristologia e degli argomenti di difesa possono trovarsi in La questione cristologica. Un bilancio (Queriniana, Brescia 1980).
Cristo è il sacramento per eccellenza ed è in lui che tutti i sacramenti acquistano significato. L’economia sacramentale della salvezza (tesi a Le Saulchoir 1951) era stato il punto di partenza di Schillebeeckx, oltre che un tentativo di dare una poderosa sintesi (molto apprezzata da Karl Rahner) della dottrina sacramentaria specialmente tomista. Ma il suo non è però il tomismo della seconda scolastica. E’ quello originale, dove cioè l’elemento oggettivo e fisicista viene messo in second’ordine rispetto a quello personale dell’incontro con Dio. L’elemento materiale lascia il passo alla fede della Chiesa. L’opus operatum non può avere senso in sé stesso, ma solo come opus Christi.
La priorità dell’elemento interiore dell’incontro con Dio pervade anche le altre opere, come ad esempio Il ministero nella Chiesa (Queriniana, Brescia 1981), un’armonica sintesi di ecclesiologia non tradizionale, che si muove fra la storia e i problemi di attualità, sempre nello sforzo di rendere i dati teologici interessanti per l’uomo d’oggi e compresi da lui. Nonostante però queste opere organiche, talvolta Schillebeeckx torna con monografie specifiche su temi già trattati. Valgano come esempi Il celibato del ministero ecclesiastico (Paoline, Roma 1968), dove il teologo dimostra anche una solida preparazione storica, e La presenza eucaristica (Paoline, Roma 1967), che divenne famosa per la proposta di usare il termine transignificazione al posto di transustanziazione.
La polemica suscitata dal linguaggio di Schillebeeckx si accese alla pubblicazione del Catechismo olandese (1968) e continuò per quasi tutte le altre opere sopra citate. Egli però rispose sempre pacatamente a tutte le critiche, riconoscendo dove c’era qualcosa di vero e rigettando le illazioni senza fondamento. Il tutto gli diede anche occasione di precisare quello che secondo lui era il compito dei teologi: Un teologo non ha né la possibilità né il diritto di mettersi al posto della direzione pastorale della Chiesa. Egli ha però un servizio critico da rendere alla Chiesa, e ciò proprio per la sua missione di teologo, con il dovere a volte penoso di chiedere all’autorità ecclesiale in che misura essa tenga effettivamente conto (o no) di tutti i dati di una problematica di fatto molto complessa. Anche in questo il teologo si trova sottoposto a sua volta alla vigilanza pastorale della direzione ecclesiale. Ciò però non può renderlo codardo e impedirgli di dire la penultima parola. Egli deve parlare, anche se è persuaso che questa autorità ecclesiale prenderà nonostante tutto altre decisioni. Ciascuno ha, su questo punto, la responsabilità particolare di agire in piena coscienza, consapevole delle “conseguenze “ ecclesiali possibili, anche per lui stesso[7].
[1] Cfr. Occhipinti G., Schillebeeckx Edward, in “Lexicon. Dizionario dei Teologi”, Piemme, Casale M. (Al.) 1998, pp. 1116-1119; B. Mondin, I grandi teologi del secolo XX, I, Torino 1969, pp. 299-334; P. Bourgy, Edward Schillebeeckx, in “Bilancio della Teologia del XX secolo”, IV, Roma 1972, pp. 247-264; L. Jannarone, La cristologia di E. Schillebeeckx, Genova 1985; F. G. Brambilla, La cristologia di Schillebeeckx. La singolarità di Gesù come problema di ermeneutica logica, Brescia 1989; Erik Borgmann, La teologìa de Edward Schillebeeckx como un arte liberador, in Alternativas, Editorial Lascasiana, a. 7, n. 15, Managua 2000, pp. 149-158.
[2] Intelligenza della fede, Ed. Paoline, Milano 1975, p. 48
[3] Ivi, p. 40-41
[4] Inserito in Dio, il futuro dell’uomo, Paoline, Roma 1971, pp. 7-58.
[5] Intelligenza della fede, p. 113.
[6] Gesù, la storia di un vivente (Queriniana, Brescia 1976), Il Cristo, storia di una nuova prassi (Queriniana, Brescia 1980), La Chiesa di Cristo, l’uomo moderno e il Vaticano II (Roma 1967), Rivelazione e teologia (Roma 1966), Dio e l’uomo (Roma 1969), Dio, il futuro dell’uomo (Roma 1971).
[7] Ultime parole de Il ministero nella Chiesa, p. 200
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