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lettera ai fratelli in formazione iniziale
LETTERA DEL MAESTRO DELL'ORDINE
Lettera ai nostri fratelli e sorelle
in formazione iniziale
Lettera ai nostri fratelli e sorelle
in formazione iniziale
Festa del Beato Giordano di Sassonia 1999
Cari fratelli e sorelle in san Domenico,
Voi siete un dono di Dio all'Ordine ed è proprio accogliendo i suoi doni che noi diamo lode al Creatore. Ed è per questo che dobbiamo formarvi nel miglior modo possibile: da ciò dipende il futuro dell'Ordine, e questa è la ragione per la quale ogni nostro Capitolo Generale dedica così tanto tempo a discutere sulla formazione. Negli ultimi anni l'Ordine ha redatto eccellenti documenti su questo argomento e così, invece di scrivere una lunga lettera sulla formazione e ripetere tutto quello che già è stato detto, ho pensato che fosse meglio riunire tutti questi documenti in modo che voi e i vostri formatori possiate facilmente studiarli. Desidero però rivolgere direttamente a voi, miei fratelli e sorelle che siete all'inizio della vostra vita domenicana, almeno una parola, sapendo che forse alcuni dei vostri formatori sbirceranno sopra le vostre spalle. Farò riferimento alla formazione dei frati, giacché è quella che conosco meglio, spero che sarà utile tuttavia anche per l'esperienza delle nostre sorelle.
Uno dei piaceri più grandi durante le mie visite all'Ordine è stato quello di incontrarvi. Sono stato colpito dal vostro entusiasmo per l'Ordine, dal vostro desiderio di studiare, di predicare e dalla vostra gioia autenticamente domenicana. La formazione però richiederà anche momenti di dolore, di disorientamento, di scoraggiamento e di perdita di significato; a volte vi domanderete perché siete qui, e se dovete rimanerci. Questi momenti sono una parte necessaria e dolorosa della formazione, del vostro cammino di crescita come domenicani. Se non ci fossero questi momenti, allora la vostra formazione non vi inciderebbe profondamente.
"Formare" nella nostra tradizione, non significa plasmare una materia passiva come per fabbricare un prodotto standard: "Il Domenicano", significa invece accompagnarvi nella vostra libera risposta alla triplice chiamata che voi ricevete: dal Signore risorto che vi invita a seguirlo, dai confratelli e dalle consorelle che vi invitano a diventare uno di loro, dalle esigenze della missione. Se rispondete pienamente e generosamente a queste chiamate, allora voi sarete trasformati. Ciò vi richiederà di morire, confidando nel Signore che fa risorgere. Sarà contemporaneamente doloroso e liberante, entusiasmante e terribile; vi farà diventare le persone che Dio vi chiama ad essere. Si tratta di un cammino che continuerà per tutta la vostra vita domenicana perché il periodo di formazione iniziale non è che l'inizio. Vi scrivo questa lettera per incoraggiarvi un po' durante il vostro cammino, non mollate quando diventa duro!
Per svolgere questo tema prenderò come testo di riferimento l'incontro di Maria Maddalena , Patrona dell'Ordine, con Gesù nel giardino (Gv 20, 11-18).
"Chi cerchi?"
Quando Gesù incontra Maria Maddalena, le chiede: "Chi cerchi?". La nostra vita nell'Ordine comincia con una domanda simile, mentre siamo prostrati per terra: "Cosa cerchi?" E' la domanda che Gesù rivolge ai suoi discepoli all'inizio del Vangelo.
Voi venite nell'Ordine con una fame nel cuore, ma di che cosa avete fame? Siete venuti perché avete scoperto il Vangelo recentemente e desiderate condividerlo con tutti? O perché avete incontrato un Domenicano che avete ammirato e desiderate imitarlo? Oppure per fuggire dal mondo con tutte le sue complicazioni, o dalla fatica di relazionarvi con gli altri? O perché avete sempre desiderato diventare sacerdote ma allo stesso tempo sentite di aver bisogno di una comunità? Oppure perché vi interrogate sul significato della vita, e desiderate scoprirlo con noi? Chi cercate? Che cosa cercate? Noi non possiamo rispondere a questa domanda per voi, ma possiamo starvi vicino quando voi stessi l'affrontate, e possiamo aiutarvi ad arrivare a dare una risposta onesta.
Nel corso della nostra vita domenicana possiamo rispondere a questa domanda in modi diversi secondo i momenti. I motivi che ci hanno condotto nell'Ordine possono non essere le ragioni per cui rimaniamo. Quando sono entrato nell'Ordine ero spinto soprattutto dalla fame di capire la mia fede. Il motto dell'Ordine "Veritas", mi ha attirato. Dubitavo di avere il coraggio di predicare ma alla fine sono rimasto perché questo desiderio si è impadronito di me. Qualche volta non ci è per niente chiaro il motivo per cui siamo ancora qui e a che cosa aspiriamo e ci aggrappiamo a nient'altro che ad una vaga sensazione che questo sia il luogo in cui siamo chiamati a stare. Alla fine la maggior parte di noi rimane perché, come Maria Maddalena nel giardino, stiamo cercando il Signore. Una vocazione è la storia di un desiderio, di una fame. Rimaniamo perché siamo catturati dall'amore, e non dalla promessa di una realizzazione personale o di una carriera. Eckhart dice: "La ragione è che l'amore assomiglia all'amo del pescatore. Il pescatore non può prendere il pesce finché questo non abbocca. Chi abbocca a quest'amo è "pescato" così velocemente che piedi e mani, bocca, occhi e cuore e tutto ciò che è suo appartiene soltanto a Dio. Fai solo attenzione a quest'amo, per essere provvidenzialmente catturato, perché quanto più sarai prigioniero, tanto più sarai libero".(1)
Può darsi che scoprirete che state davvero cercando il Signore risorto, ma che siete chiamati a trovarlo secondo un altro stile di vita, forse come discepolo sposato. Forse Dio vi ha chiamato nell'Ordine per breve tempo proprio per prepararvi ad essere predicatori in un modo diverso.
La gioia di questo incontro pasquale è al centro della nostra vita domenicana, ed è tale felicità che condividiamo nella nostra predicazione. Cresciamo però in questa gioia solo passando attraverso momenti di perdita. Colui che Maria Maddalena ama è sparito. "Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove l'hai deposto, e andrò a prenderlo". E' addolorata per la perdita della persona amata. Talvolta l'entrata nell'Ordine può essere segnata da un'esperienza di abbandono di questo tipo. Forse siete entrati pieni di entusiasmo, stavate per darvi interamente a Dio, per vivere ore di preghiera estatica. Invece sembra che Dio sia svanito. La preghiera diventa una noiosa ripetizione di lunghi salmi in momenti sbagliati con i confratelli che cantano male. Possiamo addirittura pensare che la colpa della scomparsa di Dio sia dei confratelli, cioè della loro mancanza di devozione. Perché non vengono neppure all'ufficio? Sembrerebbe che il loro esempio possa indebolire la fede che mi ha condotto qui. Nelle loro lezioni esaminano minuziosamente la Parola di Dio, e ci affermano che non si deve prendere alla lettera. Dove hanno sepolto il mio Signore?
"Gesù le dice, 'Maria'. Lei voltatasi gli risponde in ebraico 'Rabbuni' (che significa Maestro)". Dobbiamo perdere Cristo se vogliamo ritrovarlo di nuovo, straordinariamente vivo e inaspettatamente vicino. Dobbiamo lasciarlo andare, essere desolati, addolorati per la sua mancanza, in modo da scoprire che Dio ci è più vicino di quanto noi non avremmo mai potuto immaginare. Se non passiamo attraverso questa esperienza il nostro rapporto con Dio rimarrà fermo ad un livello immaturo ed infantile. Come per Maria perplessa nel giardino, ignara di quanto stava accadendo, così anche per noi esiste la possibilità di essere disorientati e questo fa parte della nostra formazione, altrimenti non potremo mai essere colti di sorpresa da una intimità nuova con il Signore risorto. E questo deve succedere più di una volta man mano che il pescatore ci tira su. Il Signore che era perduto le appare e le parla, e poi le dice di lasciarlo andare di nuovo: "Non mi trattenere".
Quando vi sembra che abbiano portato via il corpo del Signore, non mollate e non andatevene. Quando Gesù scomparve, Pietro tornò al suo lavoro, come un uomo qualunque. Questa può essere una tentazione, tornare a vivere la nostra vecchia vita. Maria non si è arresa ma ha continuato a cercare, anche se solo un cadavere. Se in quel momento perseveriamo, come lei, saremo colti dalla sorpresa. Ricordo un lungo periodo di desolazione durante gli anni della mia professione semplice. Non dubitavo dell'esistenza di Dio, ma Dio sembrava incredibilmente lontano, sembrava non aver molto a che fare con me. Il vuoto è stato colmato anni dopo, d'estate, nel giardino dei Getsemani a Gerusalemme, dopo la professione solenne. Forse un giorno dovrò di nuovo sopportare quest'assenza, e allora magari sarete voi, miei fratelli e sorelle, ad aiutarmi fino al prossimo incontro a sorpresa.
Gesù le rivolge solo una parola, il suo nome: "Maria". Dio ci chiama sempre per nome. "Samuele" Dio ha pronunciato tre volte il suo nome durante la notte. E' solo rispondendo a Dio che ci chiama per nome che scopriamo chi siamo e la nostra identità più profonda. "Il Signore mi ha chiamato dal seno materno, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome" (Is 49,1) La nostra vocazione domenicana quindi non è una questione di trovare un lavoro o anche di fare un servizio utile alla Chiesa e alla società, si tratta del mio "Sì" a Dio che mi invita ad essere, "Sì" ai confratelli con i quali vivo, "Sì" alla missione per cui sono mandato. Sono richiamato alla vita, come colui che è stato chiamato dalla tomba da una voce che continua a gridare: "Lazzaro, vieni fuori".
Quindi possiamo affermare che lo scopo fondamentale della formazione è di aiutarci a diventare cristiani, a dire "Sì" a Cristo. Se non si raggiunge questo scopo significa che stiamo giocando. Ma allora questo vuol forse affermare che diventare "domenicano" non sia importante, che sia puramente secondario? No, perché questa è la via della sequela di Cristo propria di san Domenico. Forse il primo termine con cui si definiva il cristianesimo era "La Via" (At 9, 2). Quando Domenico si è incamminato per il sud della Francia ha scoperto la strada verso il Regno. L'Ordine con la sua preghiera comune, la sua forma di governo, il suo modo di fare teologia e di essere frate ci offre "una via" di vita. Quando facciamo professione, dobbiamo credere che questa strano modo di vivere ci può condurre al Regno.
Così non aspetto di essere un buon cristiano prima di diventare un predicatore. Il condividere la parola di Dio con gli altri fa parte della mia ricerca del Signore nel giardino. Quando faccio fatica a trovare le parole con cui predicare allora divento come Maria Maddalena, e supplico il giardiniere di dirmi dove hanno posto il corpo dei mio Signore. Se riesco a condividere la mia lotta con la Parola allora posso anche condividere quel momento in cui il Signore si rivela pronunciando il mio nome. Devo avere il coraggio di guardare nella tomba e vedere l'assenza del corpo, se voglio rendere gli altri partecipi del successivo incontro. Essere un predicatore significa condividere tutti i momenti di quel dramma che si svolge a Pasqua nel giardino: desolazione, domanda, rivelazione. Se parlo però come uno che sa tutto, risoluto, allora le persone potranno magari essere impressionate dalla mia conoscenza, ma potrebbero anche ritenere che ciò che dico ha ben poco a che fare con loro.
"Va' dai miei fratelli"
Gesù chiama Maria Maddalena per nome, e la manda dai propri fratelli. Noi rispondiamo alla chiamata di Dio diventando uno dei confratelli.
Diventare un fratello è più che entrare in una comunità e mettersi un abito. Implica una profonda trasformazione del mio essere. Essere fratello di sangue di qualcuno è più che avere gli stessi genitori: implica rapporti che mi hanno lentamente formato ad essere la persona che sono. Nello stesso modo, diventare uno dei fratelli di Domenico richiederà da me una paziente e, a volte, dolorosa trasformazione di quello che sono. Ci saranno momenti, forse prolungati, di morte e di risurrezione.
E' vero che moltissimi dei frati domenicani sono sacerdoti, e che apparteniamo ad un "istituto clericale", ma l'ordinazione non ci rende meno confratelli. Durante i miei anni di formazione sono arrivato ad amare di essere solo un membro dell'Ordine, non desideravo di più. Ho accettato poi l'ordinazione perché i miei confratelli me l'hanno chiesto e per amore della missione. Sono arrivato ad apprezzare il mio essere sacerdote, perché la comunione e la misericordia che sono al centro della nostra vita fraterna, hanno trovato espressione anche nel sacramento per il più vasto campo della Chiesa. Ma ero frate così come lo ero prima, non c'è titolo più grande nell'Ordine. Questa è una ragione per cui credo che la promozione della vocazione dei frati cooperatori - un termine che non mi è mai piaciuto - sia tanto importante per il futuro dell'Ordine. Essi ci ricordano chi siamo tutti noi, fratelli di Domenico. Non ci possono essere confratelli di seconda classe nell'Ordine.
Quando ero studente, ricordo la visita di un sacerdote proveniente da un'altra Provincia nella nostra comunità a Oxford. Al suo arrivo, c'era un Domenicano che spazzava il salone. Il visitatore gli chiese: 'Sei un fratello?'. Egli rispose: 'Sì'. 'Fratello, portami una tazza di caffè'. Dopo il caffè, disse al fratello di portargli le valigie in camera. E alla fine il visitatore disse: 'Ora, fratello, vorrei incontrare il Padre Priore'. Gli rispose: ' Sono io il Priore'.
Diverse concezioni dell'identità del frate
Essere un frate significa scoprire che tu sei uno di noi. Ti senti a casa tua con i confratelli, anche se noi Domenicani potremmo avere concezioni diverse riguardo a quello che significa essere un frate.
Entrando in noviziato uno degli shocks può essere la scoperta che i miei compagni di noviziato forse sono venuti con una concezione della vita domenicana molto diversa dalla mia. Quando sono entrato, ero fortemente attirato non solo dalla ricerca della Veritas, ma anche dalla povertà di Domenico. Mi immaginavo di mendicare il pane per le strade. Presto ho scoperto che la maggior parte dei miei compagni considerava questa cosa uno stupido romanticismo. Alcuni di voi saranno stati attirati dall'amore per lo studio, altri da un desiderio di lottare per un mondo più giusto. Potrete essere scandalizzati nel vedere altri novizi spacchettare una quantità enorme di libri o un lettore di CD. Alcuni di voi desiderano portare l'abito ventiquattro ore al giorno e altri lo tolgono appena possibile. Facilmente calpestiamo gli uni i sogni degli altri.
Spesso esiste una notevole tensione tra le generazioni di confratelli. Alcuni giovani che entrano nell'Ordine in questi giorni, hanno grande stima della tradizione e dei segni visibili dell'identità domenicana: studiare san Tommaso, le melodie liturgiche tradizionali nell'Ordine, portare l'abito, celebrare i nostri santi. Spesso i confratelli della generazione precedente rimangono confusi davanti a questo desiderio di una chiara e visibile identità domenicana. Per loro infatti l'avventura è stata quella di lasciarsi alle spalle forme antiche che sembravano ostacolarli nella predicazione del Vangelo. Dovevamo stare fuori sulla strada, con la gente, e vedere le cose con i loro occhi, mantenendo l'anonimato per essere vicino a loro. Talvolta questo contrasto può condurci ad una certa incomprensione, perfino al reciproco sospetto. Le Province che oggi sono fiorenti sono spesso quelle che sono riuscite ad andare oltre tali conflitti ideologici. Come possiamo costruire una fraternità che sia più profonda di queste differenze?
Prima di tutto, forse potremmo riconoscere lo stesso profondo impulso evangelico gli uni negli altri. Con o senza l'abito, predichiamo lo stesso Signore risorto. Mi sono trovato sempre a casa mia con i confratelli, sia che sedessi a recitare i salmi in maniche di camicia con alcuni confratelli sulla riva di un fiume in Amazzonia, sia che celebrassi una elaborata liturgia polifonica a Tolosa. Oltre le esigenze oggettive dei voti e delle Costituzioni, si riconoscono certe somiglianze di famiglia: atmosfera di gioia, senso di eguaglianza tra tutti i confratelli, passione per la teologia, anche se con tendenze abbastanza contraddittorie, fiducia nella nostra tradizione democratica, assenza di pretese. Tutto questo fa intravedere uno stile di vita che condividiamo, per quanto grandi siano le differenze apparenti.
In secondo luogo, le nostre diverse concezioni della vita domenicana forse si sono formate in momenti diversi della storia della Chiesa e dell'Ordine. Molti di noi, diventati Domenicani al tempo del Concilio Vaticano Secondo, sono cresciuti in un cattolicesimo fiducioso, sicuro della sua identità. La nostra avventura è stata di raggiungere i lontani da Cristo eliminando le barriere. Ciò che muove i confratelli e le consorelle di quella generazione è qualche volta il desiderio di essere vicini al Cristo invisibile, presente in ogni fabbrica, in ogni barrio, in ogni università. L'identità visibile veniva rimossa per amore della predicazione. I nostri preti operai, per esempio, erano un segno di Dio che è vicino anche a quelli che sembrano aver dimenticato il suo nome.
Molti di voi che venite oggi nell'Ordine, specialmente in Occidente, avete fatto un percorso diverso di ricerca, crescendo lontano dal cristianesimo. Forse ora voi desiderate celebrare e affermare la fede che avete abbracciato e che siete giunti ad amare. Volete essere visti come Domenicani, perché anche questo fa parte della predicazione. Può essere proprio il medesimo impulso evangelico che induce alcuni confratelli a mettersi l'abito e altri a toglierselo.
Questa tensione in ultima analisi è fruttuosa e necessaria per la vitalità dell'Ordine. Accettare i giovani nell'Ordine è una sfida per noi. Come la nascita di un bambino cambia la vita dell'intera famiglia, così ogni generazione di giovani che viene da noi cambia la comunità. Voi venite con le vostre domande per le quali non sempre abbiamo le risposte, con i vostri ideali, che possono rivelare le nostre inadeguatezze, con i vostri sogni che forse non condividiamo. Voi venite con i vostri amici e le vostre famiglie, con le vostre culture e le vostre tribù. Venite a disturbarci, ed è per questo che abbiamo bisogno di voi. Spesso venite a esigere quello che in effetti è centrale per la nostra vita domenicana, ma che potremmo aver dimenticato o sottovalutato: una preghiera comunitaria più profonda e bella; una fraternità più intensa in cui ci prendiamo maggiore cura l'uno dell'altro, il coraggio di lasciare alle spalle i nostri vecchi impegni e di rimetterci di nuovo in cammino. Spesso l'Ordine è rinnovato perché i giovani vengono da noi e insistono nel cercare di costruire la vita domenicana che hanno letto nei libri. Continuate ad insistere!
Per noi che siamo arrivati prima di voi, è facile dire, con un po' di irritazione: 'Siete voi che vi unite a noi, non noi che ci uniamo a voi'. In effetti questo è vero, ma solo per metà. Infatti nel momento in cui siamo entrati nell'Ordine, ci siamo consegnati nelle mani di confratelli che ancora dovevano venire. Ci siamo impegnati ad obbedire a persone che ancora non erano nate. E' vero che non dobbiamo inventare di nuovo l'Ordine ad ogni generazione, ma parte dell'espressione del genio di Domenico fu di fondare un Ordine che avesse l'adattabilità e la flessibilità come elementi della sua identità. Abbiamo bisogno di essere rinnovati da coloro che sono stati afferrati dall'entusiasmo per la visione di Domenico. Non dobbiamo reclutarvi per combattere le nostre vecchie battaglie. Dobbiamo resistere alla tentazione di incasellarvi nelle categorie della nostra gioventù e di etichettarvi come 'conservatori' o 'progressisti', così come voi dovete trattenervi dal metterci da parte come reliquie 'degli anni settanta'.
Anche voi a vostra volta sarete sfidati da coloro che sono venuti prima di voi, per lo meno lo spero. Accettare il fatto che ci sono diversi modi di essere Domenicano non significa che chiunque può inventare la propria interpretazione. Non posso, per esempio, decidere che per me i voti sono compatibili con avere una donna e una macchina sportiva. Il nostro stile di vita implica certe inevitabili e oggettive esigenze, che in ultima analisi devono invitarmi a passare attraverso una profonda trasformazione del mio essere. Se evito di fare questo, non sarò mai uno dei fratelli.
A maggior ragione le diverse concezioni dell'essere domenicano non ci dovrebbero mai veramente dividere, perché l'unità dell'Ordine non dipende da una linea ideologica comune e neanche da un'unica spiritualità. Se fosse così, saremmo stati divisi già da qualche tempo. Ciò che ci tiene insieme è uno stile di vita che ci permette una grande diversità e flessibilità, nella missione comune e in una forma di governo che dà ad ognuno la possibilità di esprimersi. Il leone domenicano e l'agnello domenicano possono vivere insieme e apprezzare la reciproca compagnia.
All'inizio della vita dell'Ordine, le Vitae Fratrum furono scritte per documentare la memoria della prima generazione dei nostri confratelli. Noi siamo legati insieme come comunità dalle storie del passato come pure dai sogni del futuro. I segni visibili dell'identità domenicana certamente hanno il loro valore, e dicono qualcosa di importante su chi siamo, ma non devono diventare i vessilli di combattimento delle diverse fazioni. I Domenicani, la cui memoria noi giustamente custodiamo, erano spesso persone talmente animate dalla passione per la predicazione che non avevano molto tempo per pensare alla loro identità di domenicani. Come ha scritto Simon Tugwell, 'lungo la storia, quando l'Ordine è stato più autentico in se stesso, non è stato affatto preoccupato di essere domenicano''(2).
La formazione deve effettivamente darci una forte identità domenicana e deve insegnarci la nostra storia e la nostra tradizione, non per contemplare la gloria dell'Ordine, e quanto siamo o eravamo importanti, ma perché possiamo incamminarci insieme dietro a Gesù povero e itinerante. Un forte senso di identità ci libera dal pensare troppo a noi stessi, altrimenti saremmo talmente preoccupati di noi da non sentire la voce che ci chiede: 'Chi cerchi?'.
La fraternità quindi si basa su qualcosa di più che su una visione singola. Si costruisce pazientemente, imparando ad ascoltarci a vicenda, ad essere forti e fragili, imparando la fedeltà reciproca e l'amore fraterno.
Parlare e ascoltare
Sappiamo che ci sentiamo a nostro agio quando possiamo parlarci con tranquillità, fiduciosi che i nostri fratelli cercheranno almeno di capirci. Probabilmente questo è quanto ci aspettiamo nel momento in cui entriamo nell'Ordine. Gesù dice a Maria Maddalena: 'Va' dai miei fratelli e dì' loro: io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro'. Ella ha ricevuto il mandato di condividere la sua fede nel Signore risorto, anche se gli altri avrebbero potuto considerarla un'illusa. Allo stesso modo edifichiamo nell'Ordine una casa per tutti se abbiamo il coraggio di condividere il motivo per cui siamo venuti qui. A volte sarà duro. Probabilmente siamo venuti aspettandoci di trovare persone con la nostra mentalità, con gli stessi sogni e con lo stesso modo di pensare. Invece forse potremmo scoprire che gli altri sono venuti nell'Ordine percorrendo vie così diverse da non poterci riconoscere in quello che dicono. Potremmo esitare a esporre alla critica e alla valutazione ciò che abbiamo di più prezioso, cioè la nostra fede fragile. Condividere la nostra fede ci richiede grande vulnerabilità. Alle volte potrebbe risultare più facile fare ciò con le persone che non vivono con noi.
Una delle principali sfide per un formatore è suscitare la fiducia, in modo che voi possiate avere il coraggio di parlare con libertà. Martin Buber ha scritto che 'la cosa decisiva è che i giovani siano disposti a parlare. Se qualcuno li tratta con fiducia, dimostrando di credere in loro, allora gli parleranno. Anzitutto è necessario che il maestro susciti nei discepoli la cosa più preziosa di tutte: una genuina fiducia''(3). Altrettanto importante è la fiducia reciproca tra voi. A volte forse potreste arrivare ad avere il coraggio di condividere perfino i vostri dubbi.
La cultura contemporanea occidentale coltiva sistematicamente il sospetto. Ci è stato insegnato a indagare cosa c'è sotto quello che gli altri dicono, sotto quello che non è accettato, sotto quello che è occultato e perfino inconscio. Nella Chiesa a volte questo può prendere la forma di una caccia all'errore, sviscerando le affermazioni, in cerca di eresie. Questo fratello è un vero discepolo di san Tommaso d'Aquino o della teologia della liberazione? E' uno di noi? E' più facile scoprire quanto un fratello sbagli e abbia negato un dogma della Chiesa o una qualche mia idea, che percepire il seme di verità che lui sta faticando a comunicarci. Ma tale sospetto turba la fraternità, deriva dalla paura e solo l'amore caccia via la paura.
Imparare ad ascoltarci reciprocamente con carità è una disciplina della mente. Benedict Ashley ha scritto: è necessario un nuovo ascetismo della mente, perché non c'è niente di più faticoso che mantenere viva la carità in mezzo a proposte autentiche durante una discussione su questioni serie'(4). Amare il mio confratello non è semplicemente una piacevole calda emozione, ma una disciplina intellettuale. Devo trattenermi dal bocciare come cosa senza senso quello che un confratello ha detto, prima ancora di sentire ciò che lui sta dicendo. Aprire la mente ad una prospettiva inattesa è un'ascesi mentale. Comporterà imparare a stare in silenzio, non solo aspettando che l'altro smetta di parlare, ma anche in modo da poterlo ascoltare. Devo frenare le obiezioni difensive e l'impulso di fermarlo prima che dica un'altra parola. Devo tacere e ascoltare.
Il dialogo costruisce una comunità di uguali, perciò dobbiamo costruire la comunità della Famiglia Domenicana dedicando del tempo a parlare con le nostre sorelle e con i laici domenicani, e scoprirne la gioia. Il dialogo edifica la più vasta casa di Domenico e di Caterina; esso 'richiede uguaglianza tra i partecipanti. Di fatto è uno dei modi migliori per stabilire uguaglianza. I suoi nemici sono la retorica, la disputa, il gergo e un linguaggio particolare, oppure la mancanza di fiducia di essere ascoltati e di essere capiti. Per prosperare, il dialogo ha bisogno dell'aiuto di levatrici di entrambi i sessi ... Solo quando le persone imparano a dialogare cominciano ad essere uguali''(5). Una delle sfide per noi confratelli è lasciare che le sorelle ci formino come predicatori. La più profonda formazione è sempre reciproca.
Essere forti e deboli
Noi ci sentiamo a nostro agio e apparteniamo alla famiglia quando scopriamo di essere più forti di quello che avessimo mai creduto, e più deboli di quanto osassimo ammettere. E queste qualità non sono contrastanti, perché sono indicative del fatto che stiamo cominciando a conformarci al Cristo forte e vulnerabile.
In primo luogo siamo formati come cristiani. Nella nostra tradizione questo non significa tanto un progressivo sottomettersi ai comandamenti o un soggiogare la nostra natura indisciplinata, quanto crescere in virtù. Diventare virtuosi ci rende forti, schietti, liberi e capaci di stare saldamente in piedi. Come scrisse Jean-Louis Bruguès OP, la virtù è un apprendistato di umanità. "E' il passaggio dalla virtualità alla virtuosità."(6)
Diventare un confratello significa ricevere forza gli uni dagli altri. Non siamo dei solisti. Questo è una forza che ci fa liberi, ma con gli altri e non dagli altri. In primo luogo, diventiamo forti perché abbiamo fiducia reciproca. Alle origini della nostra tradizione c'è la sconfinata fiducia di Domenico nei confratelli. Egli aveva fiducia nei fratelli perché l'aveva in Dio. Come scrisse Giovanni di Spagna, 'egli aveva una tale fiducia nella bontà di Dio che mandava a predicare anche uomini ignoranti dicendo: 'Non temete, perché il Signore sarà con voi e darà potere alle vostre parole'(7).
Il primo compito perciò del vostro formatore è sviluppare quella fiducia e quella confidenza. Ma è anche responsabilità di ognuno di voi verso gli altri, perché di solito sono proprio le stesse persone in formazione a formarsi di più a vicenda. Come avete il potere di intimidire un fratello, di affossare la sua fiducia e di prenderlo in giro, così, allo stesso modo, avete il potere di edificarvi l'un l'altro, di darvi forza e di formarvi a vicenda come predicatori della potente parola di Dio.
Nelle nostre Costituzioni è scritto che 'la prima responsabilità della propria formazione è del candidato stesso' (LCO 156). Non dovremmo essere trattati da bambini, incapaci di prendere decisioni per noi stessi. Venendo considerati adulti maturi, noi cresciamo per diventare confratelli, membri uguali nella comunità. Al tempo di Domenico, non esisteva il tradizionale circator monastico, il cui lavoro era di andare in giro a controllare se ognuno faceva quello che doveva fare. Si tratta però di una responsabilità che non esercitiamo da soli. Se siamo fratelli, allora ci aiuteremo nella libertà di pensiero e di parola, nella libertà di credere, di rischiare, di superare la paura. Oseremo anche spronarci a vicenda.
Se cresciamo come confratelli, allora saremo abbastanza forti da affrontare la nostra debolezza e fragilità. Questo è, in primo luogo, ciò che uno dei miei amici ha chiamato 'la sapienza creaturale'(8). E' la consapevolezza che siamo stati creati, che la nostra esistenza è un dono, che siamo mortali e che viviamo tra la nascita e la morte. Apriamo gli occhi sul fatto che non siamo dèi. Stiamo ritti su due piedi, ma i nostri piedi sono un dono.
Scopriremo anche che non siamo entrati in una comunità di santi, ma in un gruppo di uomini e di donne che sono deboli, irresoluti e che devono costantemente ricominciare dopo ogni fallimento. Ho scritto altrove come questo possa essere un momento di crisi nella formazione di un frate(9). Gli eroi, che un novizio aveva amato e ammirato, si rivelano dai piedi di creta. Ma è sempre stato così. Questa è una delle ragioni per cui abbiamo Maria Maddalena come Patrona dell'Ordine, la quale secondo la tradizione era una donna debole e peccatrice, ma è stata chiamata per prima a predicare il Vangelo.
Più di cinquecento anni fa, Savonarola scrive una lettera a un novizio decisamente scandalizzato dai peccati dei confratelli e lo mette in guardia circa le persone che entrano nell'Ordine sperando di entrare direttamente in paradiso. Costoro non resistono mai. "Essi infatti vogliono dimorare con i santi, escludendo tutti gli uomini cattivi e imperfetti. E quando non trovano questo, abbandonano la loro vocazione e se ne vanno via .... Ma se tu volessi fuggire tutti i cattivi, dovresti andartene da questo mondo"(10). Confrontarsi con la fragilità spesso costituisce un bellissimo momento nella maturazione di una vocazione. E' il momento in cui scopriamo che siamo capaci di dare e di ricevere la misericordia che abbiamo chiesto quando siamo entrati nell'Ordine. Se riusciamo a farlo, allora siamo sulla via di diventare un frate e un predicatore.
Uno dei timori che ci può impedire di aver fiducia in questa misericordia è la preoccupazione che, se i confratelli vedessero quello che siamo realmente, allora forse non voterebbero per noi all'ammissione della professione. Potremmo essere tentati di nascondere quello che siamo finché non siamo entrati nell'Ordine sani e salvi, professi, ordinati sacerdoti e invulnerabili. Accettare questo sarebbe accontentarsi di una formazione finta. La formazione diventerebbe un allenamento al sotterfugio, e sarebbe una caricatura per un Ordine il cui motto è "Veritas". Dobbiamo fidarci dei confratelli tanto da permettere loro di vedere quello che siamo e quello che pensiamo. Senza questa trasparenza non c'è fraternità. Questo non vuol affermare che dobbiamo alzarci in piedi in refettorio e confessare pubblicamente i nostri peccati, ma non possiamo indossare una maschera dietro cui nasconderci. Abbiamo il coraggio di abbracciare tale vulnerabilità perché Cristo l'ha fatto prima di noi. Questo ci prepara a predicare una parola credibile ed onesta.
Fedeltà e amore per i confratelli
Infine, c'è una qualità della fraternità che è elusiva e difficile da definire: la chiamerò fedeltà, che, secondo Péguy, è "la parola più bella". Al centro della nostra predicazione c'è la fedeltà di Dio. Dio ci ha dato la sua parola, ed è una Parola fatta carne. E' una parola di cui possiamo fidarci, perché fa della storia dell'umanità una storia orientata verso una direzione precisa, piuttosto che una successione casuale di eventi. E' la parola forte e solida di colui che ha detto "Io sono Colui che Sono". E' una fedeltà che dobbiamo cercare di incarnare nella nostra vita. La coppia sposata è un sacramento della fedeltà di Dio, che si è unito a noi in Cristo in modo irrevocabile. L'essere fedeli gli uni agli altri fa parte anche del nostro predicare il Vangelo.
Che cosa significa questo? In primo luogo, è la fedeltà all'impegno che abbiamo preso nei confronti dell'Ordine. Dio ci ha dato la sua Parola fatta carne, anche se questo l'ha condotto ad una morte senza senso. Abbiamo dato a Dio la nostra parola, anche quando la nostra promessa sembra esigere da noi più di quello che possiamo immaginare. Ricordo che, quando ero Provinciale, parlai con un frate anziano che era venuto a affermarmi che stava per morire di tumore; era un uomo amabile e buono, che aveva vissuto momenti difficili e incerti nella sua vita domenicana. Mi disse: "Sembra che si stia realizzando la mia ambizione di morire nell'Ordine". Potrebbe apparire una piccola ambizione, ma è essenziale. Aveva dato la sua parola e la sua vita, perciò si rallegrava di non essersi ripreso, nonostante tutto, la sua offerta.
In secondo luogo, fedeltà significa che la nostra comune missione ha la priorità sui miei impegni personali. Ho i miei talenti, le mie preferenze e i miei sogni, ma ho dato me stesso alla nostra comune predicazione della Buona Novella. Questa missione comune può richiedermi di accettare, per qualche tempo, un incarico non voluto, di Economo, di Maestro dei Novizi o degli Studenti, o di Maestro dell'Ordine, per il bene comune. Un autobus può esser molto simile ad una sala comune: è pieno di persone sedute l'una accanto all'altra, che parlano o leggono, condividendo uno spazio comune. Ma quando il percorso dell'autobus prende una direzione diversa da quella del mio viaggio, allora scendo e continuo per la mia strada. Considero l'Ordine come un autobus, sul quale rimango soltanto finché mi porta nella direzione verso cui desidero andare?
Fedeltà implica inoltre stare dalla stessa parte dei miei confratelli, perché la loro reputazione è la mia. Nelle Costituzioni primitive, e fino a poco tempo fa, uno dei doveri del Maestro dei Novizi era insegnare loro a "pensare positivo".(11) Si deve sempre dare la migliore interpretazione possibile di ciò che i confratelli hanno fatto o detto. Se un fratello regolarmente ritorna tardi la sera, invece di immaginare i più terribili peccati che egli possa aver commesso, bisogna presumere che, per esempio, è stato a visitare dei malati. Savonarola scrisse al novizio pronto a giudicare: 'Se vedi qualcosa che non ti piace, pensa che è stato fatto con buone intenzioni. Molti sono, interiormente, migliori di quanto tu possa immaginare'. E' più dell'ottimismo dei semplici: fa parte di quell'amore che vede il mondo con gli occhi di Dio, cioè, buono. Caterina da Siena una volta scrisse a Raimondo da Capua assicurandolo nuovamente del suo amore per lui, e affermandogli che quando amiamo qualcuno diamo la miglior interpretazione a quello che egli fa, fiduciosi che cerca sempre il nostro bene: 'Oltre l'amore comune, c'è un amore particolare che si manifesta nella fiducia. E si rivela in modo tale che non può né credere né immaginare che l'altro voglia qualcosa al di fuori del nostro bene'(12) .
Se il mio fratello è condannato come cattivo oppure come non ortodosso fedeltà significa che farò di tutto per appoggiarlo e darò la migliore interpretazione possibile alle sue vedute o azioni. A motivo di questa fedeltà reciproca il prologo delle Costituzioni del 1228 ordinava, come cosa da osservare 'inviolabilmente e immutabilmente in perpetuo', di non appellarsi mai fuori dell'Ordine contro le decisioni prese dall'Ordine. Deve essere praticamente impensabile perciò, che un frate possa pubblicamente accusare uno dei suoi confratelli o dissociarsi da lui.
Questa fedeltà implica che io non solo lo appoggi, ma anche che lo affronti. Se è mio confratello, allora mi deve importare quello che lui pensa e devo avere il coraggio di trovarsi in disaccordo con lui. Non posso lasciare questo solo ai Superiori, come se non fosse responsabilità mia, ma devo farlo a viso aperto e non dietro le spalle. Forse abbiamo timore, paura dell'ostilità e del rifiuto, ma la mia esperienza è che, se uno fa capire che sta parlando per amore della verità e del fratello, si arriva sempre ad un'amicizia e ad una comprensione più profonde.
Questi sono dunque alcuni degli elementi che ci formano come fratelli: parlarsi e ascoltarsi, imparare ad essere forti e deboli, crescere in fedeltà reciproca. Tutto questo fa parte di ciò che soprattutto è fondamentale, cioè dell'imparare ad amare i confratelli. Noi Domenicani, con la robusta essenzialità dei nostri rapporti reciproci, potremmo esitare ad usare un tipo di linguaggio che potrebbe suonare melenso e sentimentale. Però, in ultima analisi, l'amore è la base della nostra fraternità. Lo esige Colui che ci chiama: 'Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi' (Gv 16,12). E' il comandamento fondamentale della nostra fede e l'obbedienza ad esso ci forma come cristiani e come confratelli. San Domenico diceva di aver imparato 'più nel libro della carità che nei libri degli uomini'(13). Questo significa che in ultima analisi ci consideriamo reciprocamente un dono di Dio. Un fratello o una sorella può irritarmi, forse sono totalmente contrario alle sue opinioni, ma riuscirò a compiacermene e a vedere la sua bontà.
C'è un legame fondamentale tra amore e vocazione, ed è questo che ha portato molti di voi tra noi. Gesù guardò il giovane ricco, lo amò e lo invitò a seguirlo, così come guardò Maria Maddalena e la chiamò per nome. Stefano di Spagna è andato - ci dice - a confessarsi da Domenico, e 'egli mi guardò come se mi amasse'(14). Quella sera, più tardi, Domenico lo chiamò e lo rivestì dell'abito. L'amore è, come disse Eckhart, l'amo del pescatore che cattura il pesce e non lo lascia andare. Confesso che avevo deciso di entrare nell'Ordine prima ancora di incontrare un Domenicano, attirato dall'ideale di cui avevo letto. Forse anche questo può essere una benedizione!
Non c'è niente di sentimentale in questo amore. Talvolta dobbiamo lavorarci su, e faticare per superare pregiudizi e differenze. E' la fatica di diventare uno dei fratelli. Ricordo che c'era un tempo un fratello con il quale per me era difficile vivere. Qualunque cosa uno dei due dicesse o facesse sembrava irritare l'altro. Una sera optammo per una soluzione molto inglese: decidemmo cioè di andare insieme al pub. Parlammo per ore, conoscemmo le nostre infanzie e le nostre battaglie. Per la prima volta potevo vedere con i suoi occhi e potevo vedere me stesso come dovevo apparirgli. Incominciai a capire: era l'inizio dell'amicizia e della fraternità.
"Ho visto il Signore"
Maria Maddalena va dai suoi fratelli e dice: 'Ho visto il Signore'. E' la prima predicatrice della risurrezione. E' predicatrice perché è capace di ascoltare il Signore quando Egli chiama e di condividere la buona novella della vittoria di Cristo sulla morte.
Perciò diventare un predicatore è più che imparare un certa quantità di nozioni per avere qualcosa da dire e qualche tecnica di predicazione per saper come dirla. E' formarsi come uno che sa ascoltare il Signore e che sa dire una parola che offra vita. Isaia dice: 'Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, sin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. Ha reso la mia bocca come una spada affilata, mi ha nascosto all'ombra della sua mano' (Is 49,1s.). Tutta la vita sin dall'inizio, ha formato Isaia come uno disposto a pronunciare una parola profetica.
L'Ordine deve offrirvi più di una formazione teologica. E' la vita che ci forma come predicatori. La nostra vita comune, la preghiera, le esperienze pastorali, le fatiche e i fallimenti ci renderanno vigilanti e capaci di proclamare il Vangelo in modi che non possiamo anticipare.
Uno dei miei predecessori come Provinciale fu un fratello di nome Anthony Ross. Era famoso come predicatore, storico, riformatore delle carceri, e anche come lottatore! Un giorno, poco dopo essere stato eletto Provinciale, fu colpito da ictus e fu praticamente ridotto al silenzio. Dovette dimettersi dalla sua carica e imparare di nuovo a parlare. Le poche parole che riusciva a dire avevano più forza di qualunque cosa avesse mai detto prima. La gente veniva a confessarsi da lui per sentire le sue semplici parole capaci di guarire. Le sue prediche fatte di una mezza dozzina di parole potevano cambiare la vita delle persone. Era come se quella sofferenza e quel silenzio avessero formato un predicatore che poteva darci parole di vita come mai aveva fatto prima. Andai a trovarlo prima di partire per il Capitolo Generale del Messico, da dove, con mia grande sorpresa, non ritornai alla mia Provincia. La sua ultima parola per me è stata: 'Coraggio'. Il più grande dono che possiamo fare a un confratello è una tale parola.
Una parola compassionevole
Maria Maddalena annuncia ai discepoli: 'Ho visto il Signore'. Non è solo l'affermazione di un fatto, ma la condivisione di una scoperta. Lei ha condiviso la loro perdita, la loro confusione, il loro dolore, e così ora può condividere con loro il suo incontro con il Signore risorto. Può condividere la Buona Novella con loro perché è buona novella per lei.
La Parola che predichiamo è "la Parola" che ha condiviso la nostra umanità, ed è 'non un sommo Sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato' (Eb 4,15). Predicare ci chiederà di incarnarci in realtà diverse, siano pure esse la cultura giovanile contemporanea o un'isola della Micronesia, il mondo dei drogati o degli industriali. Dobbiamo entrare in un mondo, imparare il suo linguaggio, vedere con gli occhi di chi vi abita, metterci nei loro panni, capire le loro debolezze e le loro speranze. Dobbiamo, in certo senso, diventare loro. Allora saremo in grado di dire una parola che è Buona Novella sia per loro che per noi. Ciò non significa che dobbiamo essere d'accordo con loro, spesso potremmo aver bisogno di sfidarli, ma dobbiamo tastare il polso della loro umanità prima di farlo.
E' tradizione della Chiesa cantare le lodi di Dio all'alba. Noi continuiamo ad essere sentinelle che aspettano l'aurora per condividere la nostra speranza con coloro che non vedono nessun segno del sole che sorge. E' proprio perché ho intravisto in un certo senso il loro buio, e forse l'ho riconosciuto come anche il mio, che posso condividere una parola sulla 'bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge'.
Spesso possiamo fare così per quello che siamo e per quello che abbiamo vissuto. Maria Maddalena ha cercato il corpo del Signore con una tenerezza che aveva imparato in una vita segnata, secondo la tradizione, dai propri fallimenti e peccati. Fu questa vita che la preparò ad essere la persona che cercava l'amato e lo riconobbe quando Egli la chiamò per nome. Uno dei doni più preziosi che portate all'Ordine è la vostra vita, con i suoi fallimenti, le sue difficoltà e suoi momenti di buio. Posso perfino guardare indietro a qualche peccato e vederlo come una felix culpa, perché mi ha preparato come persona capace di dire una parola di compassione e di speranza a coloro che vivono la stessa sconfitta. Posso condividere con loro il sorgere del sole.
Per altri aspetti abbiamo bisogno di una formazione alla compassione, una educazione del cuore e della mente che demolisca tutto ciò che in noi è cuore di pietra, presuntuoso, arrogante e pronto a giudicare. Una delle cose più utili che ho fatto durante il mio noviziato piuttosto insolito è stato visitare regolarmente gli stupratori in un carcere locale. Forse sono le persone più disprezzate nella nostra società. La rivelazione fu che realmente non siamo diversi tra noi, possiamo infatti ascoltare insieme il Vangelo. Perciò la nostra formazione deve demolire tutte le nostre difese contro quelli che sono diversi, non graditi, coloro che la nostra società disprezza: i mendicanti, le prostitute, i criminali, il tipo di persone alle quali "La Parola di Dio" ha dedicato il suo tempo. Solo se le nostre mani sono aperte impariamo a ricevere i doni che essi possono darci.
Il predicatore ideale è colui che si fa tutto a tutti (cf 1 Cor 9, 22), perfettamente umano. Nessun Domenicano che io conosca lo è, perciò ci troveremo a dover affrontare i nostri limiti. Per anni sono andato, una sera alla settimana, in un rifugio per i senza tetto a Oxford, a preparare la minestra e a parlare con loro. Però devo confessare che era una cosa che detestavo. Odiavo la puzza, e mi annoiavano gli sproloqui da ubriachi; sapevo che la mia minestra non era un successo e non vedevo l'ora di stare a casa a leggere libri. Eppure adesso non mi pento di quelle ore. Forse, in qualche modo, si sgretolava proprio allora il muro tra me e i miei fratelli e sorelle della strada.
La compassione ricostruirà la nostra vita, secondo vie mai programmate. Quando san Domenico era studente a Palencia, si lasciò toccare dalla compassione per gli affamati e vendette i suoi libri. Rimase nel sud della Francia e fondò l'Ordine solo perché fu mosso a compassione dalla situazione della gente prigioniera di un'eresia distruttiva. Tutta la sua vita fu modellata su risposte a situazioni mai previste. Quest'uomo misericordioso era alla mercé degli altri, vulnerabile ai loro bisogni. Imparare la compassione ci strapperà dalle mani l'esclusivo controllo della nostra vita.
Una parola di vita
'Ho visto il Signore'. E' più che raccontare un evento. Maria Maddalena condivide con i suoi fratelli il trionfo della vita sulla morte, della luce sulle tenebre. E' una parola che porta quell'alba che ella testimoniò 'di buon mattino'.
Caterina da Siena dice a Raimondo da Capua che dobbiamo essere 'facitori e non disfacitori né guastatori'(15). Ci formiamo come predicatori mediante le normali conversazioni che facciamo gli uni con gli altri, con le parole che ci scambiamo in sala comune e nei corridoi. Scopriamo come condividere una parola di vita nelle nostre predicazioni, formandoci come confratelli che offrono l'un all'altro parole che danno speranza, coraggio, edificazione e guarigione. Se siamo persone che abitualmente offrono agli altri parole che feriscono, che sottovalutano, che indeboliscono e distruggono allora, per quanto intelligenti e sapienti, non potremo mai essere dei predicatori. C'è un detto in polacco: "Wystygì mistyk; wynik cynik', che significa: ' Il mistico si è calmato; il risultato è un cinico'. Possiamo anche essere ' i cani del Signore', ma mai cinici. (16)
La parola del predicatore è feconda. Fruttifica. Quando Maria Maddalena incontra Gesù lo scambia per il giardiniere, però non è uno sbaglio, perché Gesù è il nuovo Adamo nel giardino della vita, dove la morte è stata sconfitta e l'albero morto della croce porta frutto. Perciò gli alleati naturali del predicatore sono le persone creative della nostra società. Chi sono coloro che ora faticano per dare un senso all'esperienza contemporanea? Chi sono i pensatori, i filosofi, i poeti e gli artisti, coloro che possono insegnarci una parola creativa per l'oggi? Anch'essi devono aiutare a formarci come predicatori.
Una parola che abbiamo ricevuto
Come possiamo trovare questa parola fresca, compassionevole e creativa? All'inizio di questa lettera ho confessato che quando entrai nell'Ordine temevo che non sarei mai stato capace di predicare. E' una paura che spesso sento ancora. E' imbarazzante per un Domenicano confessare che quando mi viene chiesto di predicare, la mia prima reazione spesso è ancora: 'ma non ho niente da dire'. Ma quello che devi dire ti sarà dato, anche se a volte all'ultimo momento. Per ricevere la parola che ci viene data, dobbiamo imparare l'arte del silenzio. Nello studio e nella preghiera, impariamo ad essere silenziosi e attenti, per ricevere dal Signore quello che Egli ci dà da condividere. 'Quello che ho ricevuto dal Signore, a mia volta ve l'ho trasmesso' (1 Cor 11, 23).
Essere silenziosi è per molti la parte più dura della formazione. Pascal scrisse: 'Ho scoperto che l'infelicità degli esseri umani viene da una sola cosa: non sapere come rimanere tranquilli in una stanza'(17). In ultima analisi il Predicatore deve amare 'i piaceri della solitudine', perché è allora che riceviamo doni. Dobbiamo inchiodarci alla sedia, non per impadronirsi di una conoscenza, ma per essere pronti e vigili quando questa arriva inaspettatamente, come un ladro nella notte. Infine potremo anche giungere ad amare questo silenzio come il centro più profondo della nostra vita domenicana. E' il tempo dei doni, sia che stiamo pregando sia che stiamo studiando.
Questo richiede disciplina. "Veramente Tu sei un Dio nascosto" (Is 45, 15). Per percepire Dio che viene abbiamo bisogno di orecchie fini, come quelle di un cacciatore. Eckhart chiede: 'Dov'è questo Dio, che tutte le creature cercano e dal quale ricevono l'esistenza e la vita? Come un uomo che si nasconde e che tossisce facendosi scoprire, cosi è Dio. Nessuno sarebbe capace di scoprire Dio, se Egli non si fosse rivelato'. Ma Dio è là, tossisce discretamente, dando piccoli segnali a quelli che sono capaci di udire, se stanno in silenzio. Spesso più tardi, nella vostra vita domenicana, sarete sopraffatti dalle richieste del vostro tempo. Ora è il momento per stabilire un'abitudine al silenzio regolare, alla presenza di Dio, a cui dovete aggrapparvi per tutta la vita. Questa può creare la differenza tra una mera sopravvivenza e un fiorire come Domenicano.
Spesso le persone vengono all'Ordine con un entusiasmo nuovo e vivace per condividere la Buona Novella di Gesù Cristo. Forse desiderereste andare per le strade immediatamente, guadagnare il pulpito, condividere con il mondo la vostra scoperta del Vangelo. Può essere motivo di frustrazione entrare nell'Ordine dei Predicatori e poi trovarsi per anni legati a lunghe ore di studio noioso, leggendo aridi libri scritti da uomini morti. Forse desideriamo ardentemente andare per strada a predicare il Vangelo, o essere mandati in missione. Potremmo essere come quei giovani di cui Dostoevskij scrisse nei Fratelli Karamazov, "i quali non capiscono che forse il sacrificio della propria vita, in molti casi, è più facile di tutti gli altri; sacrificare, per esempio, cinque o sei anni della propria vita pieni di fervore giovanile a uno studio duro e difficile, anche solo per aumentare dieci volte tanto le proprie capacità di servire la verità, in modo da portare avanti la grande opera che si ha a cuore, è un sacrificio generalmente al di là delle forze di molti".
E' giusto che, fin dall'inizio, troviamo vie per condividere il Vangelo con gli altri, ma il paziente apprendistato del silenzio è inevitabile se vogliamo comunicare più del solo nostro entusiasmo. La memoria di Domenico era come una "specie di granaio per Dio, traboccante di ogni specie di raccolto"(18). Abbiamo bisogno degli anni di studio per riempire il granaio. E' vero che il Vangelo secondo Matteo (10, 19) ci dice che non dobbiamo pensare prima a quello che diremo, ma Umberto di Romans ricorda a coloro che sono in formazione che questo testo era riferito solo agli Apostoli!(19)
Una parola condivisa
Un anno fa stavo camminando nelle viuzze a Ho-Chi Minh City, in Vietnam, quando mi ritrovai in una piccola piazza, dominata da una statua di San Vincenzo Ferrer. Stando sul piedistallo, sembrava il tipico predicatore, l'oratore solitario innalzato sopra la folla. Potremmo desiderare di essere predicatori così, astri singoli, centro di attenzione e di ammirazione.
La parola del predicatore non è sua. E' una parola che abbiamo ricevuto non solo nel silenzio della preghiera e dello studio, ma anche l'uno dall'altro. Perciò una comunità di predicatori dovrebbe essere tale che in essa si possano condividere le nostre convinzioni più profonde, come Maria Maddalena ha condiviso con i fratelli la sua fede nel Signore risorto. Nel Consiglio Generale ci riuniamo ogni mercoledì per leggere il Vangelo insieme. Le nostre prediche sono frutto delle nostre riflessioni comuni. Le moderne concezioni sui diritti d'autore ci possono rendere possessivi delle nostre idee, e potremmo pensare che se un qualunque confratello le usa commetta un furto. Ma sono i ricchi a credere fermamente nella proprietà privata. Noi condividiamo quello che abbiamo ricevuto e, come frati mendicanti, non dobbiamo vergognarci di mendicare un'idea da qualcuno.
La nostra formazione deve anche prepararci a predicare insieme, in una missione comune. Gesù mandò i suoi discepoli a due a due. E' una tentazione rendere mia proprietà privata un'apostolato e salvaguardarlo gelosamente dagli altri confratelli. E' mia responsabilità, mia cura, mia gloria. Se faccio così, allora forse tutto quello che predico è me stesso. Umberto di Romans ci dice di guardarci dalle persone che 'ritengono che la predicazione sia un'occupazione particolarmente splendida e che mettono in essa tutta la passione perché vogliono essere importanti'(20). Se cediamo a questa tentazione possiamo anche arrivare a pensare che siamo noi la buona novella di cui tutti sono affamati. L'insegnamento più bello che io abbia tenuto è stato quando insegnavo teologia a Oxford con altri due confratelli. Preparavamo insieme il corso e andavamo alle lezioni l'uno dell'altro. Cercavamo di insegnare agli studenti coinvolgendoli nelle nostre conversazioni. L'idea era che entrando nelle nostre conversazioni potevano scoprire la propria voce, piuttosto che essere ricevitori passivi delle istruzioni.
Ogni confratello parla a nome dell'intera comunità. L'esempio più famoso fu all'inizio delle conquiste delle Americhe. Quando Antonio Montesino predicava contro le ingiustizie fatte agli Indiani, le autorità cittadine andarono a denunciarlo al Priore. Ma il Priore rispose che quando Antonio predicava, era l'intera comunità a parlare.
Tutto questo va contro il seme di un individualismo che è caratteristico della modernità e spesso anche dei Domenicani. Effettivamente l'individualismo spesso è stato considerato con un po' di orgoglio come una caratteristica tipicamente domenicana. E' vero che abbiamo una tradizione che coltiva la libertà e l'unicità di ogni confratello. Grazie a Dio. La programmazione di progetti comuni nell'Ordine può essere un incubo. Ma siamo frati predicatori e i nostri confratelli più famosi, anche se spesso sono ritratti da soli, di solito hanno lavorato nella missione comune: Fra Angelico non fu un artista solitario ma addestrò i confratelli nella sua arte, santa Caterina fu circondata da confratelli e consorelle, Bartolomeo de Las Casas lavorò con i suoi confratelli a Salamanca per i diritti degli Indiani. Congar e Chenu sono fioriti come membri di una comunità di teologi. Perfino san Tommaso ebbe bisogno di un gruppo di confratelli per mettere per iscritto le sue parole.
Pertanto la nostra formazione deve liberarci dagli effetti debilitanti dell'individualismo contemporaneo, e deve formarci come fratelli predicatori. Saremo molto più veramente personali e forti se abbiamo il coraggio di fare così. In alcune parti del mondo, più affette dall'individualismo, questa può essere la grande sfida per la vostra generazione: inventare e lanciare nuovi modi di predicazione evangelica insieme. Questo potete farlo. Ci sono tanti giovani in formazione quest'anno, uno su sei confratelli, e più di mille novizie tra le monache e le suore. Insieme potete fare più di quanto possiamo iniziare ad immaginare.
Conclusione
Nel 1217, poco dopo la fondazione dell'Ordine, san Domenico sparpagliò i confratelli, perché 'il grano ammucchiato marcisce'. Li mandò per le loro vie senza soldi, come gli apostoli. Ma un fratello, Giovanni di Navarra, rifiutò di partire per Parigi senza soldi in tasca. Discussero, e finalmente Domenico si arrese e gli diede qualcosa. Questo fatto scandalizzò alcuni confratelli ma forse è una buona immagine della nostra formazione. Non sto dicendo che i vostri formatori devono cedere ad ogni vostra richiesta, ma che la nostra formazione deve essere allo stesso tempo esigente e compassionevole, idealista e realista. Domenico invita Giovanni a essere fiducioso, non di una arrogante fiducia in se stesso, ma fiducioso nel Signore che avrebbe provveduto a lui nel viaggio, e nel fratello che lo mandava. Quando vede che egli non ha fatto ancora un tale cammino, allora ha misericordia di lui.
Prego che la vostra formazione vi aiuti a crescere nella fiducia e nella gioia di Domenico. L'Ordine ha bisogno di giovani, uomini e donne, coraggiosi e gioiosi, che ci aiuteranno a fondare l'Ordine in luoghi nuovi, a rifondarlo in altri, a sviluppare nuovi modi di predicare il Vangelo. Talvolta, come accadde a fra Giovanni, la vostra fiducia può vacillare. Potrete dubitare delle vostre forze per mettervi in viaggio, e perfino se vale la pena di farlo. Possano questi momenti bui e incerti diventare parte della vostra crescita come cristiani, predicatori, fratelli e sorelle. Quando vi sentirete smarriti e incerti, possiate sentire una voce, inaspettatamente vicina, che dice: 'Chi cerchi?'
Il vostro fratello in San Domenico
Fra Timothy Radcliffe OP
Maestro dell'Ordine dei Predicatori
Prot. N° 50/99/398
1. M. Walshe Meister Eckhart Vol. 1 Londra p.46-47 [indietro]
2. Simon Tugwell OP, "Dominican Spirituality" in Compendium di Spiritualità, ed. E De Cea OP, New York 1996, p 144 [indietro]
3. Encounter with Martin Buber Aubrey Hodes Londra 1972, p 217 [indietro]
4. The Dominicans Collegeville 1990 p 236 [indietro]
5. Theodore Zeldon An intimate History of Humanity Londra 1994 p 49 [indietro]
6. Les idées heureuses Parigi 1996 p 24 [indietro]
7. Atti del Processo di Canonizzazione, Bologna, 26 [indietro]
8. Rowan William Open to Judgement Londra 1994 p 248 [indietro]
9. La Promessa di Vita 2.4 [indietro]
10. Lettera a Stefano di Codiponte del 22 maggio 1492 [indietro]
11. Tugwell op. cit. p 145 [indietro]
12. Mary O'Driscoll OP Catherine of Siena: Passion for the Truth, Compassion for Humanity New City 1993 p 48 [indietro]
13. Vitae Fratrum di Gerald de Frachet 82 [indietro]
14. Testimonianza di fra Stefano di Spagna al Processo di Canonizzazione di san Domenico. [indietro]
15. Mary O'Driscoll OP op cit p 48 [indietro]
16. Per favore scusate il gioco di parole, ma cercate l'etimologia di "cinico". [indietro]
17. Pensées no 205 [indietro]
18. Giordano di Sassonia, Libellus 7 [indietro]
19. "Treatise on the Formation of the Preachers" in Early Dominicans: Selected Writings tradotto da Simon Tugwell OP ibid, p 205
20. Early Dominicans op. cit. p 136
Ordine dei Predicatori
Provincia San Tommaso d'Aquino in Italia
Curia Provinciale - Convento Madonna dell’Arco - 80048 Sant’Anastasia (NA)
Tel +39 081.89.99.111 - Fax +39 081.89.99.314 - Mail: info@domenicani.net
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