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lodare, benedire, predicare
LETTERA DEL MAESTRO DELL'ORDINE
Lodare, benedire, predicare
La Missione della Famiglia Domenicana
Manila 2000
Lodare, benedire, predicare
La Missione della Famiglia Domenicana
Manila 2000
Quando mi è stato chiesto di parlare all'Assemblea della Famiglia Domenicana, mi sono sentito veramente molto emozionato. Sono convinto che se riusciremo a condividere una predicazione comune dei vangelo, allora l'intero Ordine sarà rinnovato. Però mi ritenevo molto inadeguato: chi sono io per presentare una panoramica di tale missione comune ? come può un singolo frate, suora, monaca o laico domenicano fare ciò da solo ? Abbiamo bisogno di scoprire questa nuova concezione ascoltandoci insieme l'un l'altro, ed è per questo che siamo qui a Manila. Quindi ho pensato che quello che dovrei fare è ascoltare con voi la Parola di Dio: ogni predicazione inizia con l'ascolto dei Vangelo e poiché noi siamo predicatori della Resurrezione, ho scelto un testo tratto dal Vangelo di Giovanni che si riferisce al Cristo Risorto quando appare ai discepoli.
La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, mentre le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per paura dei Giudei erano chiuse, venne Gesù stette in mezzo a loro e disse: "Pace a voi !". Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. Si rallegrarono i discepoli, vedendo il Signore. Poi disse di nuovo: 'Pace a voi ! Come il Padre ha mandato me, così io mando voi". Detto ciò, alitò su di loro e disse loro: "Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno loro rimessi; a chi non li rimetterete, saranno loro non rimessi".
Giovanni 20, 19‑23
La scena dei discepoli sembra molto lontana dei meeting della Famiglia Domenicana. La abbiamo un piccolo gruppo di discepoli, barricati nella stanza al piano superiore, che non hanno il coraggio di uscire perché hanno paura. E noi invece eccoci qui, a circa 9000 chilometri di distanza e quasi 2000 anni dopo, in questa grande sala di riunioni. Loro erano un piccolo gruppo di Ebrei, e noi in questo meeting siamo 160 persone di 58 nazionalità, insieme ai nostri fratelli e sorelle della Famiglia Domenicana delle Filippine. Loro non osavano mettere il naso fuori dalla stanza, mentre noi siamo venuti qui da ogni parte dei pianeta.
Tuttavia, per molti aspetti, noi siamo proprio come loro. La loro storia è la nostra storia. Anche noi siamo chiusi a chiave nelle nostre stanzette; anche noi abbiamo delle paure che ci imprigionano. Il Cristo Risorto viene anche a noi per aprirci le porte e mandarci, per le strade. Noi pure scopriremo chi siamo come Famiglia Domenicana e qual è la nostra missione non guardando a noi stessi bensì incontrando il Signore Risorto. Anche a noi Lui dice: "Pace a voi", e ci manda a predicare il perdono e la riconciliazione. E questo è il motivo per cui desidero soffermarmi su questo episodio e scoprire che cosa esso ha da dire riguardo alla nostra comune missione. Può sembrare assurdo paragonare il rinnovamento della Famiglia Domenicana con la Resurrezione dai morti, ma per i Cristiani l'intera vita nuova è un prendere parte a questa vittoria. Paolo ci esorta a morire e a risorgere con Cristo ogni giorno; e persino le nostre più insignificanti sconfitte e vittorie si modellano su quei tre giorni, dal Venerdì Santo II Domenica di Pasqua.
La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, mentre le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per paura dei Giudei erano chiuse, ....
I discepoli rimangono chiusi nella stanza al piano di superiore. E' un tempo di attesa, sospeso tra due vite. Le donne sostengono di aver incontrato il Signore Risorto, ma gli uomini non lo hanno visto. Gli uomini sono sempre un po' lenti! Loro hanno visto solo una tomba vuota, ma che cosa significa? La loro vita di un tempo insieme a Gesù non c'è più, quando camminavano con lui verso Gerusalemme ascoltando le sue parabole e condividendo la sua vita. La nuova vita successiva alla Risurrezione non è ancora iniziata. Loro hanno sentito che Gesù è risorto, ma non lo hanno visto faccia a faccia. Quindi aspettano, o tornano alle loro occupazioni di sempre, alla pesca dei pesci. E' un momento di transizione.
In senso più stretto, la Famiglia Domenicana sta vivendo una situazione simile. Fin dalle origini Domenico ha radunato una famiglia di predicatori, uomini e donne, laici e religiosi, contemplativi e predicatori itineranti. A S. Sabina si trovano antiche iscrizioni in cui è nominata la Famiglia Domenicana, e questo essere famiglia è sempre stato un elemento che ci ha caratterizzato. Ma noi adesso sosteniamo che qualcosa di nuovo sta accadendo: in tutto il mondo, suore e laici domenicani rivendicano la loro identità di predicatori. Negli Atti del Capitolo Generale dei frati ci viene detto che questo che stiamo vivendo è un tempo nuovo della nostra storia, e noi affermiamo che tutti i membri della Famiglia Domenicana sono uguali e che tutti condividiamo una stessa missione. Ci sono tanti bei documenti a proposito, ma alcuni di noi sono come i discepoli: fino ad ora non abbiamo ancora notato grandi segni di cambiamento. La maggior parte delle cose sembrano procedere come prima. Veniamo a sapere di nuove straordinarie forme di collaborazione, ma di solito sembrano avvenire altrove e dove noi non siamo presenti! Quindi, forse davvero noi siamo come i discepoli nella stanza al piano superiore: aspettiamo, siamo speranzosi ma perplessi.
Questo quadro rispecchia l'esperienza di tutta la Chiesa del nostro tempo: disponiamo di bellissimi documenti del Concilio Vaticano II in cui si ribadisce la dignità della vocazione laicale, leggiamo le affermazioni relative al ruolo delle donne nella vita e nella missione della Chiesa, abbiamo davanti una nuova immagine della Chiesa vista come l'umanità pellegrina di Dio. Ma alle volte si può avere la sensazione che poco sembra essere veramente cambiato, e in effetti ci sono momenti in cui la Chiesa sembra essere ancora più clericale di prima. Perciò per molti cattolici questo è un tempo in cui sperimentano un'alternanza di sentimenti: speranza e delusione, rinnovamento e frustrazione, gioia e rabbia.
E poi c'è la paura. I discepoli si sono chiusi a chiave nella stanza al piano superiore per paura. E noi, di che cosa abbiamo paura? Quali sono le paure che ci fanno rimanere chiusi in qualche angusto spazietto, restii a provare qualcosa di nuovo? Dobbiamo aver il coraggio di guardare in faccia le paure che ci imprigionano e ci impediscono di buttarci con tutti noi stessi nella missione della Famiglia Domenicana. Forse abbiamo paura di perdere la tradizione che contraddistingue la nostra Congregazione con il suo fondatore, con la sua storia specifica e con le sue narrazioni. Forse abbiamo paura di provare qualcosa di nuovo e poi di fallire. Talvolta i frati si sentono a disagio a lavorare con delle donne, siano pure le loro suore! Talvolta le suore si sentono a disagio a lavorare con degli uomini, siano pure i loro frati! E' più prudente continuare semplicemente a fare quello che abbiamo sempre fatto. Andiamo pure avanti con la solita pesca dei pesci .
Venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse; “Pace a voi!". Detto questo, mostrò loro, le mani e il fianco. Si rallegrarono i discepoli, vedendo il Signore. E' la vista del Cristo ferito che libera i discepoli dalla paura e li rende felici. E' il Cristo ferito che li trasforma in predicatori.
Nessuno può diventare predicatore senza essere ferito. La Parola si è fatta carne, ed è stata ferita e uccisa. Lui era senza potere di fronte al potere del mondo. Lui ha osato essere vulnerabile di fronte a tutto ciò che essi avrebbero potuto fargli. Se siamo predicatori di quella stessa Parola, allora anche noi saremo feriti. Al cuore della predicazione di 5. Caterina da Siena c'era la visione del Cristo ferito, e a lei è stato concesso di prendere parte alle sue ferite. Noi possiamo soffrire solo piccoli mali; essere scherniti o non essere presi sul serio. Possiamo venire torturati, come il nostro fratello Tito de Alencar in Brasile, o uccisi come Pierre Claverie in Algeria e Joaquin Bernardo in Albania e le nostre quattro sorelle nello Zimbabwe durante gli anni settanta. II considerare il Cristo ferito ma vivente ci può liberare dalla paura di venire feriti: possiamo assumercene il rischio perché il male e la morte non hanno in pugno la vittoria.
Quando guardiamo al Cristo ferito, allora diventiamo consapevoli che noi siamo già feriti. Forse siamo stati feriti da bambini per essere cresciuti in famiglie disgregate, o dalla nostra esperienza di vita religiosa, o da sconclusionati tentativi di amare, oppure a causa di conflitti ideologici nella Chiesa, o per il peccato. Ognuno di noi è un predicatore ferito. Ma il bello è che siamo predicatori proprio per il fatto di essere feriti. Gerald Vann era un domenicano inglese tra i più noti scrittori di spiritualità nel mondo di lingua anglosassone fin dalla II Guerra Mondiale. Per tutta la vita lui ha lottato contro l'alcolismo e la depressione: per questo aveva qualcosa da dire. Noi abbiamo parole di speranza e di misericordia perché noi stessi ne abbiamo avuto bisogno. Nella mia libreria ho un libro scritto da un anziano domenicano francese dal titolo "Les Cicatrices?, "Le Cicatrici". In questo libro lui narra come ha conosciuto Cristo attraverso le ferite della vita. Quando me lo ha dato ci ha scritto questa dedica : "A Timothy che sa che le cicatrici possono diventare delle porte per il sole". Ogni ferita che abbiamo può diventare una porta per il sole che sorge. Un confratello mi ha consigliato di parlarvi delle mie ferite, ma temo che per questo dovrete aspettare di leggere le mie memorie.
La cosa più dolorosa per i discepoli è che stanno guardando al Gesù che loro stessi hanno ferito. Lo hanno rinnegato, abbandonato, sono fuggiti. Gli hanno fatto dei male. Gesù non li accusa, fa solo loro vedere le ferite. Dobbiamo renderci conto che anche noi ci siamo feriti gli uni gli altri. Tante sono state le volte in cui ho visto dei confratelli ferire inconsapevolmente gli altri membri della Famiglia Domenicana rivolgendosi a loro con parole di superiorità o non considerando le donne o i laici come loro pari. Ma non solo i frati. Tutti noi abbiamo il potere di far male: il potere di pronunciare parole che feriscono, il potere dei preti sui laici, degli uomini sulle donne e delle donne sugli uomini, dei religiosi sui laici, dei superiori sugli altri membri delle loro comunità, dei ricchi sui poveri, dei sicuri di sé sui paurosi.
E' possibile per noi avere il coraggio di guardare le ferite che abbiamo inflitto e ricevuto e rimanere comunque contenti, perché Cristo è risorto dei morti. Forse zoppichiamo da un piede, ma il Signore ci rende felici. Questa era la gioia di Domenico, e non c'è predicazione della buona novella senza di essa. Tempo fa durante quest'anno, un team di una televisione francese è venuto a S. Sabina per qualche giorno per girare un programma. Prima di partire il direttore mi ha detto: "E' molto strano. In questa comunità parlate di cose serie e tuttavia state sempre tutti a ridere." Siamo dei gioiosi predicatori feriti.
Poi disse di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”. Gesù invia i suoi discepoli fuori dalla sicurezza della loro stanza chiusa. Questo mandato è l'inizio della predicazione. Essere predicatore significa essere mandato da Dio, ma non tutti siamo sempre mandati allo stesso modo: per le suore e per i frati spesso significherà essere letteralmente mandati in un altro posto. I miei confratelli mi hanno mandato a Roma. La mia speranza è che con lo svilupparsi dei movimento dei Volontari si possano vedere laici mandati in altre parti dei mondo per condividere la nostra predicazione, Boliviani nelle Filippine e Filippini in Francia.
Per molti di noi, essere mandati significa dover essere pronti a fare le valigie: ricordo un anziano frate che mi diceva che un fratello non dovrebbe possedere più di quanto non possa portare nelle sue due mani. Quanti di noi possono fare questo ?
Ma per molti membri, della Famiglia Domenicana essere mandati non significa viaggiare. Le monache sono membri del monastero, e normalmente è là che loro stanno per tutta la vita. Molti laici domenicani sono sposati e lavorano, e questo implica che non possono certo alzarsi una mattina e partire. Quindi essere mandati è più che una mobilità fisica. Significa essere "da Dio". E' la nostra essenza. Gesù è "Colui che è mandato" (Eb. 3,1). Lui è mandato dal Padre, ma questo non significa che Gesù lasciò il cielo e arrivò in un altro posto chiamato terra. Il Suo stesso esistere è dal Padre, e l'essere mandato è la Sua essenza, ora e per sempre!
Essere un predicatore significa che ognuno di noi è mandato da Dio a quelli che incontriamo. La moglie è mandata al marito e il marito è mandato alla moglie. Ognuno è una parola di Dio per l'altro. La monaca, pur non potendo uscire dal monastero, è mandata esattamente come un qualsiasi altro fratello. Lei è mandata alle sue sorelle, e l'intero monastero è una parola di Dio per noi. Talvolta accettiamo la nostra missione rimanendo dove siamo ed essendo là una parola di vita.
Una delle mie fraternite di laici preferite si trova nella prigione di Norfolk nel Massachusetts, negli Stati Uniti. I membri di quella fraternita non possono andare da nessuna parte e se ci provano viene loro impedito con la forza; ma in quella prigione loro sono predicatori, mandati per essere parola di speranza in un luogo di sofferenza. Sono mandati come predicatori in un luogo dove la maggior parte di noi non può andare.
Gesù però non solo invia i suoi discepoli fuori della stanza chiusa, ma li riunisce anche in comunità, li manda fino ai confini della terra e comanda loro di essere uno come Lui e il Padre sono uno. Essi sono riuniti in comunità e inviati in missione: io credo che questo paradosso sia un elemento centrale nella vita domenicana. Dopo aver ricevuto la Bolla di conferma dell'Ordine, Domenico ritornò nella sua piccola comunità di Tolosa e disperse i suoi confratelli, cosa la comunità fu divisa subito dopo essere stata fondata. I frati non avevano nessuna voglia di partire, ma per una volta Domenico insistette.
Per Domenico, l'Ordine invia i frati e li riunisce in unità. Siamo inviati a predicare, ma siamo uno perché predichiamo l'unico Regno, del quale tutta l'umanità è chiamata a far parte. Come scrive Paolo, noi predichiamo "un solo corpo e un solo spirito così come siete stati chiamati a una sola speranza; quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti..." (Ef 4,4). Non possiamo predicare il Regno ed essere divisi. Per questa ragione abbiamo sempre combattuto per non essere divisi in Ordini diversi e talvolta riusciamo a resistere per il rotto della cuffia.
Fin dall'inizio, quindi, per noi frati questo è stato il cuore pulsante delle nostre vite, del nostro essere mandati e riuniti nuovamente in unità. E' il respiro dell'Ordine. E il genio di Domenico è stato di dare a questo respiro dei polmoni forti, che sono la nostra forma democratica di governo. Il governo non è semplicemente una forma di amministrazione: esso incarna la spiritualità della missione. Sono i polmoni che espirano alla missione e ci inspirano nella comunità. Nei primi secoli il Capitolo Generale si teneva ogni anno e ogni anno i frati si riunivano a Bologna o a Parigi, e da lì partivano poi verso nuove missioni. Durante tutto l'anno si potevano vedere dei frati per le strade che camminavano verso Bologna o Parigi per incontrarsi nel Capitolo, e poi ripartivano verso nuovi luoghi esotici di missione, come l'Inghilterra!
La Famiglia Domenicana ha diversi modi di essere mandata. Come fare per essere uno? Che tipo di comunione dovremo vivere? Quali sono i nostri polmoni, che ci espirano e ci inspirano nuovamente insieme? Siamo appena all'inizio di questa nostra riflessione. I monasteri delle monache si considerano veramente parte integrante dell'unico Ordine, però ogni monastero conserva la sua preziosa autonomia. Per molti rami della Famiglia l'unità non ha mai rivestito un ruolo troppo importante. Molte Congregazioni di suore sono nate attraverso un processo di divisione, con scissioni come per le cellule. L'unità giuridica non era importante per le nostre suore; con il movimento delle Suore Domenicane Internazionali, esse stanno iniziando a scoprire come le 160 Congregazioni possono collaborare tutte insieme e trovare l'unità. Tuttavia, a livello mondiale non c'è ancora nessuna struttura che riunisca insieme i laici domenicani.
Io credo che dobbiamo iniziare con il trovare una nostra unità nella missione. Siamo mandati insieme a predicare l'unico Regno, nel quale tutta l'umanità è riconciliata. Scopriremo l'unità tra di noi man mano che insieme andremo in missione. Avremo bisogno di nuove strutture per dare vita a questa missione comune, e già stanno emergendo. Il Capitolo Generale di Bologna, due anni fa, ha incoraggiato la Famiglia Domenicana che vive in uno stesso luogo a incontrarsi e a progettare una comune missione. A Città del Messico o a Parigi, per esempio, l'intera Famiglia può incontrarsi per decidere quale sia la nostra missione comune qui. A livello Internazionale il Consiglio Generale dei frati si incontra regolarmente con il gruppo coordinatore del DSI per condividere le urgenze reciproche. Quando fondiamo l'Ordine in nuovi posti, dovremo provare fin dall'inizio a progettare questa nostra nuova presenza come una iniziativa dell'intera Famiglia Domenicana.
Lo scopo di questo meeting non è di definire delle nuove strutture giuridiche: non abbiamo nessuna autorità per fare questo. Nel futuro potremo scoprire insieme quali sono le strutture più adatte alla costruzione dell'unità. Oggi abbiamo il compito molto più fondamentale e importante di scoprire quale possa essere una visione comune della missione: questo è il primo passo verso l'unità. E quindi ritorniamo all'apparizione del Cristo Risorto e vediamo quale visione di missione è qui presentata. Gesù disse ai suoi discepoli: “Io vi mando”
Lui conferisce ai discepoli l'autorità di parlare. Il predicatore non si limita a dare delle informazioni. Noi parliamo con autorità. Se siamo tutti chiamati ad affermare la nostra identità di predicatori, allora dobbiamo riconoscere l'autorità di ognuno nel predicare il Vangelo.
Innanzitutto ciascuno di noi ha l'autorità di predicare in quanto battezzato: questo è evidente nel l'insegnamento della Chiesa: nell' Evangelii Nuntiandi, nella Redemptoris Missio e nella Christifideles Laici. Siamo stati battezzati nella morte e nella risurrezione di Cristo, e quindi la dobbiamo proclamare. Inoltre ciascuno di noi ha un'autorità speciale per essere la persona che è, e per i doni che le sono stati dati. Ciascuno di noi ha una parola da annunciare che non è data a nessun altro. Dio è presente nelle nostre vite, sia da sposati che da celibi o nubili, sia come genitori che come figli. Noi annunciamo una parola di un Dio che è amore sulla base di queste esperienze umane di amore, di vittorie e di sconfitte. Inoltre abbiamo un'autorità derivante dalle nostre competenze e conoscenze: siamo politici e fisici, cuochi o falegnami; siamo insegnati e tassisti, avvocati ed economisti. Ho partecipato ad un incontro a Goias, in Brasile, i cui membri della Famiglia Domenicana erano tutti avvocati e come tal essi avevano una speciale autorità per trattare questioni di giustizia e pace nel Continente.
In ultima istanza l'autorità della nostra predicazione è quella della verità, Veritas. Questa è la verità per la quale gli esseri umani sono creati e che riconoscono istintivamente. Quando padre Luis Munio de Zamora OP redasse la prima regola delle fraternite Domenicane nel tredicesimo secolo, non le invitò solamente a fare penitenza, secondo la tradizione del tempo ma volle che fossero persone della verità, "veri figli di Domenico nel Signore, ricolmi fino all'estremo di solido e ardente zelo per la verità Cattolica, secondo uno stile consono al loro stato di vita". Questa è quella verità che dobbiamo ricercare insieme, in luoghi come l'Aquinas Institute, a St. Louis USA, dove laici domenicani, suore e frati studiano e insegnano insieme. Ricercare può essere doloroso, può portarci ad essere incompresi e persino condannati, come è accaduto al nostro fratello Marie‑Joseph Lagrange. Ma ciò conferisce autorità alle nostre parole e risponde alla sete più profonda dell'umanità.
Suor Christine Mwale dallo Zimbabwe ha parlato di una pentola attorno alla quale si riunisce la famiglia Africana. Questa pentola poggia su tre pietre, che lei ha paragonato alle tre forme di autorità nella Famiglia Domenicana: l'autorità che abbiamo come singoli, l'autorità delegata ai più anziani, e l'autorità del gruppo. Se vogliamo essere veramente una famiglia di predicatori, allora dobbiamo riconoscere l'autorità l'uno dell'altro. Io devo essere aperto all'autorità di una sorella perché lei parla sulla base della verità della sua esperienza di donna, magari anche di insegnate o teologa. Devo dare atto all'autorità di un laico domenicano che conosce tante più cose di me: magari riguardo al matrimonio o a qualche scienza o mestiere. Se riconosceremo l'autorità l'uno dell'altro, allora saremo veramente una Famiglia di predicatori, e insieme potremo trovare un'autorità che nessuno di noi ha come singolo. Dobbiamo trovare la nostra voce insieme.
Per tanti domenicani, la scoperta che tutti noi abbiamo l'autorità di predicare è stata emozionante e liberante, ma l'esclusione delle persone non ordinate dalla predicazione dopo il Vangelo durante l'Eucaristia è profondamente dolorosa per molti, perché è vista come una negazione della loro piena identità di predicatori.
Tutto quello che posso dire è: Non scoraggiatevi. Cogliete al volo ogni occasione per predicare. Creiamo insieme delle nuove occasioni. Sia che siamo d'accordo o no con questa legge, non è questo il nocciolo della questione per noi. La predicazione dal pulpito ha sempre costituito una piccola parte della nostra predicazione e in realtà si potrebbe controbattere che Domenico desiderava che la predicazione del Vangelo fosse fatta al di fuori dei confini della Chiesa e per le strade. Lui voleva annunciare la Parola di Dio là dove sono le persone, dove vivono e studiano, dove discutono e si rilassano. Per noi, la sfida è la predicazione con mezzi nuovi, su internet, attraverso l'arte, in mille modi diversi. Sarebbe paradossale se pensassimo che predicare da un pulpito fosse l'unico modo di proclamare il Vangelo, sarebbe una sorta di fondamentalismo contraria alla creatività di Domenico, sarebbe come un ritorno dentro le mura della chiesa.
Comprendo che questo può sembrare un diversivo, una scusa per privare i laici e le suore di predicare attivamente la parola nel senso stretto del termine. Si potrebbe avere l'impressione che sto dicendo che le persone non‑ordinate devono accontentarsi di una forma più ristretta di predicazione. Ma non è così. L'Ordine dei Predicatori esiste per essere inviato e per condividere la buona novella, specialmente con coloro che non si avvicinano a noi. Facciamo questo in un'incredibile varietà di modi: scriviamo libri, appariamo in televisione, visitiamo gli ammalati. Per quanto dolorosa e non accetta possa essere l'esclusione dal pulpito, non credo che questa sia la questione fondamentale.
Noi siamo tutti "buoni amministratori della multiforme grazia di Dio" (1Pt 4,10), ma in modi diversi. Ognuno di noi ha ricevuto la gratia predicationis, ma in modo differente. I martiri domenicani in Vietnam, in Cina e in Giappone nel diciassettesimo secolo erano uomini e donne, laici e religiosi, tutti predicavano in una straordinaria diversità di modi. S. Domenico Uy era un laico domenicano vietnamita noto come "il Maestro Predicatore", e così ovviamente egli predicava la Parola; Peter Ching era un laico cinese, che partecipò ai dibattiti pubblici nel Fogan per difendere la dottrina cristiana, proprio come Domenico con gli Albigesi, e altri laici Domenicani che furono martirizzati erano catechisti, tavernieri, mercanti e studiosi.
Noi predichiamo il Verbo che si è fatto carne, e quel Verbo di Dio può diventare carne in tutto ciò che noi siamo, non solo in quello che diciamo. S. Francesco di Assisi diceva: "Predica il vangelo in ogni momento. Se necessario, usa le parole !". Dobbiamo diventare parole viventi di verità e di speranza. S. Paolo scrive ai Corinzi: "voi siete una lettera di Cristo redatta da noi, vergata non con inchiostro ma con lo Spirito del Dio vivo, non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne " (2 Cor 3,3). In certe situazioni la parola più efficace può anche essere il silenzio. Mi ha colpito in Giappone come i nostri monasteri siano grandi testimoni del vangelo: i Buddisti possono incontrare Cristo con più potenza nel silenzio delle monache che attraverso qualunque altra nostra parola. Mi vengono in mente le colonie di lebbrosi qui nelle Filippine, dirette dai frati di 5. Martino, che sono l'incarnazione della compassione di Domenico. La Parola diventa anche visibile nella poesia e nella pittura, nela musica e nella danza. Ogni nostra attitudine ci dà modo di diffondere la Parola. Per esempio, Hilary Pepler, un noto editore laico domenicano, scrisse che, "il lavoro dell'editore, come ogni altro lavoro, dovrebbe essere fatto per la gloria di Dio. Il lavoro di un editore è di moltiplicare la parola scritta, quindi l'editore è al servizio del creatore delle parole, e il creatore delle parole è al servizio, ‑ o dovrebbe essere al servizio della Parola che diventa Carne"[1].
Noi non predichiamo questa parola come persone indipendenti una dall'altra, ma come comunità. Christifideles Laici dice che la comunione con Gesù "dà origine alla comunione dei cristiani tra loro ...la comunione e la missione sono profondamente congiunte tra loro" (n.32). Come voi tutti sapete, la comunità di frati era originariamente conosciuta come sacra praedicatio, la santa predicazione. Quando Antonio de Montesinos tenne la sua famosa omelia in difesa degli Indiani a Hispaniola nel 1511, i conquistadores spagnoli andarono a protestare dal priore, Pedro de Cordoba. E il Priore disse loro che quando Antonio predicava, era tutta la comunità che predicava, Noi tutti dovremmo essere le ostetriche gli uni degli altri, per aiutare le nostre sorelle e i nostri fratelli a pronunciare quella parola a loro data. Dobbiamo aiutarci a trovare l'autorità che ci è stata conferita. Insieme siamo una tale parola vivente come non potremmo esserlo mai singolarmente.
Recentemente ho conosciuto un fratello negli Stati Uniti che è stato operato di cancro e ha perso parte della lingua. Ha dovuto imparare a parlare di nuovo, e ha scoperto quanto è complesso articolare anche solo una parola. Abbiamo bisogno di parti del corpo a cui non pensiamo mai: la nostra mente, i polmoni, la gola, le corde vocali, la lingua, i denti e la bocca. Tutte queste sono necessarie per dire semplicemente: "Pace a te! E se siamo chiamati ad annunciare questo a tutto il mondo, allora abbiamo bisogno gli uni degli altri così da poter formare insieme queste parole di vita. Insieme noi siamo quella mente, quei polmoni, quella lingua, quella bocca, quei denti, quelle corde vocali che possono articolare una parola di pace.
Tempo fa quest'anno mi trovavo al meeting della Famiglia Domenicana a Bologna. Qui è sepolto Domenico, ma qui la sua famiglia è viva. C'è un gruppo di laici che lavorano con le suore e i frati in missioni popolari nelle parrocchie. C'è un altro gruppo di laici e di frati amanti della filosofia, i quali hanno individuato la loro missione nel mettersi di fronte al vuoto intellettuale presente nel cuore della vita delle persone: Essi predicano insegnando. C'è anche un gruppo di suore che dirigeva una Università per pensionati e disoccupati. C'è poi una fraternita di laici i quali dicono di voler sostenere la missione degli altri con la preghiera. Non esiste competizione tra questi domenicani.
Nessun gruppo può affermare: "noi siamo veri domenicani" e "gli altri sono cittadini di seconda categoria". Non ci può essere competizione tra monache e suore riguardo a chi è più domenicana. Le fraternite dei laici sono state una parte vitale dell'Ordine domenicano fin dall'inizio e continuano ad esserlo. E' vero che ci sono tanti nuovi gruppi di laici. Come bimbi appena nati, possono aver bisogno di più cure e di essere al centro di maggiore attenzione, ma in nessun modo possono sfidare la posizione delle fraternite al cuore della vita dell'Ordine. Non ci può essere competizione tra noi. Se c'è, allora falliamo nell'incarnare il Vangelo.
Detto ciò, alitò su di loro e disse loro: "Ricevete lo Spirito Santo" Gesù alita sui discepoli. Questo ricorda la creazione dell'umanità quando Dio ha alitato su Adamo e gli ha dato la vita. Gesù alita sui discepoli affinché essi abbiano la pienezza della vita. Questo è il compimento della creazione. Pietro dice a Gesù: "Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6,68). L'obbiettivo della predicazione non è di comunicare parole, ma vita. Il Signore dice a Ezechiele: "Così dice Dio, mio Signore, a queste ossa: Su, ecco, io vi infondo lo spirito e voi rivivrete (37.4f)" . Noi predicatori dovremmo dire parole che fanno rivivere ossa rinsecchite!
Dobbiamo essere onesti e ammettere che la maggior parte della predicazione è molto noiosa e che è più incline a farci dormire che a svegliarci. Perlomeno ci porta a pregare: dopo dieci minuti guardiamo discretamente l'orologio e preghiamo che il predicatore finisca. I domenicani della Colombia dicono: "Cinque minuti per la gente, cinque minuti per i muri, e tutto il resto è per il diavolo". Anche Paolo, il più grande tra tutti i predicatori, è riucito a far addormentare Eutychus, cosi che è caduto dalla finestra ed è quasi morto! Ma alle volte Dio ci dà la grazia di dire parole che danno vita.
Ho incontrato qui nelle Filippine una donna chiamata Clarentia. Aveva contratto la lebbra quando aveva quattordici anni e aveva vissuto tutta la vita in un lebbrosario, vivendo con i nostri frati di S. Martino. A stento osava lasciare questi luoghi dove era accettata e accolta. Ora che è già sulla sessantina, ha scoperto la sua vocazione di predicatrice: ha trovato il coraggio di lasciare la sua "stanza chiusa al piano superiore" per uscire e visitare il lebbrosario incoraggiando le persone che vivono lì a trovare anche loro la libertà; tiene conferenze e si rivolge ad organi governativi. Lei ha trovato la sua voce e la sua autorità. Questo significa dire una parola di vita. Per noi predicatori, tutte le parole sono importanti. Tutte le nostre parole possono donare vita agli altri, o morte. La vocazione di tutti i membri della Famiglia Domenicana è di offrire parole che danno vita. Durante tutta la giornata noi ci offriamo parole: scherziamo e prendiamo in giro, ci scambiamo le informazioni ricevute, facciamo pettegolezzi, ci ripetiamo le notizie e parliamo delle persone che non sono presenti nella stanza. Queste parole offrono vita, o morte, guariscono o feriscono? Quest'anno qualche tempo fa, è stato inviato da questa città, Manila, un virus del computer che si nascondeva in un messaggio chiamato "TI AMO". Ma se questo messaggio veniva aperto, tutti i file del computer erano distrutti. Alle volte le nostre parole sono simili. Possiamo dare l'impressione di essere semplicemente veritieri, giusti e onesti, "ti dico questo solo per il tuo bene, mio caro", mentre in realtà seminiamo veleno!
Un motto dell'Ordine è "Laudare, benedicere, praedicare", "Lodare, benedire, predicare". Diventare un predicatore è più che imparare a parlare di Dio. Significa scoprire l'arte di lodare e di benedire tutto ciò che è buono. Non c'è predicazione senza celebrazione. Non possiamo predicare se non celebriamo e lodiamo la bontà di ciò che Dio ha creato. Talvolta è necessario che il predicatore affronti e denunci l'ingiustizia, così come ha fatto Las Casas, ma solo affinché la vita possa trionfare sulla morte, la resurrezione sulla tomba, la lode sull'accusa.
Quindi noi fioriremo come famiglia di predicatori soltanto se ci fortificheremo l'un l'altro, se ci doniamo vita a vicenda. Dobbiamo alitare il respiro di Dio l'uno nell'altro, così come ha fatto Gesù sui suoi discepoli. S. Caterina era una predicatrice non solo per quello che diceva o scriveva, ma anche perché dava forza agli altri. Quando il Papa si stava scoraggiando, lei ha ritemprato il suo coraggio. Quando il suo amato Raimondo da Capua, Maestro dell'Ordine ha avuto paura, lei lo ha incoraggiato ad andare avanti. Tutti i Maestri dell'Ordine ne hanno bisogno ogni tanto ! Quando un criminale era condannato a morte, lei lo aiutava ad affrontare l'esecuzione. Gli diceva: "Coraggio, mio caro fratello, presto saremo alla festa di nozze ...Non dimenticarlo mai. Io starò ad aspettarti sul luogo dell'esecuzione".[2]
La Famiglia Domenicana in Brasile ha dato vita alla cosiddetta "Mutirao Domenicana". Mutirao significa "lavorare insieme". Ogni anno un piccolo gruppo di frati, suore e laici parte per stare con la gente che lotta per la vita e la giustizia, specialmente con i poveri e i dimenticati. Essi partono unicamente per stare con quella gente, per dare loro sostegno, per ascoltare cosa stanno vivendo, per dimostrare loro che c'è qualcuno che si ricorda di loro. Abbiamo bisogno di questo se vogliamo essere forti.
La maggior parte di noi ha imparato ad essere forte e a diventare una persona umana nella propria famiglia. I nostri genitori e parenti, zie e zii e cugini ci hanno insegnato a parlare e ad ascoltare, a giocare e a ridere, a camminare e a rialzarci quando cadiamo.
Non si può imparare da soli a diventare una persona umana. Forse è per questo che abbiamo sempre considerato l'Ordine come una famiglia, con monache e laici e frati. Domenico era pieno di umanità e predicava un Dio che ha abbracciato la nostra umanità. Abbiamo bisogno che la nostra Famiglia Domenicana ci formi come predicatori pieni di umanità, esultanti in Dio che condivide la nostra umanità, e per formarci come tali predicatori abbiamo bisogno della saggezza delle donne, dell'esperienza delle persone sposate e dei genitori, della profondità di pensiero dei contemplativi.
Quindi tutta la formazione Domenicana dovrebbe essere formazione reciproca: in molte parti del mondo, le novizie e i novizi trascorrono insieme parte della loro formazione.
Spesso sminuiamo drasticamente quanto i nostri laici domenicani possono insegnare agli altri rami della Famiglia Domenicana. Voi, laici, avete una saggezza di cui non sempre noi ci accorgiamo. D'altra parte in molte parti del mondo i laici Domenicani hanno sete di acquisire una completa formazione in teologia e nella spiritualità dell'Ordine che non sempre noi offriamo. Certamente questa è una delle priorità più urgenti dei momento attuale: come possiamo rispondere ?
Le parole finali di Gesù che desidero commentare ci mostrano cosa c'è nel cuore di quella parola di vita. “A chi rimetterete i peccati, sono loro rimessi; a chi non li rimetterete, non saranno rimessi ".
Per due volte Gesù dice ai suoi discepoli: "Pace a voi", e poi conferisce loro il potere di rimettere e ritenere i peccati. Questo è il cuore della nostra predicazione. Durante questa Assemblea è emersa una particolare attenzione riguardo ad un nostro coinvolgimento in Giustizia e Pace come punto focale della nostra missione comune di Famiglia Domenicana. Ad esempio, mi viene in mente la Dominican Peace Action in Gran Bretagna: si tratta di un gruppo di monache, suore, laici e frati che s'impegnano a lavorare insieme per la pace e specialmente per l'abolizione delle armi nucleari attraverso scritti e predicazione e persino scavalcando le leggi.
Ma la predicazione della pace e del perdono è una vocazione che possiamo vivere in molti modi. C'era una brillante giovane pianista francese, una laica Domenicana di nome Maiti Girtanner che nel 1940, durante l'occupazione della Francia da parte dei nazisti, fondò un gruppo di resistenza. Alla fine fu catturata dalla Gestapo e torturata da un giovane medico: il suo sistema nervoso fu distrutto e lei visse nella sofferenza per tutto il resto della sua vita. Quarant'anni dopo il medico si rese conto che prima di morire doveva ottenere il suo perdono e così rintracciò Maiti e le chiese di riconciliarsi con lei. Lei lo perdonò e lui ritornò a casa, capace di guardarsi allo specchio, di affrontare la sua famiglia e la sua morte. Come disse Maiti: "Vous voyez le mal n'est pas le plus fort" "Vedete, il male non è il più forte". Anche questo è un incarnare l'insegnamento di Gesù.
C'è una comunità di frati in Roma che hanno il compito di attendere alle confessioni nella Basilica di S. Maria Maggiore. Ogni giorno per ore, specialmente durante quest'anno giubilare, loro sono (ì ad offrire il perdono di Dio in innumerevoli lingue. Questi sono tutti modi diversi di predicare le parole: "Pace a voi". Ma non possiamo predicare, quella pace se non la viviamo tra noi; quando i frati e le suore fanno professione chiedono la misericordia di Dio e dell'Ordine. Non possiamo avere niente da dire sul perdono e la pace se non ce li offriamo a vicenda.
Quando scoppiò la guerra tra Argentina e Gran Bretagna nelle Isole Maldive nel 1982, noi frati della comunità di Oxford uscimmo per le strade con l'abito portando delle candele e andammo in processione al monumento dei caduti in guerra a pregare per la pace. L'anno scorso mi sono trovato in Argentina proprio nella "giornata delle Maldive" in cui la nazione rinnova il suo impegno nei confronti di queste Isole. Ero nel Tucuman, nella parte nord del paese, e le strade erano piene di bandiere dell'Argentina e di striscioni. Devo confessare che mi sono chiesto se in effetti avessi scelto il giorno giusto per arrivare! Nel pomeriggio sono andato ad un incontro di un migliaio di membri della Famiglia Domenicana, e c'era anche una piccola bandierina inglese
Così abbiamo celebrato l'Eucaristia insieme per tutti i morti, argentini e inglesi. La pace che predichiamo è una pace che dobbiamo vivere.
Nel nord del Burundi c'è un monastero di monache Domenicane. Tutta la zona circostante è stata distrutta dalla violenta guerra civile tra i Tutzi e gli Hutu. In ogni parte i villaggi sono deserti e i campi bruciati. Ma quando ti avvicini alla collina su cui sorge il monastero, vedi che c'è verde intorno e la gente va lì a coltivare i propri campi. In questo deserto di guerra quella è un'oasi di pace ed è tale perché le monache stesse vivono in pace tra di loro pur essendo Tutsi e Hutu insieme. Ognuna di loro ha perso alcuni familiari nella guerra. Nella loro comunità la pace e il perdono si sono fatti carne.
Questa pace che noi dovremo condividere è molto più che un'assenza di conflitti, è più che un perdonarci a vicenda quando sbagliamo: è quell'amicizia che è il cuore della spiritualità Domenicana. Prima di morire Gesù ha detto ai suoi discepoli: "Vi chiamo amici". Tre giorni più tardi, dopo il tradimento, il rinnegamento, la sofferenza e la morte, lui appare tra loro e offre nuovamente la sua amicizia, "Pace a voi". Questa è un'amicizia che trascende ogni tradimento, codardia o peccato. E' un'amicizia che è la vita stessa di Dio, è l'amore nel cuore della Trinità.
Questa amicizia è alla base della nostra uguaglianza reciproca. Essa significa che tutti noi apparteniamo in uguale misura alla Famiglia Domenicana, la Famiglia Domenicana è la nostra casa comune. Siamo chiamati ad essere chez nous, nella nostra casa. Talvolta le suore e i laici possono avere l'impressione che nella nostra casa domenicana i frati stiano nelle stanza al piano superiore e che abbiano tentato di chiudere fuori tutti gli altri. Una delle nostre più grandi sfide è quella di acquisire una condivisa presa di coscienza che l'Ordine è il posto a cui tutti apparteniamo.
Sentirsi a casa significa che uno non deve giustificarsi per il fatto di essere lì, ma che si sente a suo agio. Ciascuno è accettato semplicemente per quello che è, e noi questo lo riveliamo nelle nostre espressioni, nei gesti e nelle parole, nell'accoglienza che abbiamo gli uni nei confronti degli altri. Naturalmente ogni comunità ha bisogno dei suoi spazi e dei suoi tempi, non possiamo tutti piombare nei monasteri e pretendere di condividere la vita delle monache. Le comunità di frati e di suore e le famiglie dei laici hanno bisogno di una loro intimità.
Diverse piccole tensioni nell'ambito della Famiglia Domenicana, come certe discussioni su chi può mettere determinati titoli dopo il nome o su chi può portare l'abito e quando, sono sintomi di un anelito molto più profondo di amicizia, di casa, di appartenenza, di avere il proprio posto sicuro al tavolo attorno alla pentola. Nel passato eravamo soliti appartenere al Primo, Secondo e Terzo Ordine. Questa terminologia è stata abolita dal Capitolo Generale di River Forest nel 1968 per rendere la nostra uguaglianza manifesta a tutti. Non c'è nessuno di prima, seconda o terza categoria. Ma nel fare ciò abbiamo perso un modo per dichiarare la nostra unità in un Ordine comune. Dobbiamo trovare insieme dei modi per costruire questa casa comune.
E dovrà essere una casa aperta, che accoglie gli amici dei nostri amici, che accoglie nuovi gruppi la cui identità Domenicana non è forse definita ma che vogliono far parte della Famiglia. L'amicizia che Gesù offre è ampia e aperta. Lui accoglie tutti. Lui perde la pazienza quando i discepoli provano a impedire a qualcun altro di predicare perché non fa parte del gruppo dei discepoli. Lui non chiude le porte ma le sfonda. Impegniamoci ad incarnare quest'amicizia di chi ha un cuore grande, che è la magnanimità d'animo di Domenico, vediamo di essere un segno di quell'accoglienza, così che tutti possiamo trovarci a nostro agio nella Famiglia di Domenico.
Possa Domenico liberarci dalla paura che ci fa chiudere le porte.
Fr. Timothy Radcliffe OP
Maestro dell'Ordine
Maestro dell'Ordine
Ordine dei Predicatori
Provincia San Tommaso d'Aquino in Italia
Curia Provinciale - Convento Madonna dell’Arco - 80048 Sant’Anastasia (NA)
Tel +39 081.89.99.111 - Fax +39 081.89.99.314 - Mail: info@domenicani.net
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