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predicazione....finiamola con la noia
PREDICAZIONE
Finiamola con la noia
Finiamola con la noia
Timothy Radcliffe
Paul Janowiak, basandosi sulla teologia di Semmelroth, Rahner e Schillebeeckx, fa risaltare il legame di fondo tra la proclamazione della Parola di Dio, la predicazione dell'omelia, e la consacrazione del pane e del vino. Come scrive Schillebeeckx, "tutta la celebrazione eucaristica è un servizio della Parola, e l'Eucaristia nel suo complesso è un evento sacramentale". La predicazione non è solo un insegnamento riguardo al Vangelo: essa è parte integrante dell'evento. Partendo da alcune osservazioni personali, vorrei proporvi un approccio complementare.
Dobbiamo riconoscere che la predicazione non ottiene sempre l'effetto voluto: non di rado essa addormenta il popolo di Dio, o lo spinge a pregare perché il predicatore la smetta! Come possiamo elaborare delle teologie della sacramentalità della Parola, quando molte omelie sono così noiose? Non parlo soltanto delle omelie di domenicani o anche di gesuiti. Una delle definizioni della parola "predicare", nel dizionario Webster, è: "dare un consiglio religioso o morale in modo noioso".
La noia collegata alla predicazione è stata una sfida per il popolo di Dio fin dagli inizi. San Paolo stesso poteva parlare con un tono così monotono che, ascoltandolo, Eutiche si addormentò e ne morì. Una consolazione nei momenti di dubbio! Cesare d'Arles predicava raramente, ma quando succedeva, bisognava chiudere a chiave le porte per impedire ai fedeli di sottrarsi al supplizio. Anch'io ho chiesto che si chiudessero le porte di questa sala, stamani, ma gli organizzatori hanno rifiutato! John Donne, predicatore e poeta anglicano, affermava che le prediche dei Puritani erano tanto lunghe perché essi aspettavano il risveglio dell'assemblea.
Tutta la storia della Chiesa è punteggiata da gravi crisi relative alla predicazione. I domenicani, come i gesuiti, sono stati fondati per reagire a crisi di questo genere. Il XIII e il XVI sec. sono stati periodi dì trasformazione sociale profonda che hanno visto emergere nuovi modi di essere, nuovi problemi, nuove aspirazioni: il predicatore ha dovuto adattarvisi.
Oggi siamo davanti ad una nuova crisi. Semmelroth, Rahner e Schillebeeckx hanno delle bellissime teologie della sacramentalità della Parola, ma dobbiamo riconoscere che le nostre parole non toccano sempre i cuori di quelli che ci ascoltano in quest'inizio del XXI secolo.
Perché questo, e che dobbiamo fare? Domenico e Ignazio hanno reagito fondando nuovi Ordini religiosi. Rassicuratevi: non vi proporrò di fondarne uno nuovo! Proverò a rispondere alla domanda prendendo in considerazione la Cena, l'ultimo pasto del Cristo. Quale fu la sua dinamica? Perché fu un evento trasformatore? Cosa vogliamo dire affermando che la parola predicata è portatrice della stessa forza e dello stesso dinamismo? Come commuovere i nostri contemporanei? Che cosa può ostacolare, oggi, l'ascolto della Parola?
In quell'ultimo pasto del Cristo, ci sono tre momenti dei quali dovremmo trovare l'eco nella predicazione della Chiesa: 1) Gesù awicina i suoi discepoli nelle loro difficoltà e nei loro smarrimenti personali. 2) Li riunisce in comunità. 3) Apre questa comunità alla pienezza del Regno. Questi tre momenti fanno della Cena un evento che trasforma, un "happening". Dobbiamo ritrovare questa dinamica nella predicazione della Chiesa, se vogliamo che la sua Parola sia sacramentale. Se no, avremo una bellissima teologia della predicazione, ma una predicazione morta.
Cominciare dal silenzio
Possiamo fingere di credere che il popolo di Dio riunito per l'Eucaristia sia una comunità viva, unita, desiderosa di ascoltare la predicazione del Vangelo. La realtà è un'altra. La cultura occidentale è diventata molto individualista. Le parrocchie non coincidono con delle comunità naturali, soprattutto nelle grandi città: le persone riunite per l'Eucaristia non si conoscono e non sentono un gran desiderio di conoscersi. In un mondo sempre più secolarizzato, le parole dei Vangelo e l'insegnamentodella Chiesa sono spesso incomprensibili. Per tuffo questo, la parrocchia attuale assomiglia alla comunità dei discepoli riuniti intorno a Gesù, la sera della Cena.
I discepoli sono turbati e interrogano Gesù: "Signore, perché mi lavi i piedi?", "Signore, dove vai?", "Mostraci il Padre e saremo contenti". Dicono fra loro: "Non sappiamo cosa vuol dire" (Gv 16,181. Di cosa parla? In più, i discepoli sono profondamente divisi; la loro comunità sta per sciogliersi: Giuda ha già venduto Gesù; Pietro lo rinnegherà fra qualche ora; la maggior parte degli altri fuggirà. In mezzo a loro, Gesù affronta tuffo ciò che divide e distrugge la comunità umana: la paura, la cupidigia, l'odio, la sofferenza, la morte. Non è una bella comunità!
Karl Barth parla del grande Sì, al cuore della musica di Mozart, e dice che esso trae la sua forza dal fatto che contiene e domina un No. Si può dire la stessa cosa dell'ultima Cena. La forza della nuova alleanza che Gesù fa intervenire quella sera, si trova proprio nel fatto che essa abbraccia tuffo quello che la contraddice, il grande No dell'umanità a Dio. Si tratta dunque di una storia che tiene conto di tuffi i nostri turbamenti e le nostre incomprensioni nei riguardi di Gesù, tutto ciò che divide la comunità umana, tutto il peccato e i fallimenti che deturpano le nostre vite normali. In quell'istante, il SI di Dio abbraccia e riconosce ogni possibile No.
Così, anche noi dobbiamo accettare la sfida di scoprire e di affrontare il No della società nella quale dobbiamo parlare. Per i domenicani, nella nuova società urbana e democratica del XIII sec., la predicazione doveva uscire dai monasteri e dalle cattedrali. Si doveva portare la parola nelle università e sui mercati, abbandonare la protezione del chiostro e dividere la vita con la gente. Il Beato Giordano di Rivalto, uno dei primi domenicani, diceva che non ci si doveva lamentare troppo del comportamento dei giovani frati: "Stando nel mondo, è impossibile per loro non sporcarsi un po'. Sono uomini di carne e di sangue come voi, e nella freschezza della loro gioventù". Ed essere predicatore presuppone una certa solidarietà con i peccatori. Umberto di Romans, poi, diceva che era proprio questo il vantaggio della vocazione di predicatore!
Nel XVI sec. la crisi che contribuì alla fondazione della Compagnia di Gesù, era dovuta alla sclerosi scolastica. Le Costituzioni della Compagnia ordinano che la predicazione si guardi dallo stile scolastico e non sia né "arida", né "teorica". In altre parole: "Non predicate come i domenicani!". Serviva una forma nuova di predicazione, capace di portare alla conversione del cuore. Nel nome stesso di "Compagnia di Gesù" si è concretizzato un modo nuovo di concepire il nostro rapporto con Gesù. La predicazione si adattava all'emergere dell'individuo, di cui sarà un bell'esempio quel prodotto dell'educazione gesuita che fu Descartes. Ignazio, infatti, mandava i suoi compagni "incontro ad ogni singolo individuo", "entrando dalla loro porta, per poi uscire dalla nostra". Uscire, andare a "pescare", parlare con la gente, rispondere alle sue domande. Alla sequela di Domenico e di Ignazio, dobbiamo cominciare da ciò che separa dal Vangelo. Partire accogliendo il No, l'incomprensione, prima di predicare il Sì.
Come può la nostra predicazione tener conto dei dubbi e dei problemi della nostra generazione e nello stesso tempo offrire una parola forte? La cultura mondiale dei consumi, cultura di mercato, esercita un'influenza molto più radicale e universale di quanto i fondatori dei nostri Ordini hanno dovuto affrontare. Il trionfo di quest'ordine culturale ed economico è tale che nessuno, o quasi, può sfuggirvi. Esso ha pervertito quasi tutte le culture locali. Corrompe gli spiriti e i cuori delle nostre comunità cristiane. Colpisce noi, predicatori, uomini e donne del nostro
tempo. Non dico che questo sia peggiore di ciò che c'era prima.
Non voglio prendermela con la modernità. Ma la cancellazione della cultura cristiana ci obbliga a farci carico in modo radicale dei dubbi, delle domande e dei fallimenti dei nostri contemporanei. La tentazione del predicatore sta nel credere di conoscere le risposte fin dall'inizio e di elargire la ricchezza delle sue conoscenze e della sua perizia. Dobbiamo resistere a questa tentazione. Dobbiamo riconoscerci come i discepoli intorno alla tavola dell'Ultima Cena, imbarazzati, confusi e inquieti per quello che sta succedendo. Dobbiamo lasciare che il Vangelo ci riduca al silenzio, resistendo al nostro istinto di possederlo. Dobbiamo mendicare un'illuminazione, dobbiamo diventare mendicanti di una parola. La nostra sarà forse una predica qualunque. La maggior parte di noi ha cinque o sei temi che sì adattano a un sermone su qualsiasi testo del Vangelo. Ma quello stesso vecchio sermone diventerà un dono, con un tocco di sorpresa e di freschezza.
Tutti i Vangeli cominciano cc! silenzio: Luca col silenzio stupito di Zaccaria; Matteo col silenzio interrogativo di Giuseppe; Marco col silenzio del deserto, e Giovanni con quel silenzio originario da cui nasce la Parola. Anche il nostro annuncio della Buona Novella deve cominciare con il silenzio.
Riunire
Nella dinamica dell'Ultima Cena, la seconda parte è la riunione dei discepoli in una comunità di comunione. E' chiarissimo nel Vangelo di Giovanni. Gesù dà loro un nuovo comandamento: essi devono amarsi l'un l'altro; egli li chiama suoi amici; promette loro che saranno presto una cosa sola, come lui e suo Padre sono una cosa sola. Così le nostre parole sono sacramentali quando portano ad una comunione.
Un domenicano francese che celebrava un funerale dopo la seconda guerra mondiale, si accorse che tuffi i partigiani erano seduti da una parte e i collaborazionisti dall'altra. Il feretro era nel mezzo. Egli rifiutò di celebrare l'Eucaristia prima che gli uni e gli altri passassero dall'altra parte per abbracciarsi. Fin dai primi tempi dell'Ordine, la predicazione è stata associata alla riconciliazione e alla pace. I francescani e i domenicani erano artigiani della pace che predicavano quella che è stata chiamata "la Grande Devozione" nel 1233. Spesso, il punto culminante di un sermone era il bacio della pace rituale tra nemici. E' proprio come predicatori che hanno ordinato la liberazione dei prigionieri, la remissione dei debiti e la riconciliazione dei nemici. La parola predicata instaura una comunione. E' questa la sua forza sacramentale.
La mia più forte esperienza a questo proposito, ebbe luogo in Argentina. Dovevo predicare alla Famiglia domenicana e non mi ero reso conto che era il giorno delle isole Malvine, giorno in cui tutta l'Argentina giura di recuperare quelle isole perdute. Le strade erano piene di bandiere argentine. Ma i miei confratelli mi avevano portato una piccola bandiera inglese! Per caso, avevo scelto di parlare della non-violenza. Ho concelebrato con il Provinciale dell'Argentina e abbiamo pregato per tuffi i morti. E' stato un momento di grazia, di guarigione profonda.
Come può la nostra predicazione riunire nel segno della comunione? Prima di tutto dicendo la verità. Nell'Ultima Cena Gesù dice la verità agli apostoli. Uno di loro lo tradirà; tutti fuggiranno e saranno dispersi; egli soffrirà e morirà; egli risusciterà ed essi riceveranno lo Spirito Santo.
"Perché vi ho detto questo, la tristezza riempie i vostri cuori. Ciò non di meno io vi dico la verità" (Gv 16,61, "Santificali nella verità: la Tua parola è verità" (Gv 17,17). Non esiste comunione senza verità. Solo nella verità ci incontriamo faccia a faccia.
Il predicatore, prima di tuffo, deve dire la verità sull'esperienza umana, la sua gioia, la sua sofferenza. Questa esperienza è simboleggiata dal pane e dal vino che noi portiamo all'altare: "Pensate all'oppressione, allo sfruttamento, all'inquinamento dell'uomo e della natura che accompagnano il pane, a tuffa l'amarezza della concorrenza e delle lotte di classe, all'egoismo, all'aberrazione della distribuzione mondiale dei beni, all'abbondanza di alcuni e alla povertà dei più. E anche il vino, frutto della vigna e del lavoro dell'uomo, il vino delle vacanze e delle nozze ... Il vino è anche la bottiglia, uno dei più tragici strumenti della degradazione umana: ubriachezza, famiglie spezzate, vizio, debiti. Il Cristo s'incarna in quel pane e in quel vino; e riesce a dar loro un senso, ad umanizzarli. Niente di tuffo ciò che è umano gli è estraneo. Se noi portiamo del pane e del vino alla tavola del Signore, ci impegniamo anche a portare a Dio tutto ciò che il pane e il vino significano, tuffo ciò che è spezzato e senza amore. Ci coinvolgiamo noi stessi nel dolore e nella gioia del mondo". Questo dice Geoffrey Preston o.p.. Dobbiamo dire le cose come sono. La gente ritrova nelle nostre parole la sua vita? Le nostre assemblee sono composte da giovani che lottano con i loro ormoni e gli insegnamenti della Chiesa, da coppie sposate in piena crisi, da divorziati, da anziani che devono accettare il pensionamento, da omosessuali che si sentono emarginati dalla Chiesa, da persone malate o moribonde. La loro sofferenza e la loro felicità trovano posto nelle nostre parole? Riconoscono la loro esperienza in ciò che diciamo?
Credo che la crisi della predicazione oggi sia una crisi di verità. Noi abbiamo paura di affrontare la complessità dell'esistenza umana. Abbiamo paura del confronto fra l'esperienza umana e il Vangelo o l'insegnamento della Chiesa. Se realmente noi facciamo posto alle gioie e alle sofferenze degli uomini, le parole facili verranno da sole. Il nostro linguaggio ecclesiastico ci sembrerà falso. Certo, rischiamo di trovarci coinvolti in dibattiti difficili, mescolati a controversie che dividono la comunità. Rischiamo di aprire i "vasi di Pandora", di essere accusati di "scuotere la barca" e, di conseguenza, saremo tentati di non parlare. In questo caso perderemo anche la verità coraggiosa delle prime predicazioni, la parresiadegli apostoli (At 4,29; 28,31). Si tratta del vero significato delle nostre vite. Gesù dice ai discepoli: "Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno conservato la mia parola, conserveranno anche la vostra". Far succedere alla parola le gioie e le pene del popolo di Dio vuol dire riconoscere il Cristo che vive e muore in loro.
Secondo quanto dice Mary Catherine Hilkert o.p., dobbiamo chiamare con il loro nome la grazia e la disgrazia che operano nel mondo.
Se noi misuriamo ciò che diciamo sulla realtà di ciò che vive la gente, le nostre omelie saranno più modeste. Correranno meno il rischio di far sorridere interiormente quelli che ci ascoltano. Temo affermazioni di questo tipo: "Le coppie sposate che vivono un'unità completa e un amore perfetto, esprimono l'amore del Cristo". Veramente? Chiedetelo!
Le nostre parole saranno tanto più forti quanto meno diranno. Noi parliamo troppo perché non ascoltiamo abbastanza. Come scrive Barbara BrownTaylor: "In un'epoca di carestia caratterizzata da troppe parole, cariche di troppo rumore, potremmo utilizzare meno parole che sarebbero cariche di più silenzio". Le parole della storia vanno trovate presso gli altri. La nostra predicazione deve essere il frutto dei nostri scambi. Quelli che ascoltano devono riconoscere l'eco della loro voce.
Wittgenstein ha scritto che "immaginare una nuova lingua significa immaginare una nuova forma di esistenza". Esiste vita comune solo dove c'è una lingua comune, Quando un uomo e sua moglie vivono insieme da molti anni, condividono uno stesso vocabolario, un tesoro di storie e di ricordi. Sviluppano un loro dialetto proprio. Questa lingua è il frutto della loro comunione. I domenicani e i gesuiti fanno lo stesso. Da Tokyo all'Amazzonia ho scoperto una comunione con i miei confratelli per il modo con cui parliamo. Il predicatore riunisce le persone in comunione tentando d'inventare con loro un linguaggio comune: un linguaggio che risuona delle loro parole, delle loro esperienze e delle loro storie.
Nei sermoni di Sant'Agostino, lo vediamo alle prese con l'assemblea dei fedeli. Egli li tratta male, scherza, li provoca; essi applaudono o rumoreggiano. I loro incoraggiamenti lo sostengono. A volte, prevedendo le loro reazioni, egli si fa pregare, rifiuta di predicare. Tra di loro comincia a nascere un linguaggio comune. Sono come marito e moglie che inventano il loro linguaggio comune. John Donne diceva che "il vero insegnamento viene facendo l'amore con l'assemblea e con ogni anima che ne fa parte". Le nostre parole saranno sacramentali solo se nascono da questi scambi, da un atto d'amore. Dobbiamo rivolgerci particolarmente a quelli che abitualmente non sono ascoltati, per far loro posto. Nelle nostre assemblee, «chi sono le persone silenziose? Spesso si tratta di donne odi persone appartenenti a una minoranza etnica. Parliamo di loro? Parliamo a loro?
Rivolgersi verso il Regno
Veniamo ora all'ultimo atto della Cena. Gesù guarda all'avvenire e al Regno. La versione dell'ultima Cena che ci dà Giovanni è paradossale. Da un lato è il frutto dell'esperienza che Cristo vivecon i suoi discepoli, il momento dell'intimità condivisa. Ma, nello stesso tempo, è la fine della loro vita comunitaria. I suoi amici sono sul punto di perderLo: non potranno mai più sedere alla stessa tavola, bere e mangiare con Lui e, quando incontreranno il Cristo risuscitato, li manderà in giro per il mondo. Riunione e dispersione. Così, nella dinamica della nuova alleanza, questa cena è un inizio e una fine.
Questo paradosso segna ogni Eucaristia. Riunita intorno all'altare, la comunità è un segno del Regno. Noi siamo amici di Dio, inscritti in Lui. Ma questa stessa Eucaristia ci sfida a far cadere le mura che circondano la nostra piccola comunità, per accogliere quelli che ne sono esclusi. Si tratta di una tensione che caratterizzerà ogni nostra Eucaristia fino all'avvento del Regno, quando i sacramenti avranno cessato di esistere e la Chiesa non esisterà più.
La nostra predicazione sarà forte, sacramentale se sarà caratterizzata da questa stessa tensione. Abbiamo detto che il predicatore costruisce la comunità, riunisce i dispersi e quelli che si sono perduti. D'altro canto, egli la provoca, ricordandole il suo potere di esclusione. Essa è un sacramento del Regno, ma è proprio in quanto tale, tenuto conto del carattere universale del Regno, che viene rimessa continuamente in causa. Il predicatore invita a trovare un'identità in seno alla Chiesa, poi sowerte ogni identità: fu il dramma della chiesa ebrea nei suoi primi anni. Essa era appena nata e già doveva perdere la sua identità accogliendo i non-ebrei. Trecento anni più tardi, la Chiesa, finalmente, era stata accettata come romana, e dovette perdere questa identità per accogliere i barbari. Questo dramma si ripete lungo tuffo il corso della storia della Chiesa. Nel momento stesso in cui facciamo della Chiesa la nostra calda intimità, dobbiamo aprire le sue porte agli stranieri. E' il dramma sempre rinnovato della predicazione. Pensiamo alla storia dei primi conquistatori spagnoli delle Americhe: per loro, cristiani lontani dalla loro terra d'origine, l'Eucaristia era l'espressione più profonda della loro identità. Ma la I domenica d'Avvento del 1511, il domenicano Antonio Montesinos rimise in discussione questa identità: non capite che gli indigeni che voi fate schiavi sono vostri fratelli e sorelle in Cristo? Non sono esseri umani come voi? Non hanno forse un'anima razionale? Con quale diritto li combattete? Non avete il dovere di amarli come voi stessi?... I suoi compatrioti trovarono la sua predicazione sowersiva e, per loro, distruttiva.
E' così: fino all'awento del Regno, ogni identità è prowisoria.
Ma non è tutto. Il predicatore si rivolge verso il Regno, verso "ciò che l'occhio non ha mai visto, l'orecchio non ha mai udito, ciò che nasce nel cuore dell'uomo, tutto ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano" (1Cor 2,91. Qui, non c'è possibilità di chiarezza. Egli predica qualcosa che è al di là delle nostre parole. Sta alle frontiere del linguaggio, tocca un territorio in cui il linguaggio non basta più. La verità, allora, esige non coraggio, ma umiltà. Il mistero eccede le nostre parole, come dice Herbert McCabe o.p.: "Il nostro linguaggio non può dire, ma soltanto tendere verso il mistero del nostro incontro con Cristo... I teologi si servono di una parola, portandola fino al punto di rottura, e solo lì, eventualmente, ci può essere comunicazione".
E' questo il compito della poesia, cosa che spiega perché i più grandi predicatori sono sempre stati dei poeti. I poeti vivono ai limiti di ciò che può essere detto, alle frontiere del linguaggio.
Senza dubbio ecco una nuova ragione dell'attuale crisi della predicazione. L'immaginazione poetica è emarginata nella nostra cultura prevalentemente scientifica. Nella maggior parte delle società tradizionali, la poesia, i miti, il canto e la musica erano il centro della cultura. Nella nostra società sono ridotti al rango di divertimenti. La fame dì trascendenza abita sempre il cuore dell'uomo. Come diceva Sant'Agostino, esso non trova riposo finché non dimora in Dio. Ma è più difficile oggi, per il predicatore, evocare questo orizzonte che trascende le nostre parole. Pochi predicatori sono dei poeti. lo non lo sono. Ma se desideriamo veder progredire la predicazione della Parola, abbiamo bisogno di poeti e di artisti, di cantanti edi musicisti che mantengano viva l'intuizione di ciò a cui siamo destinati.
Ho chiesto a molta gente qual era il sermone più bello di tuffo il XX secolo, e un gran
numero di persone ha risposto immediatamente che era il ben noto discorso di Martin Luther King: "Ho fatto un sogno". Era molto più di un manifesto politico; rimandava a una visione escatologica della pace universale, di "quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: 'Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente-.
Non era una predica, ma ha infuso forza a migliaia di prediche. Chi possiede le parole che ci aprono al trascendente? Soprattutto dopo I'll settembre, in un mondo a rischio di esplodere, noi abbiamo bisogno di poeti, di cantanti del trascendente. Abbiamo bisogno di artisti che possano guidarci al limite di ciò che può essere espresso.
Questi tre tempi del dramma dell'Ultima Cena che dobbiamo meditare per la predicazione, sono tempi di respirazione. Dobbiamo rivolgerci alle persone, riunirle e, dopo, aprirci al Regno, come dei polmoni che si riempiono, si vuotano e si riempiono ancora. La storia dell'umanità è quella della respirazione, dal dono del respiro fatto a Adamo, all'ultimo respiro di Cristo sulla Croce, fino al respiro in noi dello Spirito Santo. La nostra predicazione sarà sacramentale, efficace, se respira al ritmo dell'umanità, raccogliendo e inviando, per darci la vita e l'ossigeno di cui il nostro sangue ha bisogno.
Osserviamo, per finire, che l'evento drammatico dell'Ultima Cena porta dal silenzio dell'incomprensione al silenzio del mistero, da un silenzio vuoto, a un silenzio pieno. Passiamo dal silenzio dei discepoli che non capiscono niente al silenzio di quelli che non trovano parole per dire ciò che hanno intravisto. Il predicare abita in questo spazio, mendicando parole. E' il dono della grazia di Dio, che i primi domenicani chiamavano grafia praedicationis, che ci fa andare dal silenzio della povertà a questo pleroma.
Da Etudes, Gennaio 2003, pp. 63-73 (traduzione dal francese di Donatella Coppi)
Ordine dei Predicatori
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