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voi siete tutti fratelli
LETTERA DEL MAESTRO DELL’ORDINE
“Voi siete tutti fratelli”
(Mt 23,8b)
“Voi siete tutti fratelli”
(Mt 23,8b)
Miei cari fratelli, collaboratori di Dio nel vangelo di Cristo (cf. 1Ts 3,2).
Prima di concludere il mandato, che mi avete affidato, vorrei riflettere su un aspetto centrale della nostra vocazione: siamo frati, siamo fratelli. Indirizzando questa lettera specialmente ai frati, sono sicuro che anche le mie sorelle contemplative, le religiose ed i laici della Famiglia Domenicana leggeranno queste pagine applicandole alla propria vita e missione.
Vi confesso che pensando a questa predicazione, all’inizio volevo fuggire nella direzione opposta come un nuovo Giona. Tuttavia, meditando sugli aspetti provvidenziali della mia vita, in contatto diretto in questi anni con tanti fratelli e tante sorelle di tutto il mondo, mi sono orientato a scrivervi, condividendo alcuni aspetti della mia esperienza. In realtà, ci sono pagine della mia vita personale che sono provvidenzialmente intrecciate con la mia vocazione di frate e di fratello.
Poi fa la biografia……Un fratello tra fratelli
Nel nostro itinerario verso il 2016, la Provvidenza ci invita a commemorare il prossimo anno un avvenimento fondamentale della nostra storia: i 500 anni della fondazione, avvenuta nel 1510, della nostra prima comunità in America, nell’isola La Hispaniola (isola che oggi comprende la Repubblica Dominicana e Haiti). Non è necessario che sottolinei l’importanza di questa fondazione. Tutti ricordiamo l’impegno forte e costante della predicazione dei nostri fratelli durante il priorato di Pietro di Cordova.
I nostri frati teologi di Salamanca hanno dovuto riflettere seriamente sulle numerose sfide che la predicazione nel “Nuovo Mondo” presentava. I nostri frati missionari in America segnalavano e denunciavano con esattezza queste provocazioni ed i professori offrivano strumenti di discernimento. Tutti erano fratelli, gli uni e gli altri, senza distinzione. Questa fraternità domenicana abbracciava nello stesso tempo sia quelli che soffrivano oppressione e violenza (gli abitanti originari del nuovo mondo che venivano ridotti in schiavitù) sia i discepoli o gli alunni dei frati professori a Salamanca.
Quando consideriamo gli ideali della Rivoluzione francese, che tanto influirono sugli avvenimenti indipendentisti delle nazioni americane, siamo abituati a riassumerli nelle famose parole: “libertà, uguaglianza, fraternità”. Non possiamo non ammettere, nonostante l’immediato contesto antiecclesiale, che – come ha detto Giovanni Paolo II – sono espressioni di alto valore ed includono un particolare valore cristiano. Questo è perfettamente vero ed anche molto logico, perché tutta l’Europa ha nutrito e formato la sua cultura sulla fede apostolica. I responsabili della Rivoluzione francese, quantunque abbiano lottato molte volte contro la Chiesa, non hanno potuto evitare di esserle debitori di questo spirito.[1]
Ad iniziare dall’anno 1220, l’Ordine ha sempre voluto ricomprendere il senso della sua vita fraterna e della sua missione, nei nuovi contesti culturali, storici e geografici, in un mondo in costane cambiamento. I Capitoli Generali hanno voluto sempre sentire il polso della realtà, della vita dell’Ordine, avendo il cuore e gli occhi fissi sullo sviluppo dei paesi in cui i fratelli erano presenti, in sintonia con la Chiesa e nel cuore della medesima, perché San Domenico ha voluto sempre la sua opera in medio Ecclesiæ. Già i frati riuniti a Parigi, nel Capitolo Generale del 1256, affermavano: Quod fratres nostri vocentur fratres predicatores. et non aliis nominibus.[2]
Negli ultimi decenni, ispirandosi sempre al magistero della Chiesa[3] anche i Capitoli Generali hanno trattato e preso delle decisioni sulla nostra vita religiosa e la nostra vita fraterna in comunità.[4] Anche gli ultimi Maestri dell’Ordine ci hanno regalato lettere o messaggi significativi ispirati a questo tema.[5]
Non pretendo di presentarvi nelle pagine seguenti un’esposizione sistematica sulla “fraternità domenicana”. Lo hanno già fatto i testi citati seguendo passo per passo la nostra storia. Desidero però, riflettendo su alcuni aspetti della nostra fraternità, pormi alcune domande assieme a voi: “Che significa essere fratello oggi?”. Lo farò attraverso “una icona biblica” che ci aiuti a pregare, meditare, riflettere e a rispondere a quest’interrogativo. Per questo, vi invito a scoprire insieme, dalla mano di un “fratello” molto speciale, alcune pennellate interiori della nostra fraternità. Mi riferisco a Giuseppe, il figlio di Giacobbe, il sognatore…
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GIUSEPPE
- il sognatore -
La sua storia si presenta effettivamente intrecciata con quella di suo padre Giacobbe. La sua morte è l’epilogo della storia patriarcale ed insieme il prologo della grande epopea dell’Esodo. Il suo nome non viene incluso quando Dio rivela se stesso o quando si parla di Dio con la formula “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. Nella vita di Giuseppe non ci sono interventi spettacolari da parte di Dio; Giuseppe non parla familiarmente con Dio come lo avevano fatto i suoi antenati (Abramo, Isacco e Giacobbe); nemmeno riceve una nuova rivelazione o una conferma della promessa divina. Tuttavia, Dio è presente in ogni avvenimento della sua vita. Nella vita di Giuseppe, Dio stesso si avvale dei peccati degli uomini per il bene di questo nostro “fratello”. Ancora di più, attraverso la vita di Giuseppe, Dio prepara segretamente la nascita del suo popolo eletto, un popolo di fratelli, un popolo che egli condurrà alla libertà. Forse che la fraternità e la libertà non sono anche caratteristiche fondamentali della nostra vocazione?
Lo sappiamo e lo sperimentiamo ogni giorno: il peccato ci separa e ci oppone a Dio, ci separa e ci oppone ai fratelli, ci separa e ci oppone alla creazione. Come se fosse una fotografia del presente, in tante situazioni in cui ci troviamo, questa ferita o separazione arriva a livelli incredibili dovuti alla ignoranza – cecità – umana. Quanto sono attuali le presuntuose parole di vendetta e di rivalsa pronunciate da Lamec alle sue mogli Ada e Silla: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Ciano, ma Lamec settantasette” (Gen 4,23-24)!
Con la storia dei patriarchi a poco a poco si incominciano a “riannodare” quelle tre separazioni, quelle ferite a rimarginarsi. Con la fede obbediente di Abramo si riannoda la relazione con Dio. Giacobbe finisce per riconciliarsi con suo fratello Esaù. Giuseppe, vivendo nella forma più semplice e quotidiana la presenza di Dio, si riconcilia con i suoi fratelli e sa generosamente rapportarsi con i beni della creazione, in un modo giusto, equo e saggio. In effetti, Giuseppe è un uomo onesto, leale, incorruttibile, capace di perdonare, tratta con giustizia gli affari sociali e politici attraverso una distribuzione equa dei beni e dando a tutti da mangiare.
I. I SOGNI DI GIUSEPPE
(I nostri sogni)
Giuseppe è chiamato “il sognatore”, anche se con un po’ di disprezzo. I suoi fratelli sembrano odiarlo, tendono ad ignorarlo, addirittura non lo salutano. In effetti, Giuseppe sognava e raccontava i suoi sogni ai fratelli, ma questi non lo comprendevano e si burlavano di lui rifiutandolo.
Senza pretendere di parlare da esperto nella interpretazione dei sogni o nello studio dell’“onirico”, sappiamo che spesso con la parola “sogni” ci riferiamo anche alle nostre illusioni, alle aspettative,… alle nostre speranze! La quotidianità della vita ci invita in fretta a non prestare troppa attenzione ai sogni: tendono ad ingannarci come vana illusione! sono vani e fugaci! Tuttavia – pur condividendo queste affermazioni – il libro del Siracide accenna ad una possibile eccezione: “Se non sono una visione inviata dall’Altissimo” (cf. Sir 34,1-7).
Tutti siamo entrati nella vita religiosa con l’anima piena di sogni. Alcuni interrogativi non si fanno attendere: Che abbiamo fatto di quei sogni? Dove sono andati a finire? Perché abbiamo rinunciato ad essi così facilmente?
Ritorniamo al racconto. I fratelli di Giuseppe non comprendevano i suoi sogni e lo invidiavano… era il preferito di suo padre. Per loro, i sogni di Giuseppe erano più che altro degl’incubi. Come succede a volte a noi nelle comunità, forse li interpretavano solamente in chiave di “competitività”. Questo capita quando viviamo la relazione fraterna solamente in chiave di “promozione” o “punizione”. Da questa prospettiva sembriamo sempre preoccupati di sapere “chi sarà il più grande”, così come succedeva agli apostoli di Gesù (cf. Lc 9,46)!
Sebbene Giuseppe sia il preferito di suo padre, nemmeno Giacobbe riesce a comprenderlo del tutto. Giacobbe, in realtà, semplicemente rifletteva su queste cose (come Maria – la madre di Gesù – quando i pastori la visitarono dopo la nascita di suo figlio; o quando, insieme a suo sposo Giuseppe – anche lui un uomo di sogni e di incubi –, trovarono Gesù nel tempio tra i dottori della Legge).
Le nostre riunioni comunitarie, i capitoli locali, provinciali o generali, ci offrono delle occasioni per interrogarci e per cercare, insieme, delle risposte. Già fin dall’inizio della storia della salvezza – dopo il peccato originale e dopo il primo fratricidio – Dio pone due domande rispettivamente ad Adamo e a Caino. Ciascuno di noi e tutto l’Ordine dovremmo rispondere ad esse, in questo tempo così fecondo che stiamo vivendo: “Dove sei?” (Gen 3,9); “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9).
L’Ordine si prepara a celebrare un nuovo Capitolo Generale[6]. I Frati di tutto il mondo ritorneranno a riunirsi per rispondere a queste domande. I capitolari riceveranno da parte delle nostre comunità qualcosa come un “mandato” (simile a quello che Giacobbe ha dato al suo figlio preferito): “Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a darmi notizie” (Gen 37,14). Giuseppe – come tanti sognatori – “si aggirava per la campagna” come disorientato. Nel racconto della Genesi qualcuno sembra riportare Giuseppe alla realtà, domandandogli: “Che cosa cerchi?”. Giuseppe rispose: “Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare” (Gen 37,15-16). Senza pretendere di forzare i testi, credo che le due domande offrano un’indicazione per comprendere più profondamente la vita e la vocazione del “sognatore” (vita e vocazione che egli stesso scoprirà con maggiore chiarezza, profondità e realismo, anni dopo). Ripeto, sono le domande che noi ci stiamo ponendo ancora oggi e alle quali il Capitolo tenterà di dare risposte.
I suoi fratelli lo scorsero da lontano e dissero: “Eccolo! È arrivato il signore dei sogni!” e dopo… “Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!” (Gen 37,19-20).
La vita religiosa offre a ciascuno la possibilità di raccontare i propri sogni ai più, perché –giustamente – “i più”, “gli altri”, sono “nostri fratelli”! Facciamo partecipi i fratelli dei nostri sogni? Che cosa ci impedisce di farlo?
Come tanti altri religiosi e religiose, abbiamo scelto un modo di vita che, anche praticando certe osservanze “monastiche” o “regolari” (LCO 39-40), non ci assicura un determinato posto, un incarico, un luogo, una missione, ecc. Siamo itineranti e pellegrini, mendicanti della verità. L’itinerante (secondo il modello della vita degli apostoli) sa di essere inviato e perciò sa dove va, confida in chi lo invia e per questo ama il luogo dove è inviato. Quando arriviamo in convento e “non possiamo” o “non vogliamo” raccontare i nostri sogni ai nostri fratelli, rischiamo di trasformarci quasi in vagabondi (disorientati e senza meta), in fuggitivi (in ricerca di qualcuno che forse ci ascolti), in stranieri, o ospiti, nella propria casa (che persi i punti di riferimento non sanno più come comportarsi).
Giuseppe soffre perché è stato rifiutato dai suoi fratelli e sebbene non intenda bene quello che succede, a poco a poco comprenderà che Dio non lo ha abbandonato. Giuseppe, effettivamente, è guidato in modo misterioso dalla Provvidenza.
Giuseppe è pastore come i suoi fratelli. Anche noi abbiamo la medesima vocazione: siamo tutti frati predicatori. Quando tutti facciamo le stesse cose, a volte non ci piace che qualcuno sia differente, diverso. Questa è un’enorme provocazione. Viviamo tempi in cui sembra che un certo “narcisismo individualista” acquisti anche i tratti di “maschere gregarie”. Si formano gruppi chiusi, bande, marà, gangs o fans, tifoserie sportive (combriccole grintose, tifosi, hooligans) che all’interno ripetono scrupolosamente abitudini e modi di fare, creando nuovi miti. Non accettano divergenze, se non per identificarsi maggiormente a sé stessi e per combattere in diversi modi quelli che “non sono dei nostri”. Come succedeva al giovane e un po’ intollerante Giovanni (cf. Lc 9,49.54).
Nella vita delle comunità questi tipi di atteggiamento spesso appaiono attraverso frasi come “qui si è sempre fatto così”, “se non ti piace, te ne puoi anche andare”. È curioso, e perfino paradossale, che in tempi di poche vocazioni (almeno in alcuni luoghi, paesi o regioni) mentre chiediamo al Signore che ci mandi sante e numerose vocazioni, passiamo poi ogni persona al microscopio (non mi riferisco al necessario discernimento vocazionale) e arriviamo a pensare dentro di noi che forse saremmo più felici se “essi” non fossero venuti a casa con il loro bagaglio pieno di domande, di sogni, di illusioni e con il loro modo di “essere fratello”.
In questo contesto, mi domando: “Perché oggi desideriamo vocazioni di frati predicatori?”. Avremmo il coraggio di accogliere come nostri fratelli, in questo momento della storia, coloro che “ieri” abbiamo venerato, come si deve, per la loro grande passione per Dio e per il Vangelo?
II. I SOGNI DEGLI ALTRI
(I sogni dei nostri fratelli)
Conosciamo la storia di Giuseppe e i suoi fratelli. Essi lo legano, lo vendono ai mercanti… Ciononostante il Signore stava con lui. Questa è una frase che nella vita di Giuseppe è ripetuta come una antifona responsoriale, come una litania.
Giuseppe poi è venduto a Potifàr, funzionario del Faraone. Potifàr apprezza rapidamente le qualità di Giuseppe e lo nomina maggiordomo mettendolo a capo della sua casa ed affidandogli l’amministrazione di tutti i suoi beni.
Ahi, dei sognatori sono nominati amministratori! In questa storia, però,… questo avvenimento aiuta – in qualche maniera – il nostro fratello Giuseppe insegnandogli a far calare a terra i suoi sogni (stiamo attenti, non dico “a smettere di sognare”, ma “a far calare a terra i suoi sogni”, a farli diventare realtà! a personificarli!). Man mano che passano gli anni, i diversi compiti affidatici nelle nostre comunità e dalle istituzioni ci aiutano a personificare i nostri sogni. Ogni riunione di fratelli (ad esempio, i capitoli) dovrebbe essere d’aiuto per ritornare alla domanda già posta: “Che cosa abbiamo fatto dei sogni che abbiamo portato nella vita religiosa? Che abbiamo fatto dell’amore iniziale?” (cf. Ap 2,4).
L’onestà di Giuseppe però non è ricompensata e nuovamente egli si trova coinvolto nella menzogna. Sappiamo quello che gli è successo con la moglie di Potifàr. Non mi riferisco alle tentazioni che sorgono quando, alle volte, i sogni (l’amore iniziale) si intiepidiscono nel susseguirsi dei giorni, dei lavori, dei compiti che ci occupano: la quotidianità… del quotidiano! Semplicemente desidererei soffermarmi su due aspetti che toccano da vicino il significato attuale della nostra fraternità domenicana.
Mi colpisce molto, quando visito le province e le comunità, il – troppo facile – ricorso alla denuncia ed all’accusa, soprattutto quando si giudicano le persone e le loro intenzioni. Lo facciamo molte volte per giustificarci, per prendere le distanze dai problemi reali o da quanto realmente sta succedendo. Lo facciamo per prendere le distanze da quello che sta succedendo a un fratello, da quello che sta succedendo a noi stessi! (non siamo così immuni dal tipico meccanismo di gettare sugli altri le nostre afflizioni personali).
Mi vengono quindi in mente le parole con le quali l’Apocalisse descrive il compito del diavolo: “l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte” (12,10). Al contrario, la Prima Lettera di San Giovanni, ci consola ed incoraggia sempre quando constatiamo che “se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto” (2,1). Qual è il nostro “compito” quando ci rapportiamo con i nostri fratelli: siamo i loro accusatori o i loro difensori?
Giuseppe andò a finire in carcere… Ma il Signore fu con Giuseppe, gli accordò benevolenza… Infatti fece in modo che egli si guadagnasse la simpatia del capo delle carceri e questi affidò a Giuseppe tutti i prigionieri detenuti nel carcere. A cominciare da quel momento egli diresse tutto quello che si faceva colà. Il capo delle carceri non vigilava assolutamente su nulla di quello che aveva affidato al sognatore, perché “il Signore fu con Giuseppe” e faceva prosperare tutto quello che realizzava. Il sognatore sembra lasciare definitivamente questo “ruolo” per trasformarsi in un buon amministratore. Sappiamo in che cosa consiste l’amministrare. Dare a ciascuno quello di cui ha bisogno, non necessariamente “quello che chiede”!
Giuseppe non era stato pagato fino ad allora secondo giustizia. Ha conosciuto l’odio dei suoi fratelli, dopo, in casa di Potifàr, ha pagato duramente la sua lealtà. Ciononostante, Giuseppe era un uomo giusto. Questa, nell’Antico Testamento, è la virtù per antonomasia che comprende anche le dimensioni della “santità”. Vale la pena soffermarci sulla giustizia di Giuseppe.
Sono celebri i principi fondamentali del Diritto attribuiti al giurista Ulpiano: “Honeste vivere, alterum non lædere, suum cuique tribuere” (vivere onestamente, non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo):[7] San Tommaso d’Aquino è debitore di questa tradizione romana classica ed afferma che giusto è colui che pratica la giustizia. Ebbene, “essere giusto” non significa operare secondo giustizia ogni tanto o in casi isolati. Quando parliamo della virtù della giustizia intendiamo per essa la perpetua e costante volontà di dare a ciascuno il suo (“il suo” è “quello che spetta a ciascuno” oppure “il suo diritto”). Perciò, una delle caratteristiche principali della giustizia è la “alterità”, la presenza dell’“altro”. La giustizia esige sempre la relazione con l’altro. Questa giustizia “ad alterum” è la manifestazione per eccellenza della rettitudine integrale della persona, che include tutte le sue relazioni con gli altri, compreso l’uso delle cose ed anche, sebbene in modo molto analogico, con se stesso. Da qui la sua corrispondenza con il significato stesso di “santità”.
Fra Giordano di Sassonia ci aiuta a tradurre tutto questo nel linguaggio e nel modo di vita dell’Ordine. Secondo le Vitæ Fratrum di fra Gerardo de Frachet, quando un secolare domandò a fra Giordano qual era la regola che professava, egli rispose: “La regola dei Frati Predicatori è questa, “honeste vivere, discere et docere” (vivere onestamente, studiare, ed insegnare); queste sono le tre cose che David domandò al Signore quando disse: “Insegnami la bontà, la scienza e la disciplina” (cf. Sal 118 (119),66).[8]
Ritorniamo però alla storia del “sognatore”. Mentre Giuseppe si trova in carcere, sono condannati alla prigione due funzionari del re di Egitto, il coppiere maggiore ed il panettiere maggiore: sono quelli che assicurano il pane ed il vino quotidiano al Faraone!
Entrambi, nel corso della notte, hanno avuto un sogno, ciascuno con il proprio significato. Apparentemente Giuseppe da tempo ha smesso di sognare (o almeno non se la sente più di raccontare a qualcuno i suoi sogni). Le esperienze che gli erano toccate lo avevano riportato a una dolorosa realtà: il disamore dei suoi fratelli, la moglie di Potifàr, il carcere… tante menzogne, accuse e denunce!
Durante le visite alle diverse province e comunità, oppure leggendo gli Atti dei Capitoli, è interessante osservare come i fratelli ci trasmettono le realtà che vivono. Alcune – senza dubbio – appaiono veri incubi; altre manifestano belle esperienze vocazionali che dilatano l’anima e fanno sognare un futuro migliore.
Giuseppe è un amministratore. L’amministrare “per gli altri”, tenendo presente “le necessità degli altri”, fa sì che anche Giuseppe apprenda o scopra, in questa tappa della sua vita, pur in un carcere, che anche gli altri si rallegrino e si rattristino, sognino ed abbiano degli incubi.
Giuseppe è un carcerato, ha meditato a lungo una volta, mille volte, la sua storia, però non si è rinchiuso nei propri pensieri, né si è lasciato paralizzare da una sterile concentrazione su di sé. Attento e contemplativo, condividendo lo stesso carcere, egli sembra solo capace di scoprire il volto depresso dei due funzionari del Faraone. Allora domanda loro: “Perché oggi avete la faccia così triste?” (Gen 40,7). Non si tratta di un rimprovero di disapprovazione, si tratta di una constatazione che – dentro un carcere – acquista un certo rilievo: si potrebbe forse avere un’altra faccia quando si viene privati della libertà? Giuseppe vede più in là. Veramente non c’è domanda più semplice o quotidiana che questa: “Perché hai questa faccia triste?”. Tuttavia quanta vita può contenere! La vita comunitaria di ogni giorno ci familiarizza con frasi – anch’esse quotidiane – che sono piene di vita. Ci sono dialoghi che iniziano nella maniera più semplice e terminano in modo molto fecondo. Conosciamo la semplice richiesta di Gesù alla Samaritana: “Dammi da bere” (Gv 4,7). Anche l’interrogativo rivolto ai discepoli di Emmaus: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?” (Lc 24,17). Sappiamo anche come si concludono entrambi gli incontri. Sono storie vocazionali.
I compagni di prigione di Giuseppe dicono: “Abbiamo fatto un sogno e non c’è chi lo interpreti”. Giuseppe riconosce umilmente: “Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? Raccontatemi dunque” (Gen 40,8). Questo episodio della vita di Giuseppe mi sembra significativo. Egli non è l’unico che fa dei sogni. Anche “gli altri” fanno i loro sogni (o incubi!). Non è sufficiente, come nella sua gioventù (nella nostra?), pretendere che gli altri si fermino ad ascoltare i nostri sogni… Arriva il momento in cui è necessario scoprire non solo l’“esistenza” o “presenza” dei fratelli, ma che è fondamentale interessarci di quello che succede loro ed è vitale sapere che anche loro fanno dei sogni ed hanno dei progetti.
Quanto è importante conoscere i sogni degli altri! Mi riferisco specialmente ai sogni dei fratelli, i sogni di quelli che vivono con noi ed i sogni di tutti coloro che condividono, in una forma o altra, la nostra vita: colleghi o compagni di lavoro, i destinatari della nostra predicazione ed anche quelli che predicano a noi. Penso ai sogni della gente, ai sogni di quelli che chiamiamo “l’insieme della gente” oppure “la gente comune”. Il cerchio si va ampliando, è necessario conoscere le facce ed i sogni di quelli che desideriamo servire…
È vero, “interpretare” è opera di Dio, però sappiamo che Lui ci chiede di essere suoi strumenti. Intendere, comprendere, contemplare quello che succede ai fratelli (i loro sogni, le aspettative, le illusioni, paure, angustie), tutto questo esige da parte nostra silenzio e pazienza (pace e scienza); ascolto e attenzione; prudenza e docilità; senso del mistero, del sacro, nella vita degli altri.
La prudenza è la principale delle virtù morali, quindi guida e maestra. Però per essere prudenti è importanti essere docili. La “docilitas”, parte della virtù della prudenza, non consiste soltanto nell’accettare ciò che ci dice l’ altro, ma anche nel “sapere-lasciarsi-dire-qualcosa”.
Sappiamo quel che è successo a Giuseppe. Il sognatore di un tempo interpreta ora i sogni dei suoi compagni di sorte (per uno il sogno è tornare a vivere, per l’altro un incubo e la morte). I vaticini si sono compiuti. Giuseppe raccomandò al coppiere di non dimenticarsi di lui, una volta uscito dal carcere… ma questi se ne dimenticò (come facilmente si dimenticano i sogni). Ancora una volta Giuseppe soffre nella propria carne la noncuranza degli altri.
Nella nostra vita comunitaria e apostolica molte volte soffriamo diverse difficoltà; sono esperienze di libertà limitate dalle diverse circostanze della vita: determinati compiti, lavori, occupazioni, malattie fisiche, psicologiche o dello spirito, incomprensioni, malintesi, ecc.
Alla luce della difficile esperienza di Giuseppe possiamo considerare le nostre attitudini e le nostre relazioni con i fratelli. Giuseppe, infatti, è un fratello, come noi. Dinanzi alle difficoltà Giuseppe non si atteggia a vittima leccandosi le proprie ferite. Perché tendiamo ad accusare sempre gli altri di tutto quello che ci succede, come se solamente gli altri fossero i responsabili o i colpevoli della nostra sorte? Giuseppe non nutre neppure un senso tragico della vita. Non esauriamo e diminuiamo la nostra fraternità rimuginando interminabili e sterili lamentele come: “La vita non ha alcun significato” oppure “Noi, non te l’avevamo detto?”. A volte sembriamo profeti di sventure, più interessati ad avere ragione che a quello che possa o no succedere. Giuseppe non riduce le difficoltà che sta attraversando a una questione di “colpe” (proprie e/o altrui) o di “colpevoli”. Non sogliamo buttare su di noi la colpa di tutto, forse cercando tortuosamente la compassione degli altri? Non pensiamo che tutto quello che ci succede è per colpa di “qualcuno”? Giuseppe non cova nel suo cuore desideri di vendetta o di rivincita. A noi può succedere invece, quando cadiamo nella tentazione di imitare Erodiade, la compagna di Erode, di esigere su di un vassoio la testa dei supposti nemici, che consideriamo ostacoli al nostro benessere o felicità! Non è triste perfino esibire il proprio dolore, la violenza fisica o psicologica, come ripiego per fare pressione oppure per punire la comunità?[9] Giuseppe non passa il giorno ad appellarsi alle autorità per commuoverle di quanto gli succede. A volte, oltre a trascorrere la vita nel commiserare noi stessi, pretendiamo che anche gli altri ci commiserino. È un atteggiamento molto comodo quello di collocarsi nel ruolo di “vittime”! In definitiva, nella situazione che gli tocca di vivere, apparentemente senza uscita, il figlio prediletto di Giacobbe non opta per l’autolesionismo perché tutti lo commiserino. Egli pone la sua fiducia in Dio e si rende disponibile ai suoi compagni per aiutarli in tutto quello che gli è possibile. In questo modo Dio va purificando il suo cuore e la sua intelligenza, la sua anima, la sua vita!
Ci può anche accadere che giochiamo a nascondiglio con i fratelli, con la vita, con Dio, occultandoci dietro i diversi modi di autocommiserazione – o di autosufficienza – più o meno camuffate di umiltà.[10] A poco a poco queste attitudini ci vanno alienando da tutto (dalla realtà) e da tutti (dalla comunità fraterna).
La storia di Giuseppe acquista via via una drammaticità che sembra andare in crescendo. Ora accade che anche il Faraone sogna, ma che i maghi ed i saggi dell’Egitto non riescano a spiegarne il significato! Allora, lo smemorato coppiere si ricorda di Giuseppe e “il sognatore” viene chiamato a interpretare i sogni della più grande autorità d’Egitto. Giuseppe nuovamente insiste: “Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del Faraone” (Gen 41,16).
La vita da frate, da fratello, senza alcun’altra pretesa che questa: essere fratello, ci porta a dare ascolto alle gioie e alle speranze, alle tristezze ed alle angustie degli uomini e donne di oggi.[11] Quanti bambini e giovani, donne e uomini, fratelli e sorelle fanno sogni per loro, per le loro famiglie, per i loro popoli, per i loro paesi! Il ministero della fraternità esige di ascoltare, conoscere ed interpretare questi sogni. Perché a volte non creiamo lo spazio necessario affinché i nostri fratelli possano raccontarci i loro sogni? Quali situazioni o attitudini lo rendono difficile?
Il Faraone riconosce la prudenza e la sapienza di Giuseppe e lo nomina Primo Ministro, ponendolo a capo di tutto il territorio d’Egitto. Giuseppe aveva trenta anni. Potremmo dire che ha terminato la sua formazione, “è ritenuto maturo, poiché ammaestra gli altri uomini e assume vari incarichi”.[12]
In questa tappa della sua vita Giuseppe non si lascia più trasportare dai sogni della sua adolescenza. Può ormai voltar la pagina di una vita burrascosa o tormentata, di una vita – fino allora – triste e amara. I nomi che dà ai suoi due figli manifestano questo suo desiderio: Manasse (“Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre”) ed Èfraim (“Dio mi ha reso fecondo nella terra della mia afflizione”).
Il buon amministratore è l’uomo realista per eccellenza: semina e miete, raccoglie e distribuisce, vigila e sorveglia, controlla ed amministra, valuta e misura, paga e riscuote. Nel Vangelo Gesù usa l’immagine dell’amministratore in varie parabole – ricordiamo specialmente quella dei talenti – per parlare della fedeltà.
Giuseppe è un uomo fedele e lo manifesta nel suo lavoro di amministratore: è stato fedele nel poco e lo sarà nel molto. Fino a questo momento stiamo assistendo ad un finale felice e lungamente atteso. Se nell’Antico Testamento la benedizione di Dio si manifestava principalmente nella buona salute, la discendenza e l’abbondanza dei beni, allora possiamo dire che Giuseppe finalmente è benedetto da Dio! Giuseppe amministra la ricchezza d’Egitto, ha formato una famiglia nella terra che lo ha accolto come suo figlio adottivo, è giusto e saggio, teme Dio! Ora potrà dimenticare la sua triste storia!
Sappiamo però che – almeno nella Bibbia – non è cosa buona “dimenticare”. Il popolo, l’uomo giusto che soffre, il perseguitato, chiedono a Dio “non ci dimentichi”. Anche Dio chiede al suo popolo che non dimentichi la sua Alleanza e i suoi Comandamenti, la sua opera creatrice, liberatrice e salvatrice. È importante fare/conservare memoria. Sappiamo il significato etimologico di “ricordare” (re: ritornare / cor-cordis: cuore) e di “remember” (re: ritornare / member: organizzare o unire quello che è sciolto o – precisamente – “smembrato”). Giuseppe deve ricordare e ritornare a unire i pezzi sciolti della sua storia, una storia legata a quella dei suoi fratelli.
Una volta terminati gli anni dell’abbondanza, il popolo sentì fame e chiese gridando al Faraone che gli desse da mangiare. Questi rispose: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà” (Gen 41,55). Sono parole simili a quelle indirizzate da Maria ai servitori in Cana di Galilea, in una difficoltà simile: è venuto a mancare il vino nel mezzo di una festa di nozze.
III. I SOGNI DI DIO
(La nostra vocazione)
Da tutte le parti andavano in Egitto a comprare cereali da Giuseppe, perché la fame devastava tutta la terra. Nella sua terra natale, colpita dalla siccità e dalla fame, Giacobbe ammonisce i suoi figli: “Perché state a guardarvi l’un l’altro?” (Gen 42,1). Egli ha sentito dire che in Egitto vendevano cereali… per questo afferma con fermezza: “Andate laggiù a comprarne per noi, perché viviamo e non moriamo” (Gen 42,2). Conoscendo Giacobbe, possiamo intuire da dove viene a Giuseppe il suo senso pratico. Suo padre è sempre stato molto pratico (molte volte si è perfino permesso di organizzare dei tranelli pur di spuntarla… sebbene in questo Giuseppe sia diverso).
Possiamo ridurre la nostra vocazione di “essere frati” o “fratelli” a una questione di pura “sopravvivenza”? Dio vuole la vita, non chiede solamente che noi “sopravviviamo”. Riflettiamo su queste cose immaginando la nostra presenza, la nostra missione, la predicazione ed i destinatari della nostra predicazione, tutti quelli che sperano da noi il pane spezzato della Parola! Ogni volta è sempre più evidente e profetica l’intuizione di quelli che, come San Domenico de Guzmán, non hanno dubitato di dare la loro vita consumandola e logorandosi per gli altri, per “la predicazione e la salvezza delle anime” (cf. 2Cor 12,15; LCO 1 § II). Dio ama la vita e vuole che abbiamo vita e vita in abbondanza (Gv 10,10). Nel triduo pasquale facciamo memoria della passione, morte e resurrezione di Gesù. Si tratta di qualcosa di completamente nuovo. A volte sembriamo solo dei portavoce delle resurrezioni della piccola figlia di Giairo, del primogenito della vedova di Naim o dell’amico Lazzaro di Betania (che ritornarono a vivere “esattamente la stessa vita del tempo precedente”, “la vita di prima”, per morire però nuovamente!). Sogniamo con tempi che sono già passati e pretendiamo che tutto sia “nuovamente” come lo era allora, perché il tempo passato è sempre stato migliore… Come quando avevamo 40 anni o come tutto era negli anni ‘40! (Per altri saranno i ’50, i ’60, i ’70, gli ‘80…).
Senza timore di sbagliarmi, direi che l’insulto più terribile che la narrazione della Passione di Gesù ci presenta non consiste tanto nelle burla, negli sputacchi, nei pugni o la flagellazione, la coronazione di spine, la condanna alla crocifissione… L’insulto che riassume davvero il dramma della croce e dell’umanità lo ritroviamo in una frase breve e tagliente, antica e moderna “Salva te stesso!”. Le autorità religiose, i soldati, i passanti e i curiosi, il malfattore al suo fianco… tutti lo sfidano in una o in un’altra forma con queste parole. È come dire: “regolati come puoi”, “datti da fare, sta a te”, “quello è un tuo problema, non il mio”, “veditela tu, sono affari tuoi”…
Giuseppe aveva pieni poteri sul paese e distribuiva razioni di cibo. Giuseppe è un uomo giusto. Sappiamo che oltre la giustizia “commutativa” esiste la giustizia che è propria di colui al quale si è dato una certa autorità e la chiamiamo “distributiva”. In effetti, chi ha autorità non pretende di dare a tutti o di esigere da tutti quelli che ha sotto la sua cura, nella stessa maniera: divide o distribuisce, esige o chiede, in maniera “proporzionale” e non puramente “aritmetica” (1=1), secondo gli obblighi o le necessità dell’“altro”.
Abbiamo sperimentato in famiglia la giustizia distributiva quando qualcuno distribuisce i piatti del cibo ai commensali secondo le necessità o i gusti di ciascuno, senza che per questo possa essere tacciato di ingiustizia. Così il priore o il sindaco dona e chiede a ciascun frate quello che gli spetta (il suo) usando una misura di giustizia proporzionale (a ciascuno, secondo le sue capacità, difficoltà, necessità, ecc.). Questo non significa far preferenze di persona (la parabola dei talenti ritorna ad essere eloquente a questo proposito). La vita comunitaria, la vita fraterna in comune, lo sappiamo, non si costruisce solamente in base alla giustizia commutativa (aritmetica), ma anche con il rispetto della giustizia distributiva (proporzionale).
Certamente, è l’amore misericordioso la radice o la ragione teologica, l’anima che dà vita, ravviva ed attiva la finalità ultima e soprannaturale della nostra vocazione. Questo amore perfeziona e supera la giustizia, la fonda e la suppone.[13]
San Paolo ci insegna che la giustizia di Dio si manifesta nella giustificazione di colui che crede in Gesù (Rm 3,25-26). Questa rivelazione della giustizia divina che ci rende giusti (giustificante), non solo ci porta ad una visione più piena delle relazioni tra la giustizia e la misericordia di Dio,[14] bensì esige da noi un nuovo stile di vita fraterna (cf. 1Cor 13,4-7; Gc 2,13).
La carità va più in là della giustizia, senza mai andare contro la giustizia, la quale inclina a dare all’altro quello che è “suo”, quello che gli spetta in virtù del suo essere e del suo operare. Non posso “dare” all’altro del mio se in primo luogo non gli ho dato quello che gli spetta secondo giustizia. La carità esige la giustizia, e la supera e la completa seguendo la logica della donazione e del perdono.[15]
Giuseppe è l’amministratore, un buon amministratore. Ora è arrivato, finalmente, ad avere “tutto sotto controllo”. Gli sembra, quindi, tutto “OK”. Ecco però che i suoi fratelli giungono in Egitto! Senza conoscere l’identità di chi li riceve, essi si prostrano davanti a lui con la faccia per terra. Giuseppe invece, che li ha riconosciuti, li tratta come se fossero estranei… (Conosciamo i dettagli, per questo non mi soffermo).
La prima frase che nella Bibbia l’uomo (maschio) pronuncia dinanzi alla donna che Dio gli ha dato è: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (Gen 2,23). Sono parole molto orientali, della buona tradizione ebraica. Immagini fisiche o materiali – ossa e carne – che si usano per descrivere realtà più profonde, spirituali: la complementarietà, l’“aiuto che gli corrisponda”. Scopriamo in queste parole, nei contesti differenti e a volte somiglianti, una profonda analogia. Per questo possiamo applicarle alla fraternità. Giuseppe sta di fronte ai suoi fratelli, loro sono carne della sua carne, sangue del suo sangue, “schegge dello stesso bastone” diremmo in casigliano latinoamericano.
Quando Giuseppe pensava di voltare definitivamente pagina riguardo al suo passato (che aveva voluto controllare come controllava i beni che amministrava), si imbatte faccia a faccia con i suoi fratelli, con la sua storia, con la propria vita. A volte, anche noi lo desidereremmo fare, però poi non saremmo più uomini se non in apparenza, come dei moncherini, spogli di umanità. Da qui, l’importanza biblica del “ricordo” o della “memoria”.
“Allora Giuseppe si ricordò dei sogni che aveva avuto a loro riguardo… (Gen 42,9). Li trattò quindi con durezza e li mise alla prova. Nonostante ciò, nel riconoscerli come propri fratelli, Giuseppe cominciò – malgrado il dolore provocato dalla loro presenza – a risanare la sua storia.
Siamo soliti ricordare la famosa frase di San Gregorio Nanzianzeno (329-391): “Quello che non è stato assunto, non è stato curato” (non è stato sanato, redento, salvato). Abbiamo imparato ad applicare questa verità teologica anche, in modo analogo, in ambiti diversi e somiglianti: nella nostra vita prima di entrare nell’Ordine e nella nostra vita religiosa, nella comunità e nel ministero della predicazione, lo apprendiamo dalla storia e dalla nostra storia, dalla vita quotidiana dei nostri conventi, delle province e da quella del nostro Ordine. È una constatazione quotidiana che tocca i più svariati aspetti della nostra vita: il fisico e il biologico, ma anche lo psicologico e il sociologico, il morale e lo spirituale. Quello che non si assume non si sana.
Nel momento in cui il “sognatore” ha preferito dimenticare… la domanda di Dio a Caino ritornò ad esigere da Giuseppe una nuova risposta: “Dove stanno i tuoi fratelli?”. Quella ricerca della sua giovinezza – prologo di una tappa dolorosa della sua vita – ritorna ad apparire con rinnovato aspetto drammatico: “Sono in cerca dei miei fratelli. Indicami dove si trovano…”. La risposta della Provvidenza divina – che mai l’ha abbandonato e che mai ha abbandonato i suoi – sconvolge il suo cuore: “Stanno lì, di fronte a te! Al tuo fianco!”. Qualcosa di simile ci succede quando ci guardiamo attorno e riconosciamo chi sono i nostri fratelli! Questi sono i miei fratelli! (e non quello o quelli che mi immagino). Non possiamo pretendere che cambino per accettarli come saranno e poi amarli.
Quando Dio chiese a Caino di suo fratello, egli – evitando di dire la verità – si nascose dietro una sua domanda: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. In Cristo e per la vocazione con cui ci ha chiamato, non possiamo ripetere questa battuta. Perché, in realtà, non siamo “custodi dei nostri fratelli”; non siamo niente più, ma niente meno, che fratelli dei nostri fratelli!
Vi sono molte cose da riconciliare nella famiglia di Giacobbe e di Giuseppe. Occorre tempo ed attesa per farlo. Nella Genesi vediamo come sia necessario procedere per tappe. Non è possibile imporre un ritmo “imprenditoriale” alla storia, al voler rimarginare le ferite personali e comunitarie. Queste si guariscono solamente mediante un ritmo eminentemente contemplativo. Di fatto conosciamo la continuazione della storia di Giuseppe e i suoi fratelli: il ritorno di questi a Canaan; il secondo viaggio in Egitto con Beniamino; il nuovo incontro con Giuseppe; l’ultima prova di Giuseppe ai suoi fratelli; l’intervento di Giuda in favore di Beniamino, ecc.
Andiamo alla conclusione. Giuseppe non ha potuto contenere la sua emozione e dice ai suoi: “«Io sono Giuseppe! (…)» (…) «Avvicinatevi a me!». Si avvicinarono e disse loro: «Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. (…)» (…) Poi baciò tutti i suoi fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui.” (Gen 45,3-4.15).
Le lacrime sembrano definitivamente purificare lo sguardo del suo cuore. Attraverso questo tsunami affettivo, essendo ormai passati 15 anni da quel terribile episodio quando fu venduto dai suoi fratelli, Giuseppe è capace di scoprire ora il senso di tutta la sua vita e di tutto quello che ha passato… Ha dovuto percorrere un lungo e tortuoso cammino per purificare, ricostruire e riconciliare la sua storia fraterna.
Le sue parole illuminano: “Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita (…) per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio” (Gen 45,5-8). Questa reazione non è semplicemente frutto di emozioni passeggere. Tempo dopo, avendo visto che il loro padre Giacobbe era morto, i fratelli di Giuseppe si dissero: “«Chissà se Giuseppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà tutto il male che noi gli abbiamo fatto?» (…) si gettarono a terra davanti a lui e dissero: «Eccoci tuoi schiavi!». Ma Giuseppe rispose loro: «Non temete. Tengo io forse il posto di Dio? Se voi avete tramato il male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso. Dunque non temete, io provvederò al sostentamento di voi e per i vostri bambini». Così li consolò parlando al loro cuore” (Gen 50,15.18-21).
Giuseppe, il sognatore, ebbe delle difficoltà con i suoi fratelli quando volle fare conoscere i propri sogni. Ciò segnò la sua vita. La stessa vita però, poco per volta, lo aiutò a riconoscere e a scoprire che anche gli altri hanno i loro sogni. Partendo da questa esperienza, iniziò ad ascoltare i sogni degli altri ed ha voluto anche – in nome di Dio – interpretarli. Non poteva mai immaginare però che aprendosi a questa possibilità (sentire come proprie le necessità degli altri, ascoltare pazientemente gli altri e fare spazio agli altri nel proprio cuore) Dio stesso gli avrebbe concesso di conoscere i propri sogni – sogni di salvezza e di liberazione! – per lui, per i suoi fratelli, per il suo popolo.
Se i nostri sogni manifestano i nostri progetti, le illusioni, gli ideali,… ascoltare i sogni degli altri può aprirci il cuore ai progetti, alle illusioni, agli ideali ed alle aspettative degli altri… I sogni di Dio per ognuno di noi e per tutti i fratelli segnano però il significato più profondo della nostra vita, della nostra vocazione! Forse che la vocazione personale non è l’espressione concreta dei sogni che Dio ha per ognuno e per tutti noi? I “sogni” di Dio per ognuno di noi sono la nostra vocazione. Sono i nostri fratelli a ricordarcelo. Quando Dio ci rivela i suoi sogni (come lo farà con Giuseppe – promesso sposo a Maria – quando il falegname decise di ripudiarla in segreto) ci fa conoscere un cammino vocazionale che supera tutto quello che avevamo potuto desiderare o pensare, per noi e per gli altri, e tutto quello che gli altri potevano sognare per noi… (cf. Is 55,8).
La storia di Giuseppe termina – poteva in altro modo? – con un ultimo “sogno” (inteso ora come “rivelazione”). “Poi Giuseppe disse ai fratelli: «Io sto per morire, ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa terra, verso la terra che egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe»” (Gen 50,24). È il preludio della storia vocazionale di un popolo, non più solo della famiglia di Giacobbe, che avrà il suo culmine nella missione del Figlio prediletto che, cercando anche Lui i suoi fratelli, sarà venduto per alcune monete e diventerà principio di vita nuova attraverso la sua morte e la sua resurrezione.
Le nostre vite e la vita delle nostre comunità locali, provinciali e quella di tutto l’Ordine, pure loro hanno bisogno di un cammino di riconciliazione. Non si tratta di suscitare, con una magia, un finale felice. La riconciliazione richiede di “mettersi al posto dell’altro” (cf. Gen 44,33). Questo è ciò che i fratelli apprendono attraverso una pedagogia tutt’altro che facile. Per questo è bene imparare a leggere la propria storia, quelle delle fraternità (comunità) e scoprire il modo con cui la Provvidenza ha operato ed opera in noi, con pazienza, umiltà e perseveranza.
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OGNI UOMO È MIO FRATELLO
Giuseppe è il prototipo dell’uomo giusto, del prudente, del saggio. Un vero fratello. Abbiamo già accennato alla giustizia. La prudenza è la virtù della ragione pratica che mette in relazione i principi dell’operare morale con la realtà quale si presenta qui ed ora. La sapienza principalmente consiste nel distinguere tra i vari aspetti quello che è principale, necessario e quello che è accessorio e secondario. Tra il sostanziale e l’accidentale.
Abbiamo letto la vita e la missione di Giuseppe in un modo nuovo. Egli non ha voluto centrare su di sé tutta la sua storia. Da questa prospettiva potremo comprendere la profezia di Isaia: “«Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?»” (43, 18-19a) … perché “«Ecco, io faccio nuove tutte le cose»” (Ap 21,5).
Questa storia di fraternità, di gioie e speranze intrecciate con dolore ed angustia, ci aiuta a comprendere alla luce del Vangelo che significhi la Pasqua, morte e resurrezione. Non si tratta di tornare alle cose di prima, di ritornare a vivere come prima, come per un magico incanto. Tutti hanno maturato di ritornare per incontrarsi con Giacobbe (il padre), hanno appreso, in un senso molto concreto e attraverso non poche sofferenze, ad amare. La vita di ognuno stava legata misteriosamente a quella degli altri (tutti hanno ricevuto la vita dallo stesso padre). Attraverso le vicissitudini della vita hanno scoperto l’amore del padre che li ha resi fratelli. Non c’è fraternità senza filiazione. L’incontro dei fratelli, con Giuseppe, attorno a suo padre Giacobbe, dopo tante incomprensioni, gelosie ed invidie, ha aperto l’orizzonte della rivelazione a qualcosa di molto più grande che una semplice pace “domestica”. La fraternità è un dono che convoca ad una missione universale: essi formeranno un popolo, il popolo eletto.
Queste pagine della Genesi ci aiutano a rinnovare il nostro impegno evangelico: la fraternità costruita attraverso parole di grazia e verità, ascolto e misericordia. Sappiamo per esperienza che le nostre parole possono ferire o distruggere i fratelli. Però possono anche destare quanto di più nobile c’è in noi, suscitando infinite possibilità di vita! Come quelle che Giuseppe ha detto ai suoi fratelli che consolò parlando al loro cuore (Gen 50,21b).
La storia di Giuseppe ci insegna che Dio non è sordo a quello che diciamo. Giuseppe ha appreso anche ad ascoltare, persino in situazioni difficili, come è la prigione. Conosciamo la intima relazione tra “ascoltare” (audire) e “obbedire” (obœdire). Il Signore ha seminato nei nostri cuori la capacità di ascoltare. Quanti drammi umani, familiari o comunitari sorgono a cominciare dalla mancanza di ascolto! Perciò sogliamo riunirci in comunità per ascoltare insieme la voce di Dio (preghiera comunitaria) ed ascoltarla attraverso le voci dei fratelli (riunioni e capitoli comunitari). Anche comunitariamente siamo chiamati ad ascoltare chi condivide la nostra missione ed i suoi stessi destinatari (missione comunitaria).
Giuseppe, nel vedere i suoi fratelli affamati in Egitto, comprende finalmente che il disegno di Dio ha trasformato in bene quel male che loro avevano pensato di fargli. Aprendo Giuseppe il suo cuore ai sogni degli altri, Dio gli ha dato di conoscere i propri sogni. I sogni di Dio per lui, per i suoi fratelli, per il suo popolo. Per questo, ad immagine di Dio, anche Giuseppe è misericordioso e perdona.
Come fratelli predicatori, riconosciamo anche in San Domenico queste stesse viscere di misericordia e compassione. Penso che le più belle parole nei confronti del Nostro Padre siano quelle del beato Giordano di Sassonia quando scrive nel Libellus: “Accoglieva tutti nell’immensa carità del suo cuore e poiché amava tutti da tutti era amato”.[16]
Leggiamo nelle nostre Costituzioni: “Affinché ogni convento costituisca una comunità fraterna, i frati si accettino a vicenda e vivano insieme come membra di uno stesso corpo, diversi certamente per indole e per incarichi, ma uguali nel vincolo della carità e della professione” (LCO 4 § I).
Perciò i frati, unanimi tra di loro per l’obbedienza, affrattellati in un amore più elevato per la disciplina della castità e dipendendo più strettamente gli uni dagli altri per la povertà, in questa maniera cercheremo di edificare per prima cosa nei nostri conventi la Chiesa di Dio che, mediante la nostra vita e missione, dobbiamo diffondere in tutto il mondo (cf. LCO 3 § II).
Potremo conseguire qualche volta questa fraternità per noi stessi? La nostra società sempre più globalizzata forse ci fa più vicini, ma non necessariamente più fratelli. In effetti, “la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna”.[17]
Questa “perla” preziosa, la nostra fraternità domenicana, è grido che raggiunge tutta la terra, linguaggio che arriva fino ai confini del mondo (cf. Sal 19 (18),5). Che risplenda come la nostra migliore lode, benedizione e predicazione, perché ogni uomo è mio fratello[18] e noi siamo stati chiamati a predicare a tutti i popoli, a consolarli, parlando al loro cuore.
Ai fratelli pace e carità con fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo (Ef 6,23).
Nel Nostro Santo Padre Domenico
Fra Carlos A. Azpiroz Costa O.P.
Maestro dell’Ordine
[1] Cf. Giovanni Paolo II, Discorso all’aeroporto di Tarbes (Francia), 14 Agosto 2004; Discorso ad un gruppo di vescovi francesi (in visita ad limina), 12 Aprile 1997, ed in molti altri testi simili.
[2] “I nostri frati si chiamino frati predicatori. e non con altri nomi”. Cf. Acta Capitulorum Generalium 1256, Ed. B. M. Reichert, vol. I (Romæ 1898) 81.
[3] Segnalo i più importanti. Concilio Vaticano II: Lumen Gentium (1964) Caput VI – De religiosis; Perfectæ Caritatis (1965). Paolo VI: Evangelica Testificatio (1971). Giovanni Paolo II: Redemptionis donum (1984); Vita consecrata (1996). Congregatio pro Religiosis et Institutis Sæcularibus: Elementi Essenziali (1983); Congregavit nos in unum Christi Amor (1994); Ripartire da Cristo (2002); Faciem tuam, Domine, requiram (2008).
[4] Cf. ACG 1977 (Quezonopoli), Caput IV – De vita nostra religiosa in mundo hodierno; ACG 1980 (Walberberg), Caput IV – De vita nostra religiosa in mundo hodierno; Caput V – De Vita Communi; ACG 1983 (Romæ), Caput XIII – De gubernio et vita religiosa; ACG 1986 (Abulensis), Caput VII – De vita religiosa; ACG 1989 (Oakland), Caput II – De vita communi; ACG 1992 (Mexici), Caput III – De vita communi; ACG 1995 (Calarogæ), Caput III – De Vita communi fraterna; ACG 1998 (Bononiæ), Caput III – De formatione et vita communi; ACG 2001 (Providentiæ), Caput IV – De vita contemplativa – de vita communi; ACG 2004 (Cracoviæ), Caput IV – De vita communi; ACG 2007 (Bogotæ), Caput IV – Passion for the Dominican life – Life of the brethren.
[5] Fra Vincent De Couesnongle: Lettera sulla dimensione contemplativa della nostra vita domenicana (1982 – IDI nº 200); Fra Damian Byrne: Lettera sulla vita comune (1988 – IDI nº 262); Fra Timothy Radcliffe: Libertà e responsabilità domenicana – Verso una spiritualità del governo (1997 – IDI nº 353), La promessa di vita (1998 – IDI nº 361).
[6] Sarà, con l’aiuto di Dio, il 287º Capitolo Generale dell’Ordine; cf. Innocentius Taurisano OP, Hierarchia Ordinis Prædicatorum – Prima Pars (Romæ 1916) 18-25; cf. Angelus Walz OP, Compendium Historiæ Ordinis Prædicatorum (Romæ 1958) 699-700.
[7] Eneus Domitius Ulpianus (Â… Roma 228).
[8] Geraldus de Frachet, Vitæ Fratrum (ed. Reichert, MOPH t. 1), II pars, cap. XLV, III.
[9] Il lamentarci per quanto ci infastidisce o ci disturba non ha nulla a che vedere con la correzione fraterna che ci è insegnata da Gesù nel Vangelo (cf. Mt 7,15; 18,15-18). La correzione fraterna consiste nel tendere – mossi dalla carità – non alla punizione, ma al progresso dei fratelli. San Tommaso la considera uno degli atti esterni o effetti della carità (cf. S. Th., II-II, q. 31, prol. e q. 33).
[10] Cf. Benedetto XVI, Omelia nella Messa di apertura della XI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (2 Ottobre 2005).
[11] Cf. Gaudium et Spes 1.
[12] Cf. LCO 1 § VI.
[13] Cf. Summa Theologiæ I, q. 21, aa. 3-4.
[14] Cf. San Tommaso d’Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, I, d. 43, q. 2, a. 2 ad 4.
[15] Cf. Benedicto XVI, Caritas in Veritate, nº 6.
[16] Cf. B. Jordanus, Libellus de principiis Ordinis Prædicatorum n. 107 [Ed. H. C. Scheeben, MOPH (1925) t. 16].
[17] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 19.
[18] Paolo VI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1971 (14 Dicembre 1970).

Ordine dei Predicatori
Provincia San Tommaso d'Aquino in Italia
Curia Provinciale - Convento Madonna dell’Arco - 80048 Sant’Anastasia (NA)
Tel +39 081.89.99.111 - Fax +39 081.89.99.314 - Mail: info@domenicani.net
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