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LETTERA DEL MAESTRO DELL'ORDINE
“CAMMINIAMO CON GIOIA E PENSIAMO
AL NOSTRO SALVATORE”
ALCUNE RIFLESSIONI SULL’ITINERANZA DOMENICANA
AL NOSTRO SALVATORE”
ALCUNE RIFLESSIONI SULL’ITINERANZA DOMENICANA
Miei cari fratelli e sorelle in San Domenico:
Vi scrivo con timore e tremore. E, per animarmi, comincio col farvi una confidenza. Negli ultimi tempi, ho letto e meditato i diversi messaggi che gli ultimi quattro Maestri dell’Ordine hanno scritto all’Ordine. Mi riferisco a questi, per menzionare soltanto quelli che la Provvidenza ha posto al servizio della Famiglia Domenicana dai tempi del Concilio Vaticano II fino al 2001. Non posso che esclamare: quanta ricchezza! Quanto profonda la parola che ci hanno predicato con tanta generosità e dedizione![1]. Di fronte a ciò – questa è una mia confidenza fraterna – com’è difficile scrivere una lettera all’Ordine! Mi spiego… Sembra che tutto sia già stato detto! Che cosa posso dire di nuovo ai miei fratelli e sorelle in San Domenico?… Al tempo stesso constato, con dolore, che in molte comunità (mi riferisco specialmente a quelle dei frati), forse si conoscono appena gli Atti degli ultimi Capitoli Generali, testi che sono vero programma di vita domenicana per il nostro tempo! Da ultimo, come può succedere a tanti, e non soltanto nell’Ordine, mi coglie la sensazione di trovarmi di fronte ad una certa “inflazione” di documenti, testi, messaggi, lettere, sui temi più vari (impossibili a leggersi con profitto prima che ne arrivi uno nuovo).
DIVERSE ESPERIENZE NEGLI ULTIMI SEI ANNI
1. Tempo fa, un provinciale, conversava con me confidenzialmente sulla situazione della sua Provincia. Pensando ad alta voce, lamentava, con una certa tristezza: “Nella mia Provincia non posso fare nessuna assegnazione”. Queste parole mi impressionarono molto. Non posso smettere di pensarci e di pensare alle conseguenze.
Non è una novità: in questi ultimi anni ho vissuto due esperienze molto diverse. Il lavoro come Procuratore Generale. Questo ufficio “sedentario”, come pochi lo sono, mi ha posto in contatto con molte situazioni molto delicate per la vita domenicana e religiosa di molti fratelli e sorelle. Oggi, nell’esercizio di questo ministero, molto più “nomade”, quando visito le comunità nei diversi paesi, scopro una “sinfonia-policromatica” dell’Ordine, nella Chiesa e nel mondo, da un punto di vista differente. Tuttavia entrambe le prospettive mi hanno portato ad un’unica intuizione. Mi hanno fatto scoprire che c’è qualcosa che realmente “blocca”, minacciando le radici della nostra vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo: una certa immobilità. Quest’inerzia provoca una sorta di paralisi, un “istallarsi, o sistemarsi”, che ferisce mortalmente le energie più generose del nostro essere per vivere come figlie e figli di San Domenico.
2. Una delle caratteristiche che Domenico di Caleruega ha incarnato, nell’imitazione degli apostoli, e che noi abbiamo ereditato come suoi discepoli, è l’itineranza evangelica. Con la grazia di Dio, per dirla in modo visivo, egli ha rotto i limiti di uno schema “geografico” nell’organizzazione e nella vita della Chiesa, basata fondamentalmente sulla struttura diocesana da un lato, e – parlando della vita religiosa – sulla struttura della vita monastica e dei canonici regolari. Certamente, la storia della Chiesa missionaria non cominciò con l’Ordine dei Predicatori. Quanti monaci missionari, per esempio, hanno evangelizzato le regioni dell’Europa! Domenico, però, volle fondare, in medio Ecclesiæ, un Ordine che fosse e si chiamasse di predicatori.
“IN QUEL TEMPO, …”: METTERSI IN CAMMINO CAMBIA LA VITA!
3. Quando eravamo bambini ci piaceva molto ascoltare o leggere storie reali o immaginarie. Molte di queste cominciavano con il tipico “C’era una volta”. Salvando le differenze, quando si proclama il Vangelo, seguendo Gesù nel suo cammino, si è soliti iniziare la lettura con le parole: “In quel tempo” …
Fra Giordano, con la freschezza del discepolo, come volendoci far innamorare delle nostre origini, scrive nel suo Libellus:
“In quel tempo, accadde che Alfonso re di Castiglia, volendo sposare suo figlio Ferdinando con una nobile delle Marche, si rivolgesse al vescovo di Osma affinché volesse prendersi l’incarico di essere suo procuratore in tale affare. Il vescovo accondiscese alla preghiera del re e, preso con sé … il già menzionato uomo di Dio, Domenico, sottopriore della sua Chiesa– si mise sollecitamente in cammino, giungendo a Tolosa” [2].
4. Marie-Humbert Vicaire nella sua “Storia di San Domenico”, con vari argomenti storici, riferisce che quest’invito di Alfonso VIII al vescovo di Osma fu fatto verso la metà del maggio del 1203. Il celebre biografo francese, seguendo Giordano, conclude: “Il vescovo non ha tardato a porsi in cammino, portando con sé Domenico. Era metà ottobre del 1203.”[3] Questo 800 anni fa! Questo non è luogo né momento appropriato per entrare nei dettagli. Neppure per soffermarci in un’analisi storica e cronologica più esaustiva. Sappiamo – questo sì – che questo viaggio cambiò per sempre la vita di questi due amici. Infatti, attraversati appena i Pirenei, i due uomini di Dio poterono comprovare un fatto che fino allora non conoscevano che per sentito dire: la sfida dell’eresia di radice manichea, profondamente penetrata in quella regione per mezzo di gruppi e sette diverse. Come esempio eloquente dell’impatto che questa nuova realtà provocò in entrambi i viaggiatori, Giordano ci racconta il noto episodio del locandiere:
“In quella stessa notte in cui furono ospiti della città di Tolosa, il sottopriore, dopo lunga, calorosa e persuasiva discussione, riuscì con l’aiuto dello Spirito di Dio a convertire l’eretico che li ospitava, il quale, non potendo resistere alla sapienza dello spirito che parlava in lui, tornò alla fede”[4].
La “missione matrimoniale”, lo sappiamo, esigerà un altro viaggio e infine terminerà in un fallimento. Un fallimento? Sì, però pregno di vita nuova! Così lo esprime Giordano di Sassonia:
“Dio aveva ordinato a un bene maggiore la causa del suo viaggio, in quanto esso doveva essere occasione per preparare un matrimonio molto più eccellente per tutta la Chiesa, un vincolo cioè di eterna salvezza fra Dio e le anime che sarebbero poi state salvate in tante maniere dai vari errori del peccato (2 Cor 11,2). Il che fu poi comprovato dagli eventi che seguirono”[5]
5. Una missione diplomatica, in nome del Re – un repentino cambiamento di piani nella vita di Diego e Domenico – è l’occasione che finisce per offrire un colore diverso alle loro storie, illuminate da una luce rinnovatrice della grazia. Un vescovo e un sottopriore di un Capitolo della Cattedrale, chiamati a crescere, a produrre frutto nel giardino limitato di Osma, incontrano un panorama ecclesiale e storico totalmente diverso. Conoscevano sì le conseguenze delle eresie, al di là dei Pirenei, però “solo per sentito dire”. Qualcosa di analogo al giusto Giobbe, che, alla fine della sua dura esperienza di vita, in dialogo aperto con Dio, esclama: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono”[6].
Dio, infatti, chiamava Diego e Domenico ad iniziare in terra straniera una nuova evangelizzazione che, con il tempo, avrebbe avuto orizzonti universali. Il cammino, oltre il già conosciuto, aprì loro gli occhi dell’anima. Non torneranno più ad essere gli stessi. I due viaggi diplomatici (nel 1203 e 1205 rispettivamente) hanno avuto conseguenze “vocazionali” per ambedue, e non perché abbiano scoperto una vocazione diplomatica!
Diego di Osma, (nel 1206?), chiederà al Papa Innocenzo III la grazia di accettare la sua rinunzia all’episcopato, dato che era suo desideratissimo proposito dedicarsi, con tutte le sue forze, alla conversione dei Cumani, popolo pagano dell’Ungheria orientale. Il Papa non accettò la sua rinunzia. Lo sappiamo. Il Vescovo, in seguito, prese l’abito di Cîteaux; consiglia i Legati pontifici circa la predicazione della fede contro gli Albigesi; per due anni si coinvolge seriamente in questa missione itinerante; decide di ritornare alla sua sede di Osma; ma, in breve, cade infermo e muore verso la fine del 1207.
Conosciamo, per maggiori, dettagli la vita di Domenico. Dal tempo dei viaggi alle Marche fino alla morte, la sua vita sarà quella di un apostolo itinerante. Direi – e perché no? – che da questo VIII centenario del “primo viaggio missionario” di Domenico, cominceremo a celebrare, con gioia, altri “ottavi centenari” di straordinaria bellezza e importanza per tutta la Famiglia Domenicana, tra i quali la fondazione di Prouilhe sempre considerata come la prima comunità dell’Ordine.
L’ITINERANZA NEL CUORE E NELLA MENTE DI OGNI DOMENICANO!
6. Fra Paolo di Venezia, testimone nel processo di canonizzazione di San Domenico, racconta che “maestro Domenico” diceva a lui e agli altri compagni di viaggio: “Andate avanti, e pensiamo al nostro Salvatore”. Testimonia anche che “ovunque si trovasse, parlava sempre di Dio o con Dio”. Confessa “di non averlo mai visto in collera, né agitato o turbato, né per la fatica del viaggio o in qualunque altra circostanza, ma di averlo sempre visto contento nelle tribolazioni e paziente nelle avversità”[7]
7. Dunque? Una lettera all’Ordine sull’itineranza? Quello che frati, monache, suore, laici… famiglia domenicana tutta, hanno in mano, quello che leggeranno e –lo spero – mediteranno nel loro cuore, personalmente e in comunità, è il frutto di una riflessione fatta nel seno del Consiglio Generalizio. Quando ho cominciato a pensare, e a riflettere, sul tema dell’itineranza nella vita domenicana, ho preparato una riunione con il Consiglio Generalizio al completo. Ho invitato anche fra Manuel Merten, Promotore Generale per le monache. Con sufficiente tempo ognuno dei frati ha
preparato una breve esposizione sui diversi aspetti dell’itineranza nella nostra “sequela Dominici”: itineranza e vita spirituale; itineranza e cammino formativo e intellettuale; itineranza e voti religiosi; itineranza e vita comune; itineranza e vita contemplativa; itineranza e governo domenicano; itineranza e inculturazione; itineranza e fenomeno della mobilità umana; itineranza e missione; ecc… In un raduno di tre giorni, fuori Roma, ciascuno ha presentato il suo tema e tutti abbiamo dialogato su questi ed altri aspetti della nostra itineranza domenicana.
Confesso che la qualità delle riflessioni è stata tale che, alla fine, già non mi sentivo più capace di scrivere sul tema una lettera che abbracciasse tanta ricchezza. È così ampio l’arcobaleno di temi da trattare! Dall’altra parte, non potevamo neppure pubblicare semplicemente i quindici “testi” preparati. Lungi da noi pretendere di pubblicare una “enciclopedia” o un “dizionario” sul tema!
In una seconda tappa, abbiamo cercato di meditare su alcuni temi centrali intorno ai quali ruotano altri, e che abbiamo studiato insieme. Per questo ho chiesto a quattro fratelli di presentare una sintesi elaborata di quello che avevamo condiviso come comunità. Dunque vi presento il risultato del nostro lavoro. Fra Roger Houngbedji (Vicariato dell’Africa Occidentale, Provincia di Francia, Socio per l’Africa) ha scritto sulla “Itineranza nella Bibbia”. Fra Manuel Merten (Provincia di Teutonica, Promotore per le monache) ci offre la sua riflessione sulla “Itineranza e vita contemplativa”. Fra Wojciech Giertych (Provincia di Polonia, Socio per la Vita Intellettuale) scrive sulla “Itineranza nel cammino formativo e intellettuale”. Finalmente, fra Chrys McVey (Vice- Provincia di Pakistan, Socio per la Vita Apostolica e Promotore della Famiglia Domenicana) ci parla della “Itineranza e missione”.
La parola iter – itineris (in greco: ‘odos) significa: cammino, viaggio, marcia, giornata. Mettiamoci dunque in marcia per percorrere insieme questo paesaggio interiore domenicano.
I - L’ITINERANZA NELLA BIBBIA
8. L’itineranza appare tema costante nella Bibbia. Il popolo della Bibbia si definiva principalmente, infatti, come un popolo in cammino. La parola “ebreo”, con la quale è conosciuto, deriva da “ibri” (da “eber”, che vuol dire “l’altro lato” di un limite) ed evoca l’idea di emigrazione. Il popolo ebreo è dunque un popolo sostanzialmente in migrazione, un popolo nomade. È in quest’ottica che i grandi credenti dell’Antico Testamento, (particolarmente i Patriarchi) vanno considerati come “forestieri” (xenoi), per il fatto che non hanno potuto ottenere (ma lo hanno visto soltanto da lontano) l’oggetto delle promesse fatte loro dal Signore (cf. Gen 23.4; Es 2.22; 1 Cro 29.15; Salmi 39,13; Lev 25.23). Tutta la storia del Popolo di Israele sarà dunque vista come una lunga marcia verso la realizzazione delle promesse di Dio nel suo Messia.
La comunità cristiana (il nuovo Popolo di Dio) sarà anch’essa chiamata “la Via” (Cf Atti 9,2; 18,25; 19,9.23; 22,4; 24, 14.22), cosa che traduce con trasparenza l’idea di cammino o d’itineranza. Da questo punto di vista l’autore dell’epistola agli Ebrei presenterà la comunità cristiana come una comunità di pellegrini sulla terra (Eb 11,13), in cammino verso la città futura solidamente costruita (Eb 13,14). I cristiani vivono quaggiù come degli “sradicati”, ma “radicati” lassù, nella città celeste, meta del loro cammino. San Pietro, nella sua lettera (1 Pt 1,17), dimostrerà che dal momento in cui i cristiani non appartengono che a Dio, devono considerare il loro passaggio sulla terra come un soggiorno transitorio, senza alcun attaccamento a questo mondo. Il termine tecnico usato dal Nuovo Testamento per esprimere questa situazione transitoria del cristiano in questo mondo è parepidêmos, e designa lo straniero non stabilito, il viaggiante, e si oppone allo straniero residente in permanenza. 5
Appare, nella mentalità biblica, che tutta la vita del credente, il suo rapporto con Dio, è polarizzato dall’idea di marcia, di strada, d’itineranza. La questione sta nel sapere in che consiste quest’itineranza o che cosa la caratterizza. Uno sguardo d’insieme permetterà di individuare tre grandi tratti caratteristici dell’itineranza biblica.
ITINERANZA COME ESODO
Spostamento spaziale
9. Il cammino di Dio (hodos) si definisce qui come una partenza, un’uscita, un esodo. Il credente è chiamato a staccarsi da un luogo determinato, a rompere il suo attaccamento ad un mondo materiale o geografico per mettersi a cammino e andare altrove. L’itineranza è intesa qui nella sua accezione geografica, fisica. È in questo senso che si può capire l’itineranza di Abram che deve partire dalla sua terra per avventurarsi in un paese straniero (Gen 12,1-9). La Parola, che Dio gli indirizza, porta il patriarca a compiere una rottura totale con la sua patria, e con tutti i legami umani per lanciarsi su un percorso, lungo il quale soltanto la fede è importante. La fede del patriarca consiste, precisamente, in una risposta incondizionata che lo conduce ad ingaggiarsi su un cammino di cui Dio solo conosce la fine. È la stessa cosa per il profeta Elia che si metterà in marcia fino all’Oreb dove Dio, attraverso una brezza leggera, gli si rivelerà (1 Re 19, 4-8). L’itineranza dunque, esige un salto nello sconosciuto, che è il luogo della fede.
Peraltro, il popolo eletto, nel suo insieme, è segnato anche dall’esperienza dell’Esodo dall’Egitto, un’esperienza che determinerà tutta la sua vita. Condotto da Dio e da Mosè, esso è chiamato ad impegnarsi su una lunga e difficile strada, nella quale, attraverso mille prove, arriverà a conoscere il suo Dio e ad entrare nella terra promessa. A causa dei suoi numerosi peccati il popolo sarà nuovamente esiliato in Babilonia dove dolorosamente farà esperienza della sua condizione di “pellegrino” considerandosi come un gruppo di rifugiati o di esiliati in terra straniera (cf Salmo 137). E alla sua liberazione, sarà di nuovo chiamato a lanciarsi in un nuovo esodo, segno della liberazione, che sarà realizzata dal ‘Servo del Signore’ la cui missione consiste nel far uscire dalla schiavitù più profonda costituita dal peccato (Is 42, 1-9; 53, 5-12) ogni uomo.
Nel Nuovo Testamento Gesù sarà presentato come un grande itinerante. Nei vangeli, infatti, Egli appare come un viaggiatore, è sempre in cammino (cf. Lc 9,57; 13,33; Mc 6,6b), passando dalla Samaria in Galilea o dirigendosi verso Gerusalemme (Lc 9,51). Egli stesso si presenta come il Figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo (Lc 9, 58). Invierà anche i discepoli sulla strada (Lc 10, 1-9; Mt 10, 5-15) ed indicherà la condizione del discepolo come impegno per seguirlo (Lc 9, 59-62; Mc 2, 13-14; Giov 1,43). Tutta la missione degli apostoli, dopo la morte di Gesù si compirà dentro la prospettiva di una grande itineranza (cf Atti 16, 1-10; 2 Cor 11, 23-28).
Da questo risulta che l’itineranza nella Bibbia è, prima e anzitutto, geografica/spaziale nel senso di passaggio di un luogo all’altro – la parola passaggio avendo anche il significato di Pasqua, Esodo (Gesù ha compiuto la sua Pasqua passando da questo mondo al Padre suo: Giov 13,1). È doveroso notare che lo spostamento spaziale si fa sempre in vista di una missione.
Spostamento spaziale in vista di una missione
10. Nella prospettiva biblica, gli spostamenti, nel quadro di un comandamento o di un’obbedienza, molto frequentemente si fanno in vista di una missione: un messaggio da portare, qualcosa da adempire. È il caso di Mosè, per esempio, il cui incontro col Signore (Es 3, 1-6) sarà l’inizio della sua missione: precedentemente, a causa della polizia, Mosè è dovuto fuggire d’Egitto (2,15) ma, su 6 richiesta di Dio (2, 15), vi ritorna per liberare il popolo. Lungo questa missione egli riceverà frequentemente richieste da parte del Signore per incontrarsi col Faraone e guidare il popolo nel deserto, per ricevere la Legge e consegnarla al popolo. Tutto il libro dell’Esodo si presenta come itineranza vissuta in obbedienza a Dio. Succede lo stesso nei libri profetici. Il profeta è colto da Dio, nella situazione in cui si trova, per compiere una missione. Molto frequentemente questa missione lo porta a confrontarsi col re o con le autorità religiose, ad arrischiare la propria vita. Ciò vuol dire che l’obbedienza richiesta suppone non soltanto uno spostamento, ma anche un rischio da assumere. La missione non è mai senza pericoli. Elia, modello di profeta, ne fece l’esperienza: dovette fuggire dal suo paese per salvare il futuro successo della sua missione (1 Re 17, 3.9), dovette ritornare ed affrontare Acab per dargli il messaggio dettato da Dio (1 Re 18,1; 21,18-19) ed abbandonare il luogo dell’incontro con Dio per poter continuare la sua missione (1 Re 19,15-16). Abbiamo come un sunto schematico di questo quando il profeta chiede ad un semplice credente d’essere il suo intermediario: il comando è per uno spostarsi, in vista di un messaggio da dare, ma c’è un rischio, e dunque c’è ragione per aver paura (1 Re 18, 7-16). Nel Nuovo Testamento, il comandamento che esige un andare è sempre associato alla predicazione del Regno, del tempo di Gesù (Cf Lc 9,2), o alla missione, dopo la sua risurrezione (Mt 28, 19-20). Le condizioni ne sono precisate: trattasi di viaggiare senza bagagli ingombranti e senza mezzi speciali. E sappiamo che il rifiuto dell’itineranza porta all’insuccesso (Mt 19, 16-22; Lc 18,18-23; Mc 10, 17-22).


ITINERANZA COME CONVERSIONE
11. All’itineranza geografica/spaziale si collega l’itineranza spirituale che appare come il luogo della conversione, intesa come metanoia (il cambiamento radicale dello spirito, di mentalità). Nella Bibbia, l’itineranza geografica è accompagnata dall’itineranza spirituale: il distacco, da un luogo all’altro, si fa in vista del distacco da se stesso, per non appartenere che a Dio. Il termine biblico usato per manifestare questo legame tra i due tipi d’itineranza è “derek” (cammino), derivato da “darak ” (camminare) e designa il cammino spirituale da intraprendere per corrispondere alla volontà ed al piano di Dio. Nella mentalità d’Israele, a causa dei suoi peccati e del rifiuto di realizzare i disegni di Dio, l’uomo deve conformare il suo modo di esistere, i suoi fatti, i suoi gesti, alla volontà divina (Mich 6,8; Is 30,21; Os 14,10; Salmo 119,1). Questa è, per lui, la condizione per arrivare alla vera vita (Prov 2,19; 5,6; 6,23;Dt 30,15; Ger 21,8). La conversione consiste tutta nel processo spirituale (itineranza spirituale) da intraprendersi per corrispondere alla volontà di Dio. È in questa prospettiva che si può comprendere tutta la trasformazione che si opera nella vita del profeta, che riceve una missione specifica da Dio. Il richiamo di Dio lo afferra e cambia profondamente il suo statuto sociale, il suo modo di vita, nello stesso tempo in cui gli si domanda di compiere una missione che comporta uno spostamento, un’itineranza (Cf Os 1,2; Giona 1,2; 3,2). Lo spostamento qui non è soltanto spaziale ma anche simbolico nella misura in cui tocca allo stesso tempo la vita del profeta e quella del popolo, nel suo rapporto con la Legge. Si afferra questa stessa idea nel Nuovo Testamento attraverso il termine “hodos”, la via (Atti 18,26), che i discepoli devono intraprendere per giungere alla vita (Mt 7, 13-14). È in questa prospettiva che s’iscrivono le condizioni poste da Gesù per entrare nel Regno (Mc 1, 15), le stesse che si esigono dai discepoli che vogliono seguirlo (Mc 8, 34-35). Seguire Cristo, qui, spinge il discepolo a rinunziare radicalmente a sé stesso, e a tutte le sue tendenze egoiste, per far dipendere la sua vita unicamente da lui. Il seguire Cristo (l’itineranza geografica) è condizione dalla rinuncia radicale, come luogo di conversione (itineranza spirituale). L’itineranza spirituale si presenta come il luogo di un’identificazione al Cristo.
ITINERANZA COME IDENTIFICAZIONE AL CRISTO
Il Cristo come cammino
12. La grande innovazione del Nuovo Testamento è l’identificazione del cammino con il Cristo: Cristo stesso si presenta come la via viva che porta al cielo e dà accesso al Padre (Giov 14,6). Questa identificazione del Cristo con la via, mostra che il cammino da intraprendere (sia fisico, sia spirituale) non è un insieme di leggi o di attitudini, ma è la Persona del Cristo, l’unica via con la quale il discepolo deve identificarsi per avere accesso a Dio Padre. Tutto il cammino del cristiano (la sua itineranza) dunque consisterà nell’identificarsi col Cristo per mezzo della vita di fede. Credere al Cristo, dunque, consiste, nell’andare, nell’unirsi a lui (impegnarsi esistenzialmente con lui) in modo da appropriarsi i suoi doni e ricchezze, condizione per arrivare a Dio. L’identificazione col Cristo (il cammino che guida al Padre) si presenta qui come ciò che dà al cristiano consistenza, stabilità, permettendogli di perseguire il percorso nonostante difficoltà e prove del cammino. Detto in altro modo, identificarsi col Cristo – luogo di una vita di fede e di radicamento nella sua Persona – è ciò che dà al discepolo lo slancio per una vera itineranza. Non c’è dunque vera itineranza senza la ricerca di una fermezza o stabilità in Cristo.


Obbedienza ed itineranza nell’Ordine
13. L’identificazione al Cristo – luogo di conformità alla sua volontà e di obbedienza – nell’Ordine, ha un legame molto forte con l’itineranza. Infatti, nella tradizione domenicana, l’itineranza, per forza dell’obbedienza è all’origine stessa dell’Ordine, o piuttosto del suo sviluppo spettacolare fuori della regione tolosana. San Domenico disperde i frati due a due (Libellus 47), probabilmente pensando all’azione di Gesù che invia i suoi discepoli a due a due. Si trattò di un’obbedienza che escludeva la discussione (Cf Deposizione di Fr. Giovanni di Spagna, Deposizione di Bologna, 26) e che fu mantenuta nonostante l’opposizione dei frati e delle autorità civili e religiose amiche di san Domenico. I frutti saranno lo sviluppo magnifico dell’Ordine. Là ancora si trattava di una dispersione in vista di una missione, quella della predicazione e della propagazione della vita apostolica secondo il modello pensato e voluto da San Domenico. Le deposizioni al processo di canonizzazione di Maestro Domenico dimostrano che i frati viaggiavano molto da un luogo all’altro in funzione delle necessità della predicazione. Un esempio di questa mobilità è l’assegnazione del Beato Reginaldo a Parigi, quando faceva meraviglie a Bologna (Libellus 61-62).
L’obbedienza religiosa non è fine a se stessa. Essa sta al servizio della missione dell’Ordine, tale com’è definita dai Capitoli Generali e Provinciali, ed assicura all’Ordine la libertà necessaria alla sua azione (Bologna 33). Essa è uno strumento, per mezzo del quale, i frati, come corpo costituito, rispondono alle esigenze del bene comune di raggiungere insieme ciò che è stato scelto insieme. L’obbedienza dunque non è l’espressione del capriccio di un superiore o del Capitolo, ma l’espressione personalizzata dello sforzo che si richiede a tutti in vista della missione o del bene dell’Ordine, in circostanze particolari e normali. E siccome queste sono, per natura, mutevoli, occorre che i frati accettino anche il cambiamento per rispondere meglio alla missione. La mobilità intellettuale, apostolica, degli uffici, dei luoghi, è dunque la conseguenza della missione valutata e voluta in comune. Tanto l’immobilismo, quanto l’eccessiva mobilità sono evasioni in relazione alla missione. L’obbedienza è il mezzo per regolare la mobilità in vista della missione, provocare l’itineranza al fine di rispondere alle necessità, imposte dalle circostanze, o volute da un Capitolo. Evidentemente, per ritornare a quello che la Bibbia c’insegna, l’itineranza voluta e accettata nel quadro dell’obbedienza religiosa suppone la fede, da una parte nella capacità dell’istituzione di discernere il bene comune e, dall’altra parte, in Dio poiché è il suo Vangelo che sta all’origine della nostra presenza nell’Ordine, e all’origine della missione affidata dalla Chiesa, alla quale serviamo nel miglior modo possibile. In questo senso, per noi, l’obbedienza religiosa, e l’itineranza che ne risulta, sono intimamente legate alla nostra vita, poiché questa è in vista della predicazione del Vangelo. Non per niente, l’unico voto, che pronunciamo pubblicamente, è quello dell’obbedienza.


II - ITINERANZA – VITA CONTEMPATIVA – MATURITÀ
ITINERANZA O PERMANENZA – ESISTE UNA “PARTE MIGLIORE”?
14. “Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: ‘Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti.’ Ma Gesù le rispose: ‘Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”[8].
È molto probabile che questo brano del Vangelo secondo Luca sia stato, e sia ancora, quello che ha contribuito di più alla comprensione cristiana della contemplazione: la contemplazione è diventata così l’opposto dell’azione, anzi migliore. In quest’immagine sarà certo difficile trovare un indizio dell’itineranza come valore speciale per un vero discepolo di Cristo, tranne il fatto che il Signore stesso e quelli che lo accompagnavano “erano in cammino” prima di entrare nella casa di Betania.
Tuttavia, questo potrebbe essere un passaggio ancora male capito, come se, condannando l’azione, desse preferenza spirituale ad una “vita tranquilla nascosta” o ad un “luogo ritirato per la contemplazione”[9]. Difatti, a prima vista, sembra che “itineranza” sia esattamente l’opposto del modo in cui Maria si comporta nel vangelo di Luca. Lei non fa proprio niente per dare una mano alla sorella!
Ancora ragazzo, mi sentivo un po’ scomodo davanti alla reazione del Signore alla richiesta di Marta. Da una parte, nel mio modo innocente di pensare, Gesù approfitta del lavoro diligente e duro di Marta, eppure, dall’altra parte e allo stesso tempo, incoraggia Maria, seduta ai suoi piedi, solo ad ascoltare. Mi spiaceva molto per Marta, e Maria m’infastidiva. La consideravo un po’ pigra, una che Gesù lodava un po’ ingiustamente. Immaginavo mia sorella mentre leggeva la Bibbia, mentre io dovevo lavare i piatti – certamente avrei considerato mia sorella come quella che aveva scelto la parte migliore, ma in nessun modo come quella che, al colmo, ne meritava le lodi. Ma chi può contraddire Gesù? Avrei voluto tuttavia chiedergli: “Allora, che valore hanno le parole che hai detto alla donna che dalla folla, alzando la voce ti disse, Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte! Non gli hai forse risposto: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”[10]?
Anche se il mio modo di pensare infantile niente aveva in comune con l’erudizione biblica di oggi, sono tuttavia ancora convinto che avevo ragione nel mettere in discussione un modo di capire la “contemplazione” come “unicamente sedersi per ascoltare”. Secondo lo stesso insegnamento del Signore si deve “osservare la parola”, “agire in conformità con la volontà del Padre”[11].


ITINERANZA E CONTEMPLAZIONE: L’ARTE D’INTERPRETARE IL TEMPO PRESENTE
15. È evidente che si usa male la parola “contemplazione” se la si adopera solo in contrasto con “azione”, quasi fosse un’esortazione per dire che è meglio rimanere in casa e non fare nient’altro che sedersi qua e là ad ascoltare. Hanno ragione le Costituzioni delle Monache del nostro Ordine quando parlano della contemplazione e dell’ascolto, e nello stesso tempo della necessità di lavorare diligentemente, studiare ardentemente la verità, pregare attentamente e partecipare la vita comune[12].
Quindi, almeno secondo la mentalità domenicana, “vita contemplativa” propriamente vuol dire “contemplazione” con “azione”. Così, “contemplazione” è ben differente dalla pigrizia. Non significa rimanere immobili, o inattivi. Anche la clausura delle nostre monache è legata alla comprensione della larghezza e lunghezza, la profondità e l’altezza dell’amore di Dio, che per un solo motivo ha mandato il suo Figlio: la salvezza del mondo intero[13].
Il “vuoto”, così importante per qualunque “contemplazione”, non significa oziosità. Il vangelo secondo Giovanni ci offre la storia di un’altra visita che Gesù fece alla casa di Betania, e questa ci aiuta a scoprire più pienamente le dimensioni della “vita contemplativa”.
“Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento”[14].
Marta di nuovo sta servendo il Signore, Lazzaro è a tavola con Gesù, ma Maria, che, secondo il vangelo di Luca, aveva scelto la parte migliore, questa volta non siede ai piedi di Gesù: al contrario, sta facendo un’altra cosa molto concreta. Pare che, di nuovo, scelga “la parte migliore”. Gesù prende partito in suo favore e l’appoggia contro Giuda Iscariota e l’intervento dei discepoli. Questo ci porta alla domanda: “Qual è il segreto per saper “scegliere la parte migliore”, qual è la vera chiave per vivere “una vita contemplativa”?
Troviamo una risposta a questa domanda nel libro dell’Ecclesiaste, un documento di saggezza – certamente risultato, e frutto, di una vita contemplativa. “Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci” [15].
Dai suoi discepoli Gesù pretende che sappiano “interpretare il tempo presente”[16]. È evidente che Maria di Betania soddisfa pienamente le aspettative del Signore. Lo fa quando siede ai suoi piedi, ascoltando le sue parole, come anche quando prende una libbra di profumo ed è prodiga nell’espressione del suo amore, non preoccupandosi di quello che la gente poteva pensare di lei.
Come ci si può comportare così? Qual è la condizione necessaria per diventare un interprete del tempo presente, un contemplativo, uomo o donna? Maria di Betania dimostra verso il Signore questo tipo speciale di sollecitudine. Maria è totalmente sollecita verso di lui come persona; è completamente sollecita alla sua missione, e allo stesso tempo rimane conscia di se stessa, e di quello che è bene per lei: vive in un rapporto permanente con “l’amato del suo cuore”[17].
In questo senso, sollecitudine significa che tutta la vita è concentrata su una sola cosa: mettersi in relazione con Dio e con la sua volontà. Poco a poco, questo ci formerà al modo di vivere di Gesù: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”[18]. Non c’è dubbio, riguardo all’itineranza di Gesù, che viveva una vita attiva, ma neanche c’è alcun dubbio che pregava in solitudine e in silenzio – la chiave per una vita contemplativa è “l’interpretazione del tempo presente”, la sollecitudine con la volontà del padre, la volontà di lasciar guidare la nostra vita da nessun altro che da Dio, da ciò che Egli ci chiede, qui e adesso, “amando l'Eterno il vostro Dio, camminando in tutte le sue vie, osservando i suoi comandamenti, tenendovi stretti a lui e servendolo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima»[19].
ITINERANZA – CONTEMPLAZIONE – MATURITÀ
16. “Il nostro cuore è senza pace finché non riposa in te” – quest’intuizione di Sant’Agostino collega le nostre riflessioni sull’itineranza e la contemplazione con la maturità nella vita religiosa (come anche nella vita cristiana). Non si può immaginare una maturità senza avanzamento, senza rischi, senza un’itineranza spirituale. Questo processo di crescita, però, ha anche bisogno di fermate, pause, e adattamenti. Ha bisogno sia di sforzi propri, come di sfide esterne.
Il vangelo di Luca ci offre una storia eccellente sul processo di maturazione religiosa e umana[20].
“In quello stesso giorno, due di loro se ne andavano verso un villaggio, di nome Emmaus, distante sessanta stadi da Gerusalemme. Ed essi parlavano tra loro di tutto quello che era accaduto.” L’itineranza – anche se è solo per sfuggire alla depressione – è descritta come una condizione possibile, se non necessaria per la guarigione e la crescita interiore. Lo è anche la compagnia. Non c’è nessun processo di maturazione che possiamo fare da soli. Abbiamo bisogno dell’altro, qualcuno che, al nostro fianco, ci conforti, condivida le nostre ansie e preoccupazioni, ci interroghi.
“Mentre parlavano e discorrevano insieme, Gesú stesso si accostò e si mise a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti dal riconoscerlo. Egli disse loro: «Che discorsi sono questi che vi scambiate l'un l'altro, cammin facendo? E perché siete mesti?». Ora la storia ci fornisce un’ulteriore intuizione sul processo di maturazione: oltre alle sfide che ci sono familiari abbiamo bisogno di sfide che ci vengono dall’esterno. Non è sufficiente lamentarsi e condividere con un circolo di amici. Finché si rimane in quello che già conosciamo, non ci sarà né miglioramento, né progresso.
Si rimane fermi e mesti. Anche se ci si apre ad un incontro con uno sconosciuto, gli occhi potrebbero rimanere impediti nel riconoscere.
“Uno di loro, di nome Cleopa, rispondendo, gli disse: «Sei tu l’unico forestiero in Gerusalemme, che non conosca le cose che vi sono accadute in questi giorni?” Ciò ci conduce ad un’altra intuizione sulle condizioni per maturarsi. Cleopa credeva che lo sconosciuto al loro fianco fosse l’unico che non sapeva. In verità, “chi sa” è soltanto il forestiero. Il processo di maturazione richiede un certo abbandono della sicurezza. Finché è convinto d’esser l’unico a sapere, e che l’altro, lo sconosciuto, il forestiero, non sappia, gli occhi rimarranno chiusi ed il cuore non arderà dentro – e non si arriverà alla maturità religiosa. Allora egli disse loro “O insensati e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno detto!” Questo rivela la necessità di tener conto della possibilità che io sia insensato, che le mie convinzioni siano insensate, anziché quelle che io considero insensate – come i discepoli di Emmaus considerarono insensate le donne del loro gruppo.
“E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.” Qui stiamo vedendo il nesso che esiste tra contemplazione vista come sollecitudine e la crescita spirituale. Si fa necessario ascoltare la Parola di Dio, tener conto della sua stranezza e novità. Difatti è questo che i discepoli di Emmaus stanno facendo. Ascoltano attentamente uno che li aveva chiamati “insensati”. Vanno ancora oltre insistendo con lui: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. In un certo senso era la curiosità, l’attesa di un’intuizione più profonda, un ardente desiderio di capire meglio le cose, che alla fine, insieme alla rivelazione amorosa del Signore, li eleva al riconoscimento e all’essere discepoli maturi. A questo punto, la loro itineranza cambia direzione: da fuga diventa incontro, con gli occhi aperti all’imprevisto.
L’ultimo Capitolo Generale ha messo questo in termini concreti per la vita domenicana contemporanea, quando ha trattato del legame che esiste tra la Contemplazione e la formazione (iniziale): Considerando il mondo che ha formato finora i nostri fratelli, tre elementi possono essere considerati critici per appropriarsi uno spirito contemplativo genuinamente domenicano: costanza, profondità e apertura. La costanza è un rimedio per l’esperienza della transitorietà intellettuale, personale o religiosa, che nella nostra vita si manifesta tanto nello studio durante tutta la vita come nelle osservanze esteriori di preghiera, silenzio e vita comune gioiosa. La profondità contrasta con il piacere, frequentemente superficiale, che l’economia globale promette a molti e concede ai pochi, e genera una guarigione necessaria del desiderio. Ciò può essere più evidente nella crescita in preghiera e virtù, nell’amore allo studio, e in una compassionevole conoscenza di se stesso. L’apertura è frutto di quest’epoca, antidoto alle reazioni che gli sono contrarie. Come domenicani, non possiamo essere veramente predicatori contemplativi, se non siamo aperti alle persone, alle loro esperienze, alla nuova conoscenza, e alle nuove maniere per mezzo delle quali Dio ci sta invitando a servire. Tuttavia, perché questi elementi siano presenti ed effettivi per i nostri fratelli nella loro formazione iniziale bisogna impegnarsi in un rinnovamento della nostra vita in ciascuna delle sue dimensioni (Messico 27.4) e alla partecipazione nella vita comune anche con un certo costo per noi stessi (Ratio Formationis Generalis 166). Così facendo, offriamo ai nostri fratelli, in formazione iniziale, una manifestazione visibile della Sacra Predicazione alla quale sono chiamati e per la quale li invitiamo ad impegnarsi per tutta la vita”[21].
Non posso concludere quest’approccio spirituale all’Itineranza – Contemplazione – Maturità senza almeno accennare ad un altro testo chiave. Lo troviamo alla fine del vangelo di Giovanni: il dialogo commovente tra Gesù e Pietro. Dopo la testimonianza di Pietro: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene”, e la risposta del Signore: “Pasci le mie pecorelle”, il Signore continua: “In verità, in verità ti dico, quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”[22]. Forse è questa la parte più importante della nostra itineranza personale, la più profonda contemplazione e il livello più alto della maturità, quando siamo disposti ad accettare che non siamo più noi a decidere e determinare cosa facciamo, dove andare, cosa lasciare e cosa mantenere – ma tendere le braccia affinché qualcun’altro possa allacciarci la veste e portarci dove non vogliamo – e, ciò nonostante, rimanere in piena fiducia che qualsiasi cosa ci succeda è per il nostro bene, e sempre capaci di confessare: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene”.
III - ITINERANZA NEL VIAGGIO FORMATIVO ED INTELLETTUALE
17. Itineranza indica movimento, la capacità di avanzare con passione, con spirito avventuroso. Riflettendo su quest’aspetto della nostra vita domenicana, possiamo cercare di discernere i modi per i quali, a volte, questo movimento può bloccarsi, in noi stessi, nelle nostre comunità, nelle province. L’ostruzione del movimento interiore è, in ultima analisi, una forma di repressione. Può apparire a livello di emozioni, come una forma di nevrosi; a livello mentale, ed è limitazione ideologica delle facoltà intellettuali; e può apparire anche a livello di vita spirituale, quando la risposta a Dio è paralizzata da freni interiori. È quest’ultima forma di repressione che inibisce maggiormente l’itineranza che è propria al nostro carisma domenicano.
LA LIBERAZIONE DELL’ITINERANZA EMOZIONALE.
18. In una repressione nevrotica, il dinamismo delle emozioni è bloccato da altre emozioni, dalla paura, o da un sentimento di obbligo. Questo conduce all’auto-concentrazione, ad un’incapacità di auto-critica, e ad una serietà che non lascia spazio allo humour. La repressione emozionale è un problema della gioventù, per la quale il timore di sé stessi, della novità, della propria sessualità, di quello che diranno o faranno gli altri, o un alterato senso del dovere si possono trasformare in regola suprema. Essa rende la coscienza incapace di ragionare per sé stessa. Questo può condurre alcuni/e giovani a cercare sicurezza in una vita religiosa protetta. Nella loro fragilità emozionale, possono cercare regole di vita chiare e semplici che dispensano dal rischio e l’avventura. Più che essere mossi da una missione affascinante di predicazione, che è di stendere la mano ai Cumani dei nostri giorni, si ostinano nel rimanere bloccati dalle proprie paure, dalla propria disapprovazione istintiva di tutto quello che comporta novità. Una vita comunitaria sana aiuterebbe a liberarsi di questi timori, a muoversi, e lasciarsi muovere da altri, a ridere dei suoi propri errori con libertà interiore. Beati coloro che sanno ridere di se stessi, perché si divertiranno per tutta la vita!
LA LIBERAZIONE DELL’ITINERANZA INTELLETTUALE
19. Nella repressione intellettuale si proibisce alla mente di avanzare vero la verità in tutta la sua ricchezza e diversità contestuale. Una mente che si astiene dallo sforzo di cercare la verità, o che preferisce le mezze-verità (che hanno una forte attrazione a causa della loro semplicità), è bloccata in una triste paralisi intellettuale o è agitata costantemente da forze esteriori passeggere.
20. L’itineranza non dovrebbe significare la dispersione della mente. Questo è un pericolo intellettuale: l’avere un’attitudine da supermercato, sforzo di conoscere tutto, interessarsi di tutto, accettando tutte le tendenze sociali senza mai criticamente vedere qual’è la relazione che esiste tra loro. La prima fase della formazione intellettuale è un momento nel quale la mente dev’essere alimentata. Abbiamo bisogno di tempo per lo studio, tempo per organizzare tutto in un’atmosfera contemplativa. Abbiamo bisogno di fare domande più profonde, per vedere il nexus mysteriorum, le fondamenta metafisiche della verità.
Gesù disse: “Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!” (Mc 8, 15) I Farisei pensavano d’avere tutte le risposte, la loro mente era bloccata nell’avanzare oltre le loro convinzioni rigide. Erode non aveva nessuna risposta, nessun preconcetto, nessuna ideologia. Cercava il trattenimento, il divertimento. Nel mondo postmoderno, le grandi ideologie sono scomparse, e il mondo cerca solo il divertimento, guadagnare denaro e spenderlo, creare e godere bisogni superficiali. Perciò, la tentazione d’oggi è di rimanere nella superficialità. Una persona giovane che entra nell’Ordine può essere tentata di conoscere tutto, essere interessata a tutto, avere un’abbondanza d’informazioni su temi diversi, dalla TV, dal notiziario, dai viaggi; ma gli mancherebbe la capacità per una visione più profonda. “Si è costretti a costatare la frammentarietà di proposte che elevano l'effimero al rango di valore, illudendo sulla possibilità di raggiungere il vero senso dell'esistenza” (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 6). La prima tappa della formazione intellettuale deve aiutare il giovane ad acquistare convinzioni, ad essere libero dalla schiavitù della moda passeggera. La nostra tradizione domenicana è costruita sulla convinzione che la ragione possieda un’inerente attrazione alla verità, che possa percepire ed abbracciare il vero bene, non perché forzata da pressione di gruppo, ma perché è vera. La capacità di discernere la verità, tuttavia, va sviluppata.
Che tipo di filosofia trasmettiamo ai nostri giovani? Una conoscenza d’idee disparate, contrastanti che aiutano a conoscere le varie linee del pensiero contemporaneo? O una filosofia che integra la mente, dandole fiducia di poter conoscere la verità, permettendole di interpretare criticamente quanto si osserva nella cultura contemporanea? Alcuni hanno bisogno d’aiuto per formulare una sintesi intellettuale prima di volgersi verso nuovi campi del pensiero. Altri, mentre acquistano conoscenze disparate, già hanno convinzioni interiori ben formate.
Un’eccessiva itineranza intellettuale nella fase iniziale della formazione intellettuale può essere disastrosa. Alcuni si muovono da un estremo all’altro nel loro viaggio intellettuale. Cominciano liberali e finiscono ultra-conservatori. Potranno cercare risposte alle loro domande nel Buddismo, nella psicoanalisi, o nelle scienze politiche – senza trovare il tempo per immergersi nella Parola di Dio e nella tradizione Cattolica. La formazione intellettuale iniziale dovrebbe condurre a scoprire un Maestro, un autore approvato dalla Chiesa. Ciò aiuterà lo studente a formulare una sintesi teologica. Costui può essere un Padre o un Dottore della Chiesa, un teologo rinomato, potrebbe ben essere San Tommaso d’Aquino. Se la giovane suora o il giovane frate trascorre molti anni leggendo l’autore scelto, studiando la sua teologia, costruendo il suo ministero e predicando sulle opere del Maestro, questo gli darà un solido punto di riferimento. Il predicatore saprà che cosa sta dicendo. Se non si costruisce una sintesi, si può arrivare ad uno stato di perpetua itineranza, ma senza nessuna convinzione.
21. La necessità di un’igiene intellettuale tuttavia, non dovrebbe condurre alla paura di fare domande. La tradizione tomistica formula il “videtur quod”. La nostra sintesi intellettuale si costruisce sulla convinzione che la mente può afferrare il vero bene. La convinzione che la verità è accessibile, ci dà la possibilità di affrontare ogni tipo di questione senza paura, sapendo che la verità proveniente da qualsiasi fonte, alla fine, viene dallo Spirito Santo. La mente formata, capace di un discernimento critico non teme le nuove idee. Può sviluppare una curiosità ulteriore, può comparare il suo metodo con altri, può acquistare nuove informazioni, espandersi su altri interessi, perché ha una base solida. L’itineranza è possibile quando si ha una casa dove ritornare. Non è un invito al nichilismo intellettuale.
Una mente formata nella ricerca della verità, e nell’afferrarla, sarà libera dalla stagnazione intellettuale. La ricerca della verità dovrebbe impedirci di rimanere prigionieri di una struttura mentale, una visione della Chiesa, o della società, nella quale non c’è nessun’autoanalisi critica. Ci domandiamo dove lo Spirito ci conduce, lo lasciamo fare? La mente ha fame della verità; ma può essere fatta schiava. Questo è il pericolo delle ideologie: fermarsi alla mezza-verità e non lasciarsi condurre alla sua pienezza. Non esistono soltanto le grandi ideologie che hanno imposto varie forme di totalitarismo. Vi sono anche piccole ideologie che bloccano comunità e province. Un certo stile di vita, alcune opinioni sulla Chiesa, sulle necessità di una provincia o congregazione religiosa, si trasformano facilmente in una tradizione irremovibile. Ciò funziona come un dispositivo contraccettivo che blocca la nascita di nuovi concetti; non genera vita. Alla forma di governo democratico domenicano piace molto la novità vivace delle idee, che dovrebbero trovare espressione nei capitoli, nei raduni comunitari, nelle sessioni di formazione. Non tutte le soluzioni proposte saranno adatte, ma un clima comunitario sano permetterà che siano espresse e discusse. Se si costringe la discussione nella terribile clandestinità, le piccole ideologie rinchiuderanno la comunità nella stagnazione.
Si deve intraprendere la ricerca della verità attraverso la vita della comunità, nella attività filosofica, nello studio della teologia, e nel pellegrinaggio della fede. Uno dei drammi nella scena intellettuale contemporanea è l’abbandono della ricerca della verità. C’è una “radicale sfiducia nella ragione come rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di “fine della metafisica”… non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare.” (Fides et ratio, 55-58) La fede provoca la mente filosofica a andare oltre. “Il mistero dell'Incarnazione resterà sempre il centro cui riferirsi per poter comprendere l'enigma dell'esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa stessa rischia di rinchiudersi.” (Fides et ratio, 80)
22. La mente che si dilata in un’itineranza intellettuale, sarà portata ad approfondirsi ancor di più nella verità. Questo è il significato della fede e del dogma. Nella tradizione teologica classica la fede è un dono di Dio che proietta la mente verso Dio. Le dichiarazioni dogmatiche sono dono dello Spirito Santo che ci concede più luce, impedendo che la mente cada in errori, focalizzandola sul mistero che è salvifico. Nel pensiero moderno la fede e il dogma sono stati interpretati come una limitazione alla mente, un’ostruzione alla curiosità imposta dall’autorità ecclesiastica. Una itineranza spirituale coinvolgerà la proiezione della mente verso la verità rivelata. “Come virtù teologale, la fede libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti.” (Fides et Ratio, 76)
Tuttavia, l’adattarsi al mistero divino è doloroso per la mente, perché è nella sua stessa natura che essa desideri la chiarezza, mentre la fede è un incontro con il mistero. Nell’ambito della fede c’è spazio per la ricerca della conoscenza (cogitatio fidei)[23], ma a volte è anche una “co-agitatio fidei”. A causa dell’inerente necessità di chiarezza la mente si turba quando si adatta alla fede. Nello sviluppo della fede la mente incontra la croce. L’esperienza della croce è sempre dolorosa ma, paradossalmente, è vivificante. L’ostacolo più grande per la fede è l’orgoglio intellettuale: l’incapacità o la subcosciente riluttanza di accettare il mistero. Non dobbiamo scrutare la Parola di Dio con strumenti provenienti solo dalle scienze umane, accettando queste scienze (storia, archeologia, linguistica, psicologia, sociologia, filosofie) come l’ultimo criterio, perché questo distrugge la fede. (L’Aquinate, interpretando San Paolo afferma che anche le buone filosofie possono distruggere la fede, se queste filosofie offrono la parola finale!)[24] Siamo chiamati a scrutare la nostra vita con l’ultimo dei criteri, che è la fede. Questo è doloroso per l’orgoglio intellettuale, ma è soltanto così che si può andare avanti. L’itineranza coraggiosa della mente permette l’itineranza a livello spirituale.
LA LIBERAZIONE DELL’ITINERANZA SPIRITUALE
23. Lungo il suo pellegrinaggio di fede la mente ha bisogno di essere liberata da ogni attaccamento. Quando s’inventano nuovi progetti, nuove missioni, quando si percepiscono sfide, quando si concepiscono nuove idee, facilmente ci si rimane attaccati. Essere attaccati ai nostri concetti per un dato momento è cosa buona, ma è molto facile attribuirsene il merito. Quando lo Spirito Santo concepisce la vita nella Chiesa, lo fa senza egoismo, in un dono totale di se. La concezione dello Spirito Santo è immacolata. L’importante è essere altruisti in quello che si fa, con passione. Il motivo che ci muove verso il nostro lavoro deve essere purificato. Oltre alle cattive abitudini o costumi, bisogna purificare anche i buoni progetti per assicurarsi che quello che facciamo lo facciamo per Dio. Senza questa purificazione, l’attaccamento alle nostre idee proprie c’impedisce di crescere spiritualmente, e porterà a costruire imperi personali. L’essenziale è la trasparenza per Dio che lavora dentro di noi. Nell’ispirazione intellettuale, come in quella artistica, c’è la tentazione dell’egoismo. Nel momento in cui un’idea ci viene in mente, immediatamente sentiamo la gioia di poterla usare in un articolo, in un progetto artistico, in un’omilia – per la nostra gloria personale. Lo spirito di dipendenza da Dio, nella itineranza, richiede una povertà spirituale grande. Le cose buone che sorgeranno nella nostra mente, mani e bocca appartengono a Dio e non sono nostre, anche se ad esse abbiamo dedicato la nostra energia ed i nostri talenti.
La professione religiosa per la quale promettiamo a Dio il nostro futuro è una conferma del valore dell’itineranza. L’accettazione dello sconosciuto, ricevuta per fede, come una regola permanente di vita rafforza il nostro attaccamento a Dio, e a Dio solo. Qui nasce la vera fecondità della vita e della missione. In fondo, è la grazia di Dio che permette la nascita del bene per mezzo del nostro servizio.
Scopriremo qual’era la nostra vera vocazione al momento della morte, quando guardando in retrospettiva la nostra vita, vedremo in quali momenti abbiamo reagito meglio alle chiamate dirette a noi. Una vera carriera la costruisce Dio quando in ogni momento della nostra vita ci doniamo totalmente a Lui. Ogni passo, però, ci coglie come di sorpresa, non come la realizzazione di un progetto personale per il quale abbiamo lottato. Nelle prime fasi della vita abbiamo i nostri progetti e sogni, ma Dio ci chiede di abbandonarli, uno ad uno, giacché i progetti di Dio risultano essere poi totalmente differenti. Che cosa possiamo dire della giovane postulante che nella prima metà del ventesimo secolo è entrata in una congregazione domenicana a Mosca? Aveva sognato di viaggiare in ogni parte per vedere il mondo, ma allo stesso tempo aveva riconosciuto che da lei Dio chiedeva qualcosa di più. Abbandonando i suoi sogni, abbraccia la vita religiosa, offrendo a Dio i suoi progetti di viaggi mai realizzati. La risposta di Dio, però, fu ancor più ricca. Prima di terminare il suo noviziato fu arrestata e inviata ai gulag della Siberia. Durante un lungo noviziato visitò innumerevoli campi di prigione lungo il mare Artico e poi lungo la frontiera con la Cina. Il suo desiderio iniziale di viaggiare si realizzò in una maniera diabolica, ma allo stesso tempo divina. Passati sette anni, e soltanto allora, incontrò, in prigione, un’altra suora della sua congregazione, nelle cui mani fece la professione. Una vita sprecata forse,… ma forse no. In mezzo all’empietà e alla disperazione, questa suora domenicana portò il messaggio del vangelo predicato attraverso la sua testimonianza e la sua carità.
24. Qual’è il motivo per il quale alcuni tra noi non vogliono muoversi, non accettano di essere mandati in missione? In alcuni casi, può esistere un individualismo eccessivo, un proposito di realizzazione personale, la ricerca del successo personale. Invece di rispondere a Dio che c’invia, si cerca una carriera personale, come se potessimo programmare la nostra vita. Talvolta c’è un attaccamento eccessivo al nostro primo amore, alla nostra prima assegnazione. Abbiamo accettato di fare il lavoro richiesto da noi, e l’abbiamo fatto con la corretta intenzione, come nostro dono a Dio. Passato il tempo ci siamo attaccati al nostro lavoro, abbiamo accolto i nostri successi come totalmente nostri. Non siamo riusciti ad accettare il fatto che Dio ha voluto il nostro servizio in questa particolare missione soltanto per alcuni anni. Altri sarebbero stati chiamati a continuarlo, mentre noi avremmo dovuto avanzare per altre strade. Questo è un momento difficile, uguale a quello in cui i genitori devono lasciar partire loro figli adulti. I genitori anziani, che hanno concentrato la loro vita sui figli possono temere per il loro proprio futuro. Cosa faranno più tardi nella vita senza i loro figli? Ma questa è una tappa normale. È il momento in cui si affronta una nuova sfida della vita.
Nella vita religiosa, noi non siamo proprietari del nostro apostolato, e neanche è proprietà nostra la gente che serviamo. Bisogna accettare che, nel momento in cui lasciamo queste persone nelle mani di chi ci succede, noi le lasciamo nelle mani di Dio, e Dio ne prenderà cura. Ciò richiede speranza, accettazione del mistero che si svolge lungo la nostra vita. Una speranza naturale ci fornisce l’energia, lo stimolo necessario per intraprendere sfide difficili. (La parola speranza in polacco è ‘nadzieja’, che vuol dire ‘forza per l’azione’.) La virtù teologale della speranza, focalizzata in Dio, permette alla nostra volontà di accettare la via che Dio ha preparato per noi. Sia Sant’Agostino, come San Giovanni della Croce, vincolano la speranza alla memoria, e ci dicono che per crescere nella speranza bisogna purificare la memoria. Ricordare le cose non è un male. Certamente, una buona memoria è un bene prezioso, ma possiamo attaccarci alle nostre memorie, buone e cattive, e quest’attaccamento deve essere purificato. L’attaccamento a memorie gratificanti può bloccare la volontà di avanzare, di accettare le novità della vita. È normale che un frate che lavora nella cappellania di un’università provi la gioia di servire i giovani mentre maturano. Ma egli aiuta queste persone per poi lasciarle andare, per permettere che vadano in altre città, per formare la propria famiglia, per vivere la propria vita. E quando altri, più giovani di lui lo sostituiscono, il ricordo delle gioie, dell’esperienza pastorale acquisita lungo gli anni, deve essere posta da parte, per accettare un nuovo lavoro, una nuova sfida. Così, anche la memoria di esperienze negative può impedire l’itineranza. Ricordi di situazioni penose, di sofferenze, possono paralizzarci. Chi ha sofferto in una comunità nella quale non è stato apprezzato, non avrà desiderio di ritornarci, non sarà più disponibile in un ambiente simile. Può essere che nel frattempo la comunità sia cambiata, i suoi membri siano maturati, e abbiano abbandonato il loro comportamento poco fraterno. Si riconosce alla comunità il diritto di sbagliare, e di correggersi? Bisogna purificare anche le memorie dolorose affinché cresca la speranza, di modo che si possa accettare con fiducia il mistero divino che si svolge lungo la vita.
La purificazione della speranza ci aiuta a concentrare la nostra attenzione su Dio. E quando Dio è realmente la nostra passione fondamentale, allora siamo liberi per muoverci. L’itineranza domenicana ha bisogno di questa libertà. Il frate, al quale si chiede di andare in un’altra comunità, così come il provinciale, al quale si chiede di mandare un frate, possono fare questo se accettano che Dio li guidi misteriosamente. Se non si aprono al mistero di Dio, protesteranno quando sono loro proposte nuove missioni. Talvolta i provinciali rimangono perplessi quando si chiede loro di offrire un frate che è stato preparato per lavorare in provincia, o quando sta guadagnando denaro per la provincia. Dove è l’apertura al mistero nella speranza?
25. Non è cosa buona che molti incarichi siano legati ad uno stipendio. È vero, le comunità preferiscono avere frati e suore che ricevono regolarmente un reddito. Alcuni ministeri della comunità come tale (e.g. il servizio in un santuario) apportano denaro anch’essi, senza che il religioso sia collegato ad un salario determinato. Un lavoro stipendiato può bloccare l’itineranza. Può portare cioè ad una situazione per la quale un religioso trascorre molti anni facendo lo stesso lavoro, vivendo sempre nello stesso edificio, e nella stessa stanza. Le province che hanno troppi incarichi stipendiati finiscono in stagnazione. Bisogna essere disposti a cambiare certi ministeri, perché la società sta attraversando cambiamenti sociali profondi. I giovani cambiano nel passare di pochi anni, ascoltano musiche differenti, guardano film diversi, cambiano tipi di gomma da masticare. Il cappellano, o formatore di giovani, deve adattarsi costantemente, preparare nuovi temi, nuove conferenze, per non perdere un linguaggio in comune coi giovani. Se in una provincia, in una congregazione religiosa, o in una fraternità laica c’è poco movimento, la routine trasmetterà un’immagine stagnante della Chiesa.
26. E riflettendo sulle difficoltà inerenti all’itineranza, non si possono indicare soltanto quelli che incontrano una certa difficoltà in abbandonare i loro attaccamenti. Qualche volta, un grave blocco psicologico contro l’itineranza può derivare dalla mancanza d’appoggio da parte di coloro che inviano. Quando una provincia apre una missione, questa stessa provincia deve essere responsabile dei frati inviati all’estero. Normalmente, durante un lungo periodo la nuova missione appartiene alla provincia come vicariato provinciale; poi con l’aumento del numero di membri si trasforma in un vicariato regionale, poi generale, quindi vice-provincia e finalmente diventa provincia. Durante questi anni, la provincia madre può inviare i suoi membri nella nuova entità, dapprima in posti di maggiore responsabilità, poi in quelli di cooperazione, e finalmente in dipendenza dai frati autoctoni. Nel decorso di tutti questi anni la provincia madre deve esercitare la sua responsabilità coi frati inviati alla missione distante. Hanno bisogno di incoraggiamento, interesse, e a volte anche di aiuto finanziario. Se il loro lavoro non è visto come missione, ma come rimozione, questo male ripercuoterà scoraggiando altri frati dall’accettare la sfida. Coloro che sono inviati devono sapere che sono inviati e non rimossi. L’itineranza richiede responsabilità, sia da parte di chi è inviato, sia da parte di chi invia.
27. Quando andava da un luogo all’altro, camminando lungo le strade dell’Europa, San Domenico cantava l’Ave Maris Stella. In quest’inno antico s’incontra la frase “Iter para tutum!”. San Domenico chiedeva alla Madonna la sua intercessione affinché la sua strada fosse sicura, perché arrivasse al posto dove voleva andare, e perché i progetti di Dio fossero al cuore delle sue iniziative.


IV - ITINERANZA E MISSIONE
28. L’itineranza è una compagna necessaria alla missione. Questo legame ontologico trova le sue radici nella nostra propria storia e, in un modo speciale, nella vita di San Domenico. Egli scoprì la sua missione “per strada”, e inviò i suoi confratelli – anche i novizi – a vivere “per strada”. I recenti Capitoli dell’Ordine ci hanno ricordato questa storia e ci hanno chiamati a “riprendere la strada”. Il Capitolo di Quezon City nel 1977, è stato forse il primo a dimostrare la consapevolezza che le priorità si sono spostate, e ha visto come prima fra queste “la catechesi in varie culture e luoghi”. Conscio che questa situazione nuova e differente richiamava un nuovo approccio, il capitolo dichiarò, come seconda priorità, “l’addestramento e la preparazione necessaria per predicare in questo mondo nuovo”.
I Capitoli successivi hanno lavorato proprio sul significato e sulle esigenze di queste nuove priorità. Walberberg, nel 1980, ha trattato “l’adattamento delle nostre attività apostoliche secondo le necessità odierne,” ed ha offerto alcune “note specifiche” che la missione e la predicazione domenicane devono avere: “profetiche, fatte credibili dalla povertà, compassionevoli, e fondate su uno studio profondo e scientifico della teologia”[25]. Avila, nel 1986, nel paese stesso di San Domenico, incomparabile “‘uomo della frontiera”, affermò come “missione specifica” dell’Ordine, “l’evangelizzazione alle frontiere”, ed ha indicato le frontiere sulle quali dobbiamo stare e vivere la nostra missione[26]. Oakland, nel 1989, ha sfidato l’Ordine: “Ascoltiamo il richiamo che ci viene dal mondo di oggi?” Oppure, al contrario, abbiamo bisogno di una profonda conversione da “agii e sicurezze [che] producono una mentalità contraria a ogni cambiamento”?. Dobbiamo riprendere “lo spirito di itineranza e mobilità proprio di Domenico … e scoprire di nuovo quella povertà che ci libera per lo Spirito e che ci apre al grido di quelli che stanno nella miseria[27].
Il Capitolo di Mexico City (1992) elenca le reali situazioni e le sfide alla vita apostolica nell’Ordine, e dichiara con audacia: “La nostra volontà [di affrontare queste sfide] nasce dalla fiducia che in qualche parte nel cuore domenicano si trovano i requisiti necessari per attendere a questa chiamata urgente. I semi della nostra tradizione sono pronti a fiorire soltanto se ci sono cuori coraggiosi e generosi per accoglierli.” Il capitolo, inoltre, cita alcune “forze provenienti dalla nostra tradizione”, implicando ciascuna di esse una certa itineranza corporale o mentale: mobilità, prontezza per muoversi senza un ingombrante bagaglio materiale, culturale o intellettuale; rispetto e preoccupazione per gli altri, prontezza per venire incontro alle persone là dove si trovano; apertura, prontezza per ascoltare ed imparare; e comunità, dato che noi non lavoriamo mai soli[28]. Caleruega (1995) ci ha chiamati ad essere ‘fedeli all’itineranza’[29].
Gli ultimi due Capitoli mettono a fuoco la natura dell’itineranza come un “andare oltre”. La missione dell’Ordine, dice Bologna (1998), “richiama l’Ordine ad andare coraggiosamente oltre quelle frontiere che separano i poveri dai ricchi, le donne dagli uomini, [e fra] diverse comunità di fede Cristiana ed altre religioni”[30]. Il Capitolo colloca la missione sulle “linee di rottura” dell’umanità e vede l’Ordine che si sposta “al servizio dell’Altro” pronto ad ascoltare, e ad essere trasformato.
Nella sua Relatio de Statu Ordinis al Capitolo di Providence, il Maestro dell’Ordine ha parlato di “un futuro che abbiamo scelto … come parte di un’itineranza di cuore e di mente e di missione”[31] ed il Capitolo invoca la preoccupazione di tutti, in ogni provincia per una missione per un vicariato: “La provincia deve promuovere uno spirito di itineranza per assicurarsi che ci sono frati facilmente disponibili per un tale servizio”[32]. La riflessione che segue vuole aiutare nel promuovere proprio un tale spirito d’itineranza “di cuore, mente, missione”.
RIPRENDERE LA STRADA
29. Secondo la testimonianza biblica, cose sorprendenti succedono sempre durante un viaggio. Abramo esce correndo dalla sua tenda per accogliere persone sconosciute, che gli promettono un futuro diverso da quello che lui e Sara avevano immaginato (Gen 18. 1-15). Mosè, in fuga, fa l’esperienza di Dio davanti a un roveto che arde e scopre sia un popolo, sia una missione. Dio gli dice, “Ora va! Io ti mando…” e promette: “Io sarò con te” – sempre che il viaggio continui … (Esodo 3. 1-21). Giacobbe, “lungo la sua strada” lotta con l’angelo nel guado dello Iabbok: una storia di conversione e vulnerabilità. Giacobbe, come molti fra noi, ha caratteristiche molto sgradevoli. È un ‘imbroglione’, teme quelli cui ha fatto del male. Suo suocero lo persegue, di dietro e di fronte, Esaù lo aspetta. Poi la lotta, dalla quale Giacobbe esce perdonato e convertito, con un nome nuovo, una nuova missione – e zoppicante.
È mentre era “per strada” che Gesù chiamò i suoi discepoli, e “per strada” che li ammaestra. (Il film di Pasolini sul Vangelo di San Matteo ha un’immagine indimenticabile del Sermone sulla Montagna: Gesù corre sulle colline, coi discepoli che cercano di accompagnarlo per ascoltare le sue parole mentre Gesù volta il capo verso di loro per insegnar loro “per strada”.) Nel Vangelo di Marco (8.1- 10) Gesù dà da mangiare a quattromila “per strada’, quasi fosse un “fast food”. Ed è “per strada” che Gesù ha imparato da quelli che incontrava, come le donne pagane (Mt 15.21-28), che loda, e perfino offre come modello di fede ai suoi stessi discepoli. Infine, è sulla strada di Emmaus che si rivela ai discepoli scoraggiati (Lc 24.13-35).
La missione che affida ai suoi discepoli è proprio questa: un invio, un “mettersi sulla strada”, senza borsa, né bisaccia, né sandali. Dice loro, “Non fermatevi nelle case di quelli che conoscete” (Lc 10.4). Ci sono molte cose interessanti a questo proposito: Gesù li invita ad una vita d’itineranza, ad una vita di urgenza (“continuate a muovervi”) e ad una vita di dipendenza dalla bontà degli altri, stranieri, loro ‘sconosciuti’.
ACCOGLIERE IN SÉ STESSI
30. Essere itinerante significa farsi vulnerabili e dipendenti. Ma l’itineranza è l’unica risposta propria ad un domenicano in un mondo che produce i senza tetto, i sofferenti, e gli sconosciuti. Come i nostri capitoli generali ci ricordano ripetutamente, riprendere la strada significa vivere sulle ‘linee di rottura’ dell’umanità, condividere la sorte di quelli che sono stati resi itineranti. Significa condividere la loro sorte di esseri senza tetto, nella misura in cui prendiamo posizione contraria alle opinioni dominanti.
Walter Brueggemann, scrittore, parla di “monopolio dell’immaginazione”, un’espressione che suggerisce che “un corpo o una forza nella società ha sia la sola voce nel determinare come si deve fare l’esperienza delle cose, sia anche il diritto e la legittimità per fornire le apposite lenti per mezzo delle quali si deve vedere e sperimentare la vita correttamente. A nessuno è permesso avere un’altra immagine al di fuori di queste immaginazioni o immagini approvate’[33]. Prendere posizione contro tali monopoli, così potenti, è uguale a allinearsi con la visione evangelica che Domenico fece propria. (Uno scrittore crede che Domenico abbia mandato i suoi confratelli nelle città, per le università, ma perché era proprio nelle città che si trovavano, prive di diritti, le nuove vittime dell’emergente società mercantile: i domenicani dovevano essere loro ‘fratelli’ (frati).) Prendere una simile posizione significa renderci noi pure vulnerabili ed emarginati. Ma è soltanto lì che la nostra predicazione si fa credibile.
In questo nostro contesto, è interessante rendersi conto che la parola greca usata nel Nuovo Testamento per significare accoglienza (lambano: ‘prendere, ricevere, possedere’) nulla ha da vedere col mettere a parte quelli la cui condotta non è in armonia con la nostra. Il verbo indica invece che dobbiamo “prenderli con noi”, “introdurli calorosamente nella nostra compagnia”[34]. È una parola che San Paolo usa frequentemente nella sua visione di persone sconosciute che cercano una comunità, visione questa radicata nell’esperienza di ciò che Dio fece in Gesù: “In Cristo, Dio riconciliava a sé il mondo … affidando a noi il compito della riconciliazione” (2 Cor 5.19). Ecco perché supplica i Romani di “praticare l’ospitalità” (12.13). Ma per creare amici, o per accogliere gli altri, questi altri devono essere visti, “come noi”, nei bisogni, nelle esperienze, nelle loro speranze. “Non era sufficiente” scrive Christine D. Pohl, “che gli sconosciuti fossero vulnerabili: gli anfitrioni dovevano identificarsi con le loro esperienze di vulnerabilità e sofferenze prima di accoglierli”[35].
Forse il non essere “al proprio posto”, essere in itineranza, in verità, significa essere capace di stare al posto di un altro. Può ben essere anche che il testo più fondamentale per la missione, non sia uno di quei tradizionali brani, come “andate e battezzate”, ma, piuttosto, un brano quale leggiamo nella 2 Cor 1.3-7, che definisce missione come paraklesis, consolazione e conforto. Paolo scrive, “Benedetto sia… il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio…” Interessante in questo brano è l’appello ad un’esperienza reciproca. Anche quello che soffriamo serve per la consolazione degli altri. Qual’altro motivo può esserci, per la missione, se non quello di uscire, come Gesù, “stendere la mano e toccare” (Cf. Mc 1.41), cercando i vulnerabili, per la strada, in un rapporto che guarisce e consola?


CORRERE IL RISCHIO
31. Claude Geffré ha scritto che “la sfida del pluralismo religioso c’invita a ritornare al punto centrale del paradosso Cristiano come la religione dell’Incarnazione e la religione della kenosis di Dio”[36]. Per questo motivo si può parlare del Cristianesimo come di “religione dell’altro.” C’è un che di avventuroso nel viaggio teologico sulle frontiere: ci sfida ad essere veramente domenicani, “riprendendo la strada”, rispondendo alle nuove realtà là dove s’incontrano, divenendo ‘utili’ a quel prossimo che definisce la nostra missione e che determina il luogo dove dobbiamo trovarci.
All’inizio della Bibbia, è scritto che “chiunque volesse consultare il Signore doveva recarsi alla tenda del convegno, fuori dell’accampamento” (Esodo 33.7). È “fuori dell’accampamento”, fra tutti quegli ‘altri’, relegati fuori dell’accampamento, che c’incontriamo con Dio. L’itineranza richiede che andiamo fuori dell’istituzione, fuori delle percezioni e credenze culturalmente condizionate, perché è “fuori dell’accampamento” che incontriamo un Dio che non può essere controllato. È “fuori dell’accampamento” che incontriamo l’Altro che è differente, e che scopriamo chi siamo e cosa dobbiamo fare.
Nel febbraio del 2001, un gruppo di domenicani, uomini e donne, quasi tutti viventi in Asia, si sono radunati a Bangkok, “fuori dell’accampamento”, e hanno condiviso la loro esperienza di ascolto e di conoscenza. “Ci siamo resi conto”, hanno detto, “che la sfida principale per la nostra predicazione domenicana all’inizio di questo nuovo millennio è il dialogo con quelli che provengono da altre tradizioni religiose. È qui, in Asia, il luogo privilegiato per l’incontro con culture differenti, religioni differenti, e popoli differenti, che ci si sfida alla conversione: ad un nuovo modo di ascoltare, vedere, toccare, imparare e comprendere.
“Il dialogo apre una porta su un mondo che non ci è famigliare, di cui non conosciamo ancora i profili esatti – ma il cammino che si fa per andarci ci porterà a casa, perché crediamo sia là che apparteniamo.
“L’Ordine nacque a causa dell’attenzione di Domenico ai bisogni della gente nel mondo in cambiamento del XIII secolo. Come Domenico – e come il monaco Buddista e il sanyyasi Indù – noi siamo chiamati a ritornare sulla strada, per riprendere la nostra eredità di mendicanti, per renderci conto che siamo tutti mendicanti di fronte alla verità, che non vede l’ora di sorprenderci.
“Chiediamo la capacità di fidarci di quello Spirito che traccia, per noi, il nostro cammino, perché noi, come Chiesa e come Ordine, ci siamo donati allo Spirito. Lo Spirito, presente in ogni cultura e in ogni religione – molto prima dell’arrivo della Cristianità –che fa possibile e necessario il dialogo.
“Preghiamo per avere la fiducia del nostro padre, Domenico che, anche senza poter prevedere il risultato, sapeva che stava facendo la volontà di Dio”[37].
Come è significativo per noi Domenicani, cui è affidata la missione universale della predicazione, ricordarsi che Gesù ha incominciato la sua missione nella “Galilea delle Nazioni,” Galilea degli stranieri, metà Gentile quanto alla popolazione, metà pagana nel culto, una terra abitata da un popolo considerato sospetto dall’istituzione in Gerusalemme: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?’ (Giov 1.46). E tuttavia, dopo la Risurrezione, Gesù dice ai suoi discepoli, “Vi precedo in Galilea” (Mt 26.32). Ancor più affascinante è il messaggio di Gesù alle donne: “Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea; e là mi vedranno” (Mt 28.10).
È fuori dell’accampamento, in tutti i galilei che ci circondano, che scopriremo cos’è missione: essere in missione è vivere fuori dell’accampamento. E con gli altri, scoprire chi è Dio veramente. Questa conoscenza avviene ad un prezzo. L’idea di uscire dall’accampamento o dalla tenda per incontrare Dio, s’incontra ancora una volta alla fine della Bibbia, nella Lettera agli Ebrei: “Gesù per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio” (13.12-13). Siamo stati benedetti dall’esempio dei martiri domenicani in Algeria, Pakistan, e in molti altri luoghi, che si sono messi sulle “linee della rottura, fuori dell’accampamento.” Essi hanno “portato il suo obbrobrio”; essi ci “santificano” con il loro sangue. Siamo chiamati come loro ad “andare verso di lui, fuori dell’accampamento” e sopportare quello che Gesù ha sopportato.
Anche i parenti pensarono che Gesù fosse “fuori di sé” (Mc 3.21), così distante dalle norme, così eccentrico nel suo comportamento. Se noi Domenicani dobbiamo adottare la vita apostolica nel mondo di oggi, forse dobbiamo essere un po’ più anormali, un po’ più eccentrici, sbilanciati e “fuori centro”. Che cosa stiamo facendo ora, che possa far credere agli altri che siamo “fuori di noi”? Il rapporto della Commissione de Missione Ordinis ha chiesto: “Se vivessimo quel che predichiamo, se la nostra vita fosse un vero servizio del Vangelo, che ci butta sulla strada al di là delle frontiere, allora saremo visti come dei “fuori di sé”, e un pizzico di pazzia-evangelica abiterebbe, con gioia, in noi’[38].
V - LA PROFESSIONE DOMENICANA, PROFESSIO IN MANIBUS
32. Un breve riferimento storico; fonti bibliche per riconoscere la propria vocazione; echi delle nostre radici contemplative; lo studio e la formazione come un cammino da percorrere; la chiamata alla missione camminando incontro a quanti hanno fame e sete del Vangelo, anche senza saperlo…
Non poteva mancare un riferimento canonico, in questa riflessione comunitaria, fatta “Lettera all’Ordine”!
Attualmente, circondati da incertezze, sembra che cresca in noi il desiderio di conoscere “quel che succederà”, quello che “ci aspetta”, “quanti e quali passi dobbiamo fare per arrivare ad un obiettivo”, “quali tappe bisogna pianificare per ottenere un risultato”, “quanti sono i gradini nella scala fino alla nostra piena realizzazione”. Queste sono cose non aliene alla nostra vita domenicana. Vogliamo, ed esigiamo dagli altri, chiarezza, sicurezza e stabilità! (specialmente da parte dei superiori!).
33. Tuttavia siamo stati chiamati ad essere predicatori, cioè ad essere profeti. Essere profeta non vuol dire conoscere o indovinare il futuro, averlo chiaro, offrire sicurezza. Dio chiamò i profeti a leggere la storia alla luce della sua Parola; a leggere la Parola tastando il polso degli avvenimenti. I profeti non sono chiamati a leggere il futuro come gli esperti di “chiromanzia”.
Le mani, è vero, proiettano quello che sta nel cuore. Ogni gesto delle nostre mani manifesta quello che si riscontra nel nostro interiore. (Non bisogna essere italiani o argentini per costatare questo!).
La dolcezza di una carezza, la durezza di un gesto aggressivo, la vita nelle mani del seminatore, la morte nelle mani assassine…
34. All’inizio della nostra vita domenicana, dopo il tempo del noviziato, tutti noi abbiamo fatto un gesto con le nostre mani, un gesto molto eloquente: abbiamo posto le nostre mani nelle mani di chi ha ricevuto la nostra professione.
La lettura di un articolo di Antoninus M. Thomas OP, nei miei tempi di studente di Diritto Canonico, continua ad ispirarmi mentre scrivo queste cose. Questo grande storiografo del diritto dell’Ordine c’insegna che i domenicani hanno accolto questo gesto centrale del rituale della professione da quello a suo tempo utilizzato dai “conversi” cistercensi[39].
I fratelli conversi di Cîteaux facevano la loro professione nella sala capitolare e nelle mani dell’Abate. Gli altri monaci professavano nella chiesa abbaziale per mezzo di un documento scritto depositato sull’altare come segno d’offerta e di stabilità monastica, (al tempo di San Domenico, questo era anche il rituale dei canonici regolari, tra i quali i Premonstratensi). I monaci e i canonici regolari, infatti, erano legati specialmente al loro monastero e alla chiesa del monastero.
I frati domenicani facevano la loro professione – come i conversi cistercensi – nella sala capitolare, per mezzo dell’offerta nelle mani. Se la oblatio super altare simbolizzava nei monaci e canonici il vincolo con l’abbazia e la chiesa canonicale, la professio in manibus, come elemento centrale della professione domenicana, lascia aperto all’apostolato il cammino dei predicatori.
35. Noi tutti abbiamo fatto professione per mezzo dell’offerta delle nostre mani e, allo stesso tempo, attraverso l’offerta delle mani di chi, sostenendo le nostre, ha ricevuto la nostra professione. È uno scambio mutuo di volontà. Le mani aperte alla grazia di Dio, aperte alla misericordia dei fratelli e delle sorelle coi quali noi compromettiamo il nostro futuro, anche senza conoscerlo!
È un vero segno di mutua fiducia. Il nostro futuro nelle mani dei fratelli. Il futuro dei nostri fratelli nelle nostre mani. Ecco qui tutta la stabilità domenicana! Sostenuta soltanto dalla stabilità della nostra professione di obbedienza!
Nella nostra professione non abbiamo compromesso le nostre vite in un futuro legato ad una determinata “Abbazia” o “Chiesa canonicale”. Ma, talvolta sembra che abbiamo fatto professione di stabilità ad un determinato convento o casa; a certi uffici o responsabilità, o a non assumere nessuna responsabilità; al paese o regione da dove veniamo o dove siamo nati; a determinati luoghi dove ci “sentiamo” bene, in buona compagnia, tra amici…
36. Non mi è ignoto il fatto che l’itineranza domenicana acquista contenuti e caratteristiche diversi in alcuni rami dell’Ordine (penso soprattutto alle monache contemplative ed ai laici). È proprio per questo che noi non abbiamo voluto limitare il significato dell’itineranza nel preparare il bagaglio per andare altrove! Benché, a pensarlo bene, ed è bello costatarlo, anche le nostre monache contemplative e i laici c’insegnano quello che è l’itineranza domenicana.
È vero! Molte monache, con gran generosità, hanno voluto “partire” per fare nuove fondazioni; altre lo hanno fatto per aiutare altri monasteri in necessità. Alcune comunità contemplative – riconoscendo la loro povertà di mezzi, il numero ridotto di suore e la scarsità di vocazioni – hanno deciso di unirsi ad altri monasteri per la vocazione alla quale il Signore le ha chiamate per “vivere in casa unanimi avendo una sola anima e un solo cuore”, ma lontano da quel particolare e concreto monastero nel quale erano una volta entrate.
Sono numerosi anche i laici che si offrono come volontari per annunziare il Vangelo in regioni remote, collaborando con la missione apostolica di comunità domenicane.
37. È triste che – davanti ad ogni assegnazione o cambio d’ufficio o responsabilità comunitaria – noi facciamo obiezioni ai motivi di colui che c’invita a “partire” perché li vediamo soltanto sotto due categorie riduttrici: “quella della promozione dopo un cursus honorum immaginato o meritato”, o “quella del castigo – punizione”. Questo si adegua, chissà, ad altri mondi, mondi ai quali noi abbiamo rinunciato! Come quello imprenditoriale, quello della competitività, quello della carriera politica o accademica. Nella vita domenicana, è proprio questo che distrugge la fiducia, rompe la docilità, ferisce l’itineranza, uccide infinite possibilità.
In molte occasioni prima di un cambiamento, di un’assegnazione, prima di accettare o lasciare un ufficio o una responsabilità, ecc. ci giungono – quasi come “atto riflesso” – frasi come: “in coscienza non lo posso accettare”. Ci dimentichiamo facilmente della celebre distinzione tra “coscienza psicologica” e “coscienza morale”! Confondiamo le nostre emozioni, i nostri sentimenti, la nostra coscienza con il giudizio della ragione pratica, che la nostra professione “nelle mani” ha elevato soprannaturalmente al livello di un atto di fede in Dio e nei fratelli.
38. Da questo gesto così antico ed eloquente della nostra professione domenicana[40], abbiamo incominciato a esperimentare, nella nostra vita, il mistero della Pasqua di Gesù, l’ars moriendi et nascendi; morire per vivere. È per questo motivo che abbiamo posto la nostra vita e il nostro futuro nelle mani altrui.
Nella basilica di Santa Sabina, nostra chiesa conventuale a Roma, c’è un monumento funebre con un’iscrizione suggestiva che vuol sintetizzare la vita del personaggio in questione[41]:
UT MORIENS VIVERET – VIXIT UT MORITURUS
(Per vivere dopo la morte – visse come uno che è destinato a morire)
Gesù disse: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.” (Giov 12, 24). Dopo la risurrezione, quando Tommaso voleva “vedere per credere”, usando mani e dita per “misurare e comprovare” quello che i suoi fratelli gli avevano annunziato, Gesù stesso lo invitava: “guarda le mie mani…”. Dopo la Risurrezione, le mani ferite di Gesù continuano ad essere il segno di un futuro carico di speranza e di vita.
VI - A MODO DI CONCLUSIONE
39. La mattina del 21 maggio del 1992, fra Damian Byrne mi chiese di accompagnarlo al Palazzo San Callisto in Trastevere. Alcuni giorni prima di lasciare Santa Sabina in cammino per il Capitolo Generale del Messico, questo grande missionario domenicano, itinerante e povero, voleva accomiatarsi dal Cardinale Eduardo Pironio[42]. Andando a piedi verso quest’appuntamento, fra Damian mi fece un commento: “non ho mai ascoltato cose così belle su San Domenico e l’Ordine come quelle che il Cardinale disse al Capitolo Generale del 1983”[43].
Volevo conoscere queste parole, così domenicane, dirette al Capitolo di Roma. Nell’Archivio Generale non c’era nessun documento scritto. Solo una cassetta con la registrazione. Confesso che provai una grande emozione quando ascoltai la voce di ambedue: fra Damian Byrne ed il Cardinale Pironio[44]!
Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri.
40. Quando il Signore affida una missione invariabilmente ripete sempre queste tre frasi: “Ecco, io ti mando …” È l’invio, la missione, che viene certamente da Dio. Questa volontà si esprime attraverso quella dei fratelli o delle sorelle, ma la missione viene da Dio: “Ecco, io ti mando …” Questo ci dà molto coraggio e allo stesso tempo una grande serenità.
La seconda frase è “Non abbiate paura…” Questo è molto importante per un predicatore. Che possa essere veramente povero; perché ci sentiamo insicuri di noi stessi, ma fiduciosi in Dio e nei fratelli. Da questa povertà il predicatore acquista una forza speciale che lo rende proprio un profeta di speranza. Il predicatore è uno che, perché povero e basato esclusivamente in Dio, non ha paura, e non permette che gli altri abbiano paura, perché siamo testimoni della Risurrezione!
La terza frase è “Io vado con te …” Il Signore ci accompagna sempre, “Io vado con te, faccio il cammino con te”. Lui ci anima e c’incoraggia a comprometterci profondamente con la missione affidataci da Lui stesso, come predicatori del vangelo in questo momento provvidenziale della Chiesa e della storia.
Il mondo, in modo particolare, aspetta una comunicazione del Verbo di Dio, della Parola di Dio. Santa Caterina – parlando di San Domenico – affermava che “aveva ricevuto l’officio del Verbo”[45]. Ogni domenicano, ogni domenicana, è chiamato per professione a questa missione. Per questo dovrà lasciarsi possedere pienamente dalla parola di Dio al fine di comunicare questa parola fatta carne, fatta storia, fatta gesto concreto. Siamo stati chiamati a comunicare la Buona Novella a tutte le nazioni unendo la verità all’amore, restando fedeli alla verità ed all’amore. Alla verità, perché è quello che è specifico ai domenicani; all’amore, perché amiamo questa verità come si ama una persona. In quest’amore s’appoggia la nostra vita domenicana la quale beve alle fonti della Regola di Sant’Agostino. Ad essa s’ispira San Domenico di Guzman perché ha voluto mandare, oltre i limiti del conosciuto, apostoli contemplativi come Gesù inviò i suoi Apostoli, e in una linea fortemente evangelica.
41. Gesù invitò Pietro a navigare in pieno mare e a calare le reti. Simone – conoscitore di mari, barche, reti e pesca per lunga esperienza – rispose che aveva lavorato tutta la notte senza prendere nulla. Sostenuto, però, dalla parola di Gesù gettò le reti e la pesca fu grande! (Cf. Lc. 5, 4-6). Mi faccio semplicemente eco del Vangelo di Gesù Cristo e dell’invito che il Papa Giovanni Paolo II ci fece alla conclusione del Giubileo del 2000:
“Duc in altum! Andiamo avanti con speranza!… Il nostro passo, all'inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo…”[46].
Il 15 agosto del 1217 – chiamato la “Pentecoste Domenicana” – invocando lo Spirito Santo e riuniti i frati, fra Domenico li informò che aveva deciso nell’intimo del suo cuore di inviarli tutti per il mondo, anche se erano pochi. Alcuni obiettarono alla sua decisione, ma rispose senza incertezze: “Non contradditemi, so bene io quel che faccio”[47]. In questo modo dissipò il loro timore. I frati, confortati dalla sua parola, ubbidirono di buon animo, fiduciosi che tutto sarebbe andato per il meglio[48].
Dicevo che queste pagine – troppe? chissà? lo riconosco – sono frutto di una riflessione comunitaria. Invito a tutti a meditarle, personalmente e anche in comunità, e pregare con me:
“Dio dell’amore e della fedeltà, che ci hai mandato la tua Parola perché fosse il nostro cammino; fa che seguendo questa strada sulle orme di San Domenico, camminiamo con gioia e pensiamo al nostro Salvatore. Amen”[49].
Santa Sabina, 24 maggio 2003, memoria della Traslazione del nostro Padre San Domenico.
fra Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine
Prot.: 50/03/661


[1] A proposito, si sta lavorando nella preparazione di un’edizione coi messaggi più espressivi che fra Aniceto Fernández, fra Vincent De Couesnongle, fra Damian Byrne e fra Timothy Radcliffe hanno indirizzato all’Ordine. Speriamo con ansietà che sia pubblicata in breve, in varie lingue, con il titolo “Laudare – Benedicere – Prædicare – Messaggi all’Ordine (1961-2001)”.
[2] Libellus Iordani de Saxonia n. 14 – Ed. A. Walz OP in MOPH XVI (Romæ 1935) 33-34.
[3] M.-H. Vicaire, Histoire de saint Dominique, Vol. I (Paris 1982) 126.
[4] Cf. Libellus n. 15.
[5] Libellus n. 16.
[6] Giobbe 42, 5.
[7] Cf. Acta Canonizationis S. Dominici – Ed. A. Walz OP in MOPH XVI (Romæ 1935) 161.
[8] Luca 10,38 – 42.
[9] Cf Umberto de Romanis, che contestava quelle persone la cui sola passione è la contemplazione e rifiutano di essere utili agli altri con la predicazione – fonte: Conferenza di fra Paul Murray sulla dimensione contemplativa della vita domenicana, Assemblea Generale nel Capitolo Generale di Providence 2001.
[10] Cf Luca 11:27-28.
[11] Cf per esempio: Matteo 12,50; 21,31; Mc 3,35; Luca 12,47; Giovanni 7,17; 9,31; Efesini 6,6; Ebrei 10,36; 13,21; 1 Giovanni 2,17.
[12] Cf Costituzione Fondamentale; LCM V.
[13] Cf LCM 36.
[14] Giovanni 12:1-3.
[15] Eccles. 3:1-5.
[16] Cf Luca 12:54-56.
[17] Cf Cantico 3:1-3.
[18] Giovanni 4:34.
[19] Cf Giosué 22:5.
[20] Luca 24:13 e seguenti.
[21] Providence N° 355.
[22] Giovanni 21,18.
[23] Fides et Ratio, 48: “E illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione”.
[24] 24 Super Epist. ad Col., 91-92. Cf. Fides et Ratio, 37-8: « Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo » (2, 8) … Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli, in particolare sant'Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei confronti di un'impostazione culturale che pretendeva di subordinare la verità della Rivelazione all'interpretazione dei filosofi… Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il compito di approfondire l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni.
[25] Acta 17, A.
[26] Acta I, 22, 1-5.
[27] Acta 43,I.
[28] Acta 51.
[29] Acta 20.9.
[30] Acta 33.
[31] Acta, prima appendice, 4.3.2.
[32] Acta 461.
[33] ‘Welcoming the Stranger,’ Interpretation and Obedience, Minneapolis MN: Fortress Press, 1991. Pp 290-310.
[34] Ceslas Spicq, traduzione e edizione di James D Ernest, Theological Lexicon of the New Testament, Vol 3, Peabody MA: Hendrikson Publishers, 1996, pp 195-200.
[35] Making Room, Recovering Hospitality as a Christian Tradition, Grand Rapids MI & Cambridge UK: William B Eerdmans Publishing Company, 1999, p 97.
[36] ‘The Theological Foundations of Dialogue,’ Focus, Vol 22, No 1, 2002, pp 15-16.
[37] 37 Statement, Sound the Gong, Conference on Interfaith Dialogue: 2001, ed Vicente G Cajilig OP, Manila: University of Santo Tomas, 2002, p 6.
[38] 4.3.3., A Final Word: Madness.
[39] A Thomas, La profession religieuse des dominicains, in Archivum Fratrum Prædicatorum 39 (1969) 5-52; specialmente 5-22.
[40] Questo gesto risale anche all’homagium feudale del vassallo al suo signore, a certi contratti romani antichi, e anche ad alcuni gesti biblici.
[41] Mi riferisco al monumento funebre del Cardinale d’Auxia († 1484); la traduzione è libera.
[42] Eduardo Francisco Pironio, fece professione in Buenos Aires (1947) come membro del ramo sacerdotale di quello che anticamente era il Terz’Ordine, nelle mani di Fr. Emmanuel Suárez, allora Maestro dell’Ordine. Alcuni anni più tardi completò gli studi teologici all’Angelicum di Roma (1953-1954). Fu Prefetto della Congregazione per i Religiosi ed Istituti Secolari (1975-1983) e Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici (1983-1996). Morì il 5 febbraio del 1998.
[43] Essendo ancora prefetto della “Congregazione per i Religiosi ed Istituti Secolari”, visitò il Capitolo riunito nell’Angelicum il 21 settembre del 1983.
[44] Non si tratta di un testo scritto preparato per l’occasione; su richiesta del Maestro dell’Ordine indirizzò ai presenti alcune parole. Nell’Archivio Generale dell’Ordine si conserva la cassetta con la registrazione dell’incontro (Cf. AGOP III 1983/17 Roma – Cassetta degli interventi).
[45] Dialogo n. 158.
[46] Novo Millennio Ineunte (6.01.2001) n., 58.
[47] Testimonium fratris Iohannis Hispani in Acta Canonizationis S. Dominici - Ed. A. Walz OP in MOPH XVI (Romæ 1935) 144.
[48] Cf. Libellus n. 47.
[49] Liturgia de las Horas O.P. – Edizione tipica in lingua spagnola (Roma 1988) 1811 n. 6.

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