Egli prese l’ufficio del verbo

Scopri

Mettendo sulle labbra del Padre, nel Dialogo della divina Provvidenza, la celebre espressione: «Egli (Do­menico) prese l’officio del Verbo», Caterina da Siena colse meglio di ogni altro la fisionomia evangelica di san Domenico.
Di là dell’iperbole, la frase focalizza l’ispira­zione fondamentale della sua esistenza e l’impostazione essenziale della sua opera. Viene acquistando sempre più credito la convinzione che sia inutile e senza fondamento rivendicare a san Domenico un’originalità specifica al­l’infuori di un ritorno integrale alla forma di vita che, sull’esempio del Maestro, i Dodici avevano condotto.
Gregorio IX che per lunghi anni lo aveva conosciuto e aiutato, con felice obiettività formulava questo giudizio: «In lui ho trovato un uomo che ha attuato interamente la vita degli Apostoli».
Nonostante la relativa scarsità d’informazioni sulla psicologia religiosa di Domenico, brevi accenni indicano le fonti cui egli attinse: «Por­tava sempre con sé il vangelo di Matteo e le lettere di san Paolo, e vi si dedicava al punto da ritenerli pres­soché a memoria», deporrà fra Giovanni di Spagna. Già si è accennato come egli sia stato «ossessionato» dall’Evangelo e incalzato dal tormento di annunziarlo – come Paolo – ad ogni costo.
Tutti gli altri elementi (predicazione, povertà, studio, penitenza, osservanze regolari) rimangono in lui e nella primitiva legislazione totalmente in funzione della grande ispirazione evangelica e mai assurgono come fini a sé.
Lo stesso «superamento» dello stato canonicale e monastico, sul quale troppo indulsero anche di recente teologi e «spirituali», fu semplicemente il risultato di una opzione per la forma di vita più aderente a quella voluta e condotta da Gesù: la predicazione itinerante.
Non dunque una dialettica teologica tra vita contempla­tiva e vita attiva, ma una coerente «imitazione di Cri­sto». Questo spirito lo condusse quasi naturalmente a superamenti, revisioni, mutamenti che senza scosse con­ferirono in crescendo alla sua opera inconfondibili sem­bianti evangelici.
Dalla prima esperienza nel Narbonese fino alla misteriosa visione riferita da Costantino d’Or­vieto, nella quale Pietro e Paolo gli avrebbero conse­gnato il bordone di pellegrino e il Libro santo («Va’ e predica perché Dio ti ha scelto per questo ministero»), si avverte nel patriarca dei Predicatori l’impegno per tra­durre fedelmente l’ideale evangelico, senza nostalgie ar­cheologiche e con la massima efficacia.
Tanto della tradizione canonicale come di quella mo­nastica, le prime Institutiones utilizzano soltanto ciò che è conforme alla vita degli Apostoli: verrà così abbando­nata la «stabilità» che vincolerebbe il Predicatore a un determinato luogo e l’isolamento monastico che ne im­pedirebbe l’azione d’annuncio. Per san Domenico l’am­biente conventuale non è mai una «compensazione» per energie perdute nella predicazione (predicare arric­chisce): esso consente al Predicatore di accrescere, in abscondito, l’intimità con Dio e l’amicizia con Lui, sboc­ciata e fiorita nel contatto di salvezza con i fratelli.
San Domenico concepisce ed attua la predicazione come una contemplazione ad alta voce, l’eco di quell’an­nuncio che il Verbo, incarnandosi, ha trasmesso al mon­do: «Ipse enarravit» (Gv 1, 18).
Dal centro di questa idea-chiave (vita evangelica, pre­dicazione apostolica) emanano altri elementi architetto­nici che si possono – in ordine di originalità – elencare così: studio, povertà, preghiera, vita comune.