Tre caratteristiche emergono in maniera rilevante nella personalità psicologica di san Domenico.
I – Anzitutto un’innata dolcezza, cioè un riverbero di bontà congenita che si manifesta sotto varie forme emotive, facendolo subito apparire dotato di estrema sensibilità. «Per questo – scrive il beato Giordano – egli si attirava facilmente l’amore di tutti; senza difficoltà appena lo conoscevano, tutti cominciavano a volergli bene… Ovunque si manifestava come uomo evangelico, nelle parole come nelle opere».
Le testimonianze sono innumerevoli: dalla compassione verso i sofferenti e i lontani, all’effusione abituale di lacrime durante la preghiera, alla istintiva partecipazione e immedesimazione agli stati d’animo altrui. «Accoglieva tutti gli uomini nell’ampio seno della sua carità e perché tutti amava, da tutti era amato. Faceva sue le parole di san Paolo: “Gioire con chi gioisce, piangere con chi piange”. Traboccante com’era di pietà, si dedicava tutto per aiutare il prossimo e sollevare la miseria. E questo, inoltre, lo rendeva a tutti carissimo: la semplicità del suo agire. Mai nessun segno di doppiezza o di finzione fu riscontrato nelle sue parole o nelle sue azioni».
Significative, ancora, le confidenze poco prima della morte: san Domenico rivela una delicatezza d’animo e una fragranza che si direbbero infantili. E tuttavia la sfera sensibile è serenamente controllata da una padronanza che ignora ogni morbosità, ogni abbandono indebito, ogni ombra di debolezza e di effeminatezza. Una testimone oculare, suor Cecilia, colpita dall’aspetto così gioviale e dal tratto squisitamente umano, asserisce che dal suo volto irradiava una luce diffusa conferendogli un fascino celestiale.
Anche l’esercizio dell’autorità era contemperato dalla sua affabilità: «Egli era gioviale – depose fra Rodolfo da Faenza – cordiale, paziente, misericordioso e consolatore dei suoi fratelli. Se vedeva qualcuno commettere qualche errore, faceva come se nulla fosse; poi, in seguito, gli si rivolgeva con volto calmo e con molta dolcezza gli diceva: “Fratello, ti sei comportato male: riconoscilo”. E le sue parole piene di bontà inducevano tutti ad ammettere il loro operato e a farne penitenza». Domenico puniva con severità le loro trasgressioni, ma l’umiltà con la quale si rivolgeva loro faceva sì che si allontanassero da lui confortati.
II – A questa componente del suo carattere, faceva riscontro e, per così dire, contrappeso un’eccezionale carica operativa. Chi ricostruisca attraverso i documenti l’attività di Domenico nel decennio 1206-1216, rimane sconcertato. Per non dire degli ultimi anni, anzi degli ultimi giorni. Non si riesce davvero più a immaginarlo nel silenzioso chiostro di Osma. Una instancabilità e una resistenza fisica che trova forse in san Paolo il prototipo. Non a torto si è parlato di lui come di un «uomo teso» (Vicaire), appunto incalzato come Paolo dalla «fatalità» di evangelizzare.
L’operosità di Domenico non è soltanto d’indole fisica, ma principalmente un fatto volitivo, un’insospettabile capacità di ripresa, un gettito continuo di energie di fronte a situazioni nuove, una reazione istintiva e immediata in ogni congiuntura avversa, un ritmo di applicazione che oltrepassa senza dubbio la media comune.
Quando poi si situi nel contesto storico la sua esistenza, con le limitazioni nel cibo, le privazioni di ogni agio, i rischi della vita itinerante, la tensione per incarichi di responsabilità, l’assenza di norme igieniche le più elementari, lo stupore cresce a dismisura. E si devono aggiungere le mortificazioni volontarie, le lunghe veglie di preghiera, i gesti persino cruenti (conforme all’ascetica contemporanea e storicamente incontestabile), la fatica per la vociferazione all’aperto, l’applicazione rigorosa allo studio, l’umiliazione bruciante per insuccessi, incomprensioni, diserzioni, ecc.
III – A spiegare sul piano umano questa specie di antitesi tra mitezza innata e costante tensione operativa, sta forse una terza componente del suo carattere: un’apertura mentale che si può senz’altro definire chiaroveggenza di vita. Domenico non fu un genio del pensiero speculativo, ma un uomo che, attraverso l’esperienza e la assimilazione della verità, giunse a una visione sintetica. Ne è sintomatica spia la predilezione per il silenzio: «Non perdetevi in chiacchiere e non sciupate il vostro tempo con pettegolezzi», scrive nell’unica preziosissima lettera pervenutaci, alle suore di Madrid nel 1220; e tutto un paragrafo delle primitive Costituzioni sarà dedicato alla «sanctissima silentii lex».
I testimoni del processo sono unanimi nel rimarcare che egli, anche in viaggio, o pregava od osservava il silenzio per meditare la Parola di Dio; che non si perdeva in parole vane ed esigeva con fermezza l’osservanza del silenzio dai suoi fratelli.
La solida formazione teologica poggiava su una perspicacia naturale che gli consentiva di cogliere, come d’istinto, l’obiettivo valore delle persone, delle situazioni e delle cose. Alieno da ogni compromesso, Domenico dispone di una capacità d’intuito che gli fa prevedere e precorrere l’immediato e gli consente poi di restare irremovibile quando ha preso una decisione.
Riprova di questa lucidità intellettiva è l’oculato vaglio dei collaboratori, la scelta di luoghi strategicamente nevralgici per le prime fondazioni; gli abili approcci con la Curia romana e soprattutto la saggezza di quelle norme che, sotto il nome di Costituzioni, dovevano conferire ai Predicatori una inconfondibile fisionomia, indipendentemente dalla Regola di sant’Agostino.
Sarà ancora il suo intuito, sorretto dall’impegno di fedeltà evangelica, a dissuaderlo dal circoscrivere la vocazione apostolica a determinate categorie o ceti (e ciò, purtroppo, fu da alcuni misconosciuto per inconsistenti preoccupazioni apologetiche), assicurando così al suo Ordine una perenne attualità, piuttosto rara in altre istituzioni contemporanee o successive.
(da: V. Ferrua – H. Vicarie, San Domenico e i suoi frati, Gribaudi, 1984)