Tommaso inizia la sua riflessione filosofica partendo dai problemi più sentiti del suo tempo, tutti incentrati però sull’essere e la sua intelligibilità. Ed era proprio su queste linee che all’università di Parigi si stava affermando Aristotele rispetto a Platone, da secoli preferito in tutta la tradizione cristiana per il suo richiamo allo spirito e la sua svalutazione della materia e quindi del mondo terreno. Ora, soprattutto con l’avanzata dell’Averroismo e la lotta per l’autonomia della filosofia dalla teologia, l’Aristotelismo appariva come una riabilitazione della natura e della materia in genere. Se per la maggior parte dei cattolici dell’epoca ciò appariva come un pericolo per la fede, per Tommaso non solo non v’era alcun pericolo ma era l’unico modo per recuperare la positività e la bontà di ogni creatura come voluta e creata da Dio. Se nel sistema platonico, non partecipando alla bontà la materia non partecipava propriamente all’essere, ora la svolta aristotelica permetteva di recuperare l’essere nella sua totalità ed integrità, oltre che nella sua spiritualità e materialità.
Ristabilita dunque l’integrità dell’essere, al di là della sua spiritualità o materialità, è chiaro che esso è il concetto più idoneo a fondare qualsiasi filosofia. L’essere, dice Tommaso, è ciò che per primo viene concepito dall’intelletto quasi notissimo e nel quale si risolvono tutti gli altri concetti [1]. L’analogia entis è la chiave di volta del suo sistema filosofico applicato alle varie scienze e soprattutto alla teologia. Tutto si risolve dunque nel concetto di “essere”, prestando tuttavia attenzione alla multiformità delle sue manifestazioni. Tale modo di affrontare il problema centrale, quello dell’essere, se rapportato alla sua intelligibilità, permette di procedere sia a partire dalla gnoseologia (teoria della conoscenza) sia dalla ontologia (teoria dell’essere). Per meglio evidenziare la novità rispetto alla scolastica tradizionale è opportuno partire dalla gnoseologia.
Seguace dell’impostazione aristotelica di Alberto Magno, che appariva rivoluzionaria negli ambienti religiosi, e sulla scia di Abelardo, Tommaso affrontò il problema degli universali, prendendo un atteggiamento intermedio tra i realisti e i nominalisti. I primi ritenevano che l’elemento comune (l’universale appunto) nei singoli individui della stessa specie fosse esistente per sé (come le idee di Platone), i secondi non solo ne negavano tale esistenza autonoma, ma rigettavano anche qualsiasi tipo di comunanza, se non quella convenzionale umana per indicarli (il famoso flatum vocis). Già Abelardo (+1142) aveva preso una posizione diversa, quella del concettualismo, che negava l’esistenza autonoma dell’idea-universale, ma riconosceva un certo fondamento nella cosa. S. Tommaso si ispirò a questa soluzione, e la sua posizione fu qualificata come realismo moderato.
Tale nuova impostazione si allontanava dalla tradizione agostiniana e platonica che vedeva in Dio l’inizio del processo conoscitivo. La tradizione aristotelica fatta propria da Alberto e Tommaso individuava il punto iniziale della conoscenza nei sensi. Il modo infatti per raggiungere il concetto universale è il seguente: La conoscenza intellettiva in qualche modo ha origine dalla sensitiva. E poiché i sensi si rapportano alle cose particolari come l’intelletto alle universali, è necessario che la conoscenza delle cose particolari rispetto a noi sia precedente alla conoscenza delle universali .[2] La conoscenza non si ferma quindi alle idee all’interno dell’intelletto stesso (come volevano i platonici), ma è proiettata verso il mondo esterno. L’intelletto, d’altra parte, venendo a contatto con la cosa sensibile costituisce dentro di sé una somiglianza della cosa, la cosiddetta specie intelligibile, che è appunto la forma mediante la quale l’intelletto conosce. Così mentre la res resta fuori, la specie astratta da essa viene a far parte del modo della conoscenza[3].
Pertanto, sin dal primo momento in cui l’intelletto entra in contatto con l’essere sensibile, lo stesso intelletto procede a rendere tale essere intelligibile. Contemporaneamente avverte in sé la distinzione dell’essere dal nulla. L’esperienza di questo primo impatto, dunque, è in contrasto col realismo esagerato (essendo l’intelletto umano a rendere intelligibile l’oggetto, e non viceversa), come pure col nominalismo (la stessa intelligibilità implica effettivamente un qualcosa di comune e l’impossibilità che l’oggetto si riduca alla sua individualità chiusa).
Venendo dunque a contatto con l’essere, l’intelletto ha subito la primorum principiorum notitia[4]. Si formula quindi nella mente il principio di identità, quello di non contraddizione, la concezione dell’essere come sostanza ed accidenti, la causalità efficiente di ogni fenomeno, la finalità, cioè che ogni agente agisce per un fine.
Come Aristotele, anche Tommaso ritiene che ogni essere materiale o limitato sia composto di potenza ed atto,da cui derivano le successive ed analoghe distinzioni di materia e forma, essenza ed esistenza. C’è però una differenza: Potenza ed atto sono i primi principi nell’ordine della sostanza, mentre materia e forma sono i primi principi nell’ordine della sostanza mutevole. Per cui non è necessario per ogni composizione nella categoria di sostanza di essere fatta di materia e forma; soltanto nella sostanza mutevole ciò è necessario. Distinzioni che permettono di stabilire differenze importanti nel concepire ad esempio realtà molto diverse, come gli esseri creati materiali, gli esseri creati immateriali e Dio stesso. Soltanto Dio è atto puro in quanto la sua essenza si identifica con la sua esistenza.
Egli è l’Essere stesso eternamente sussistente[5]. Interpretando aristotelicamente persino lo Pseudo-Dionigi[6] (che invece parlava di Dio come di un mondo al di sopra dell’essere), Tommaso distingue Dio dal mondo ricorrendo non a concetti diversi dall’essere, ma a qualificazioni diverse dell’essere (sussistente e partecipato).
E’ da notare che tali concetti metafisici venivano considerati altrettanto importanti dal punto di vista della fede quanto i concetti teologici. Questi ultimi infatti molto spesso mutavano col mutare dei primi, come nel caso ad esempio dell’unicità dell’anima nell’uomo, decisamente affermata da Tommaso[7] e negata con foga dai teologi francescani, che preferivano parlare di un’anima razionale, di un’anima sensitiva, di un’anima vegetativa. Anche la distinzione di essenza ed esistenza nell’essere creato (negata ad esempio dal Suarez nel XVI secolo) aveva delle ripercussioni in teologia, permettendo ad esempio a s. Tommaso di spiegare agevolmente la realtà dell’unione ipostatica, ove la natura umana non ha un’esistenza a sé stante, ma viene attualizzata dalla persona del Logos.
Ecco perché nel medioevo gli errori filosofici venivano colpiti da scomuniche (e persino S. Tommaso ne fu vittima). A motivo della conseguenzialità logica, certi presupposti filosofici erano considerati veri e propri canali di errori teologici e quindi di eresie.