L’Uomo e la Morale

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Per quanto riguarda la provvidenza e la predestinazione, s. Tommaso non sembra discostarsi granché da Agostino, anche se taluni aspetti restano controversi, come dimostra la Scolastica del XVI secolo.  In generale, però, Tommaso sembra più equilibrato di Agostino per quanto riguarda la mozione divina.  Per lui Dio muove la volontà dell’uomo, essendo lui il motore universale che muove la volontà verso il suo oggetto che è il bene.  Ma è l’uomo però che, con la ragione, si determina a volere questo o quello[1].  Tuttavia, anche s. Tommaso parla di una predestinazione in cui Dio permette una impenitenza finale [2] .
Seguendo l’impostazione del “De Sacramentis” di Ugo di San Vittore e delle “Sentenze” di Pietro Lombardo, dopo aver parlato di Dio e della Trinità, Tommaso parla della creazione degli angeli.
Per la teologia degli angeli, sua fonte principale è lo Pseudo Dionigi con la sua gerarchia celeste, cui aggiunge i princìpi metafisici e psicologici aristotelici.  Gli angeli non sono composti di materia e forma, ma sono puri spiriti e si distinguono quindi come individui non per la materia, bensì per la specie.  Dotati di intelligenza e volontà, gli angeli conoscono intuitivamente e non razionalmente [3].  Sono anche lo strumento (es. l’angelo custode) con cui Dio governa il mondo.

Nel più vasto quadro della creazione, e nell’ordine indicato dal Libro della Genesi, S. Tommaso passa a trattare dell’uomo [4], e dell’anima, che è corporis actus, seu principium vitae. Tra gli esseri corporei, dunque, quello che emerge è l’uomo, dotato di intelletto e di volontà, oltre che di quella dignità che deriva dall’anima spirituale per essenza.  L’anima è poi immortale, diversamente da quanto aveva affermato Averroé (che riconosceva l’immortalità solo all’anima intellettiva universale, che sarebbe unica “per tutti e priva del principio di individuazione che implica sempre materia”)[5].  Da notare qui la differenza fra s. Tommaso da una parte e s. Bonaventura e Duns Scoto dall’altra, che ammettevano una “materia primo prima” in ogni realtà contingente.  Per Tommaso è proprio la semplicità spirituale dell’anima e la sua indipendenza dalla materia a garantirne l’immortalità[6]. E sempre sull’anima è l’altra differenza dalla scuola francescana, vale a dire l’unicità (già menzionata). L’anima razionale è infatti per Tommaso la forma sostanziale del corpo umano, per la quale esso vive la vita vegetativa, sensitiva e intellettiva[7]. L’impatto della metafisica sulla teologia è qui più evidente che mai, come dimostra il vivace dibattito del 1270. Da una parte i Domenicani ritenevano la posizione francescana (anima fatta di materia e forma) pericolosa ai fini della dimostrazione dell’immortalità dell’anima. Dall’altra i Francescani capovolgevano l’accusa, a motivo della “commistione” dell’anima spirituale con la vegetativa e la sensitiva.

La morale tomistica viene esposta nella Prima Pars e nella Secunda Secundae della Summa.

Essa è concepita come l’insieme delle regole delle attività umane, osservando le quali l’uomo ha la possibilità di tornare a colui che l’ha creato, di pervenire cioè alla beatitudine[8].  Fondamento della moralità è la legge naturale che è valida per tutti gli esseri viventi: L’ordine dei precetti della legge naturale è l’ordine delle nostre inclinazioni naturali. Poiché c’è nell’uomo una inclinazione primaria e naturale verso il bene, cosa che ha in comune con tutti gli esseri, in quanto ogni essere desidera la conservazione della propria esistenza secondo la propria natura.[9]
Tommaso procede quindi ad analizzare gli atti umani, la cui specificazione morale è determinata dall’oggetto voluto, dal fine e dalle circostanze[10].  Ovviamente, gli atti umani non hanno tutti le stesse caratteristiche. Propriamente umani sono quegli atti che procedono da una scelta ragionata e ponderata, mentre sono soltanto dell’uomo quelli che gli vengono in modo involontario, senza la dovuta libera scelta e delle quali non ha piena padronanza.
C’è dunque uno stretto rapporto fra la volontà ed il fine. Questo, infatti, è il principio della volontà, cioè l’oggetto dal quale l’atto procede, nonché il termine della volontà, ciò verso il quale essa tende. I fini particolari non sono che momenti del fine ultimo, che è la beatitudine, vale a dire la visio divinae essentiae, che in questa vita è una conoscenza molto imperfetta.
Naturalmente nel valutare l’atto umano va considerato il grado di volontarietà, nonché le circostanze che in diversa misura l’hanno condizionato, ricordando che l’intelletto muove la volontà quoad determinationem actus, mentre la volontà muove l’intelletto quoad exercitium actus. Quindi nel giudicare della bontà morale di un’azione o della sua malvagità è necessario tener conto non soltanto dell’oggetto verso il quale si dirige, ma anche del fine che si propone e delle circostanze entro le quali si muove.
A muovere l’uomo ad agire è la passione che, in quanto tale, si trova nella parte sensitiva o, meglio, nell’appetito sensitivo, piuttosto che nella ragione o nella volontà. Ma, nel momento in cui intervengono ragione e volontà, gli atti che derivano dalle passioni assumono i connotati della responsabilità morale, e cioè possono essere qualificati buoni o cattivi. Ciò significa che quando si parla di passione non si intende qualcosa di cattivo di per sé, ma che se ben moderata e indirizzata diventa quella che noi chiamiamo virtù. Le principali passioni dell’uomo sono la gioia, la tristezza, la speranza,  la paura e l’amore.
Tra le passioni dell’anima una delle più importanti è dunque l’amore, che si può manifestare in forma di concupiscenza o di amicizia. A muovere questa passione è comunque sempre il bene, in quanto male numquam amatur, nisi sub ratione boni. L’amore in azione porta all’unione con l’amato, mentre la passione opposta porta all’odio. Forme particolari sono la delectatio e la concupiscentia.

Le virtù morali sono di diverso tipo, come diverse sono le potenze appetitive dell’anima. Tali virtù morali si distinguono circa operationes e circa passiones.  Alla prima categoria appartiene, nelle sue molteplici manifestazioni, soltanto la giustizia, che è secundum debitum ad alterum. La molteplicità è data dal fatto che la ratio debiti ad alterum si presenta in diverse vesti e prospettive. Più che ogni altro teologo del tempo, Tommaso si sofferma su questa virtù della giustizia.
Egli l’analizza in tutti i suoi aspetti, legali ed umani, ponendo in rilievo tutti i modi in cui la si può violare.
Nell’ambito della trattazione si sofferma anche sul diritto alla proprietà privata[11].

Per il resto, le virtù morali circa passiones si distinguono in base al diverso oggetto delle passioni stesse. Le virtù cardinali sono quattro, vale a dire la prudenza (bonum rationis), la giustizia (circa operationes), la fortezza e la temperanza (circa passiones). Anche le virtù teologali (fede, speranza e carità) sono propriamente virtù, poiché vi sono delle leggi (praecepta legis) che le riguardano. Si distinguono tuttavia dalle virtù intellettuali e dalle virtù morali in quanto, essendo ordinato alla beatitudine soprannaturale (Dio in quanto oggetto e fine ultimo), l’uomo necessita di virtù infuse.
La virtù può essere dunque definita come quella buona qualità della mente, grazie alla quale si vive rettamente, per la quale nessuna cosa è usata male, o che Dio opera in noi senza di noi: infatti la buona qualità o habitus è la forma della mente, è la materia nella quale recte vivitur, è il fine che Dio opera, causa efficiente de infusis dempta ultima particula de acquisitis [12].
Il contrario della virtù è il vizio, cioè l’habitus o dispositio non conveniens suae naturae. L’atto che ne deriva si chiama peccato.
Parlando sia delle virtù infuse che del peccato si è entrati così nella categoria fondamentale della morale tomistica che è l’habitus. Tratti (eliciti) dalle facoltà, gli atti procedono infatti anche dagli habitus, che sono appunto quei principi interni (infusi o acquisiti) o predisposizioni costanti, che servono a facilitare il movimento della volontà verso l’oggetto.  Gli habitus si trovano nelle potenze dell’anima, ed in una potenza possono esservi più habitus, in quanto questo è la dispositio potentiae ad actum.

Quando l’operatività è facilitata, questi habitus o disposizioni permanenti vengono a costituire le già menzionate virtù (intellettuali, morali, teologali), quando è ostacolata si tratta di vizi [13]. Nell’intelletto (possibile) l’habitus caratteristico è la scienza, nella volontà è la giustizia. Nel caso dell’habitus come vizio, all’habitus caratterizzato da una disposizione non confacentesi alla propria natura va a corrispondere un  atto peccaminoso. E così il peccato si configura come “il fare, dire o desiderare qualcosa contro la legge eterna”.

Ma c’è anche una legge terrena, che regola i rapporti sociali degli uomini. Anche se regola i rapporti esteriori, la legge  è non solo utile ma necessaria a conseguire quella perfezione che proviene dall’astenersi dalle cose illeciti cui l’uomo è spesso propenso. Il suo criterio è il bene comune, per cui giustamente l’uomo vede limitare la sua libertà. E quindi giustamente si parla di lex, in quanto lex dicitur a ligando, quia obligat. Tuttavia, essendo l’uomo limitato e condizionato, anche le sue leggi non sono di per sé giuste, nel senso che non sempre aiutano l’uomo a crescere nella perfezione spirituale e nell’avvicinamento a Dio. Di conseguenza obbliga in coscienza soltanto la legge giusta (che partecipa della legge eterna), mentre non obbliga la lex tyranni vel contra Deum.

La virtù, sia interiore che sociale, è la via per tornare a Dio. In questo cammino di ritorno a Lui, Dio non lascia l’uomo solo, ma interviene con la sua grazia.  Questa è resa necessaria sia per amare Dio che per conoscerlo, principalmente perché l’uomo, dopo il peccato originale, ha visto ulteriormente limitare le sue facoltà, già di per sé ristrette al mondo della corporeità.  Tale grazia entra in contatto con l’essenza dell’anima (grazia abituale) oltre che sugli atti concreti (grazia attuale).  Essa può essere solo “sufficiente” (crea cioè le condizioni) o anche “efficace” (Dio vuole che l’atto sia voluto e fatto dall’uomo).  Lungi dal mortificare la libertà umana, la grazia di Dio la eleva e la perfeziona[14].


[1] Cfr. Summa Theologiae, Iª IIªe , q. 9, a.6, ad 3.
[2] Cfr. Summa Theologiae, Iª, q. 23.
[3] Sull’argomento vedi soprattutto l’incompiuto De spiritualibus creaturis, ed il De aeternitate mundi.
[4] Summa Theologiae, I pars, q. 75.
[5] Cfr. Summa contra gentes, II, 81; vedi anche De spiritualibus creaturis.
[6] Cfr. De anima, a. 14.
[7] Summa Theologiae, I pars, q. 76, a. 4.
[8] Questo concetto è bene espresso nella Summa contra gentes, II, 20
[9] Cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2.
[10] Commento all’Etica Nicomachea, I, 1.; Summa contra gentes, , III, 2.
[11] Cfr. Summa Theologiae, II-II, qq. 57-122.
[12] Ivi, q. 55, a. 4.
[13] Ivi,  I-II, q. 49, a. 1; q. 50, a. 3; q. 51, a. 3; q. 52, a. 3; q. 53, a. 3; q. 55, a. 4.
[14] Ivi,  I-II, q. 109.